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Resoconto integrale delle discussioni
Giovedì 23 giugno 2005 - Bruxelles Edizione GU

Programma di attività della Presidenza britannica
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  Tony Blair, Primo Ministro del Regno Unito. – (EN) Signor Presidente, onorevoli deputati, distinti ospiti, è un onore essere qui presente oggi, in seno al Parlamento europeo. Con il vostro permesso, vorrei tornare in Aula dopo ogni Consiglio europeo che si svolgerà durante la Presidenza britannica per informare l’Assemblea. Sarò altresì lieto di consultare il Parlamento prima di ogni Vertice, al fine di apprendere il parere di quest’Aula prima delle delibere del Consiglio.

Questa mia dichiarazione giunge al momento opportuno. Al di là di qualsiasi altra divergenza presente oggi in Europa, tutti sono d’accordo almeno su un punto: l’Europa è nel mezzo di un dibattito profondo sul suo futuro. Oggi vorrei parlare in modo schietto di questo dibattito, dei motivi per cui è necessario e del modo in cui risolverlo. Ogni crisi presenta un’opportunità. Esiste ora un’opportunità per l’Europa, se abbiamo il coraggio di coglierla.

Il dibattito sull’Europa non deve essere uno scambio di insulti, né deve essere caratterizzato da personalismi. Deve essere uno scambio di idee aperto e onesto. Per cominciare, vorrei illustrare chiaramente il modo in cui definisco il dibattito e le divergenze di fondo. Non si tratta di scegliere tra un’Europa “del libero mercato” e un’Europa sociale, tra chi vuole ripiegare sul mercato comune e chi crede nell’Europa come progetto politico. Non si tratta solo di mistificazione. Questa interpretazione mira a intimidire chi vuole cambiare l’Europa, presentando il desiderio di cambiamento come un tradimento dell’ideale europeo; si tenta di impedire un dibattito serio sul futuro dell’Europa, affermando che il fatto stesso di insistere sulla necessità di tale dibattito significa abbracciare l’antieuropeismo. E’ un atteggiamento contro cui mi sono battuto per tutta la mia vita politica. Gli ideali sopravvivono grazie ai cambiamenti e muoiono per l’inerzia di fronte alle sfide.

(Applausi)

Sono un convinto europeista. Lo sono sempre stato.

(Reazioni diverse)

Mi domandavo se sarebbe stata una discussione vivace e sono lieto di constatare che lo è.

(Si ride)

Si chiama democrazia, e che possa durare a lungo!

(Applausi)

Ho votato per la prima volta nel 1975, al referendum britannico sull’adesione, e ho votato “sì”. Poco prima delle elezioni britanniche nel 1983, quando sono stato l’ultimo candidato a essere scelto nel Regno Unito, e quando il mio partito seguiva una politica di ritiro dall’Europa, ho detto alla conferenza selezionatrice che non ero d’accordo su tale politica. Alcuni pensarono che avessi perso la selezione, e forse alcuni preferirebbero che fosse andata così.

(Si ride)

Tuttavia, ho poi contribuito a modificare tale politica negli anni ’80 e sono orgoglioso di tale cambiamento. Da quando sono diventato Primo Ministro, ho firmato il capitolo sociale europeo; ho contribuito, assieme alla Francia, a creare la politica di difesa europea moderna; ho svolto la mia parte nei Trattati di Amsterdam, Nizza e Roma.

Questa è un’Unione di valori, di solidarietà tra nazioni e popoli...

(Applausi)

… non solo un mercato comune in cui si effettuano scambi, ma anche uno spazio politico comune in cui viviamo come cittadini. Lo sarà sempre. Credo nell’Europa come progetto politico. Credo in un’Europa con una dimensione sociale forte e altruistica. Non accetterei mai un’Europa che fosse solo un mercato economico.

(Applausi)

Affermare che è questo il problema significa sottrarsi a un dibattito reale e rifugiarsi nella situazione di comodo offerta da ciò che diciamo sempre nei momenti di difficoltà. Non esiste alcuna divisione tra l’Europa necessaria per il successo economico e l’Europa sociale. L’Europa politica e l’Europa economica non vivono in camere separate. Lo scopo dell’Europa sociale e dell’Europa economica è sostenersi a vicenda. Lo scopo dell’Europa politica è promuovere istituzioni democratiche ed efficaci al fine di elaborare una strategia in questi due ambiti e in generale là dove vogliamo e dobbiamo cooperare nel nostro reciproco interesse. Lo scopo della leadership politica è definire le politiche adeguate per il mondo di oggi.

I leader europei lo hanno fatto per 50 anni. Parliamo di crisi, ma parliamo prima di risultati. Alla fine della guerra, l’Europa era in rovina. Oggi l’Unione europea rappresenta un monumento ai successi politici: quasi 50 anni di pace, 50 anni di prosperità, 50 anni di progresso. Pensateci, dobbiamo essere tutti grati e fieri di ciò che è avvenuto in Europa in questi ultimi 50 anni.

(Applausi)

L’intero corso della storia è dalla parte dell’Unione europea. I paesi di tutto il mondo oggi si uniscono perché la cooperazione collettiva accresce la loro forza individuale. Fino alla seconda metà del XX secolo, le singole nazioni europee per secoli avevano dominato il mondo, colonizzato vaste regioni e combattuto guerre l’una contro l’altra per la supremazia mondiale. Poi, dopo la carneficina della Seconda guerra mondiale, i leader politici hanno trovato ispirazione e sono riusciti a comprendere che quell’epoca era finita. Il mondo di oggi non sminuisce tale visione: ne dimostra la preveggenza.

Gli Stati Uniti sono l’unica superpotenza mondiale. Tuttavia, fra pochi decenni la Cina e l’India saranno le più grandi economie del mondo, ciascuna con una popolazione tre volte quella dell’intera Unione europea. L’idea di un’Europa unita e che opera insieme è oggi essenziale per permettere alle nostre nazioni di essere abbastanza forti da mantenere il nostro posto nel mondo.

Ora però, a distanza di quasi 50 anni, occorre rinnovarsi. Non vi è motivo di vergognarsene. Tutte le istituzioni devono farlo, e possiamo farlo anche noi, ma solo se riusciamo a trovare un connubio tra gli ideali europei in cui crediamo e il mondo moderno in cui viviamo. Se non lo facciamo, se l’Europa dovesse ritirarsi nell’euroscetticismo, o se le nazioni europee, di fronte all’immensa sfida che ci attende, decidessero di stringersi insieme nella speranza di poter evitare la globalizzazione, di sottrarsi al confronto con i cambiamenti intorno a noi, di rifugiarsi nelle politiche europee attuali, come se ripetendole continuamente, l’atto stesso della ripetizione le rendesse più pertinenti, allora l’Europa rischia di fallire, e di fallire su scala strategica enorme. Non è il momento di accusare di tradimento chi vuole cambiare l’Europa. E’ il momento di riconoscere che solo con il cambiamento l’Europa recupererà la sua forza, la sua importanza, il suo idealismo e quindi il sostegno dei cittadini.

(Applausi)

Come sempre, le persone sono un passo avanti rispetto ai politici. Come classe politica pensiamo sempre che la gente, che non è ossessionata dalla politica quotidiana, potrebbe non comprenderla, potrebbero non coglierne le sfumature e le complessità. In ultima analisi, la gente ha sempre un’idea della politica più chiara della nostra, proprio perché non ne è ossessionata a livello quotidiano.

Non si tratta quindi dell’idea dell’Unione europea, ma di modernizzazione e di politiche. Il dibattito non verte sul modo in cui abbandonare l’Europa, ma sul modo in cui farle fare ciò per cui è stata creata: migliorare la vita delle persone. In questo momento, i cittadini non ne sono convinti.

Esaminiamo la questione. Per quattro anni l’Europa ha condotto un dibattito sulla nuova Costituzione, di cui due anni in sede di Convenzione. E’ stato un esercizio particolareggiato e attento, che ha definito le nuove norme per governare un’Europa a 25 e poi, col tempo, a 27, 28 e più Stati membri. La Costituzione è stata approvata da tutti i governi. E’ stata sostenuta da tutti i leader politici. E’ stata poi completamente respinta nei referendum in due Stati membri fondatori, nel caso dei Paesi Bassi da oltre il 60 per cento degli elettori. La realtà è che, almeno in questo momento, garantire il “sì” in un referendum nella maggioranza degli Stati membri sarebbe difficile.

Esistono due spiegazioni possibili. Una è che i cittadini abbiano studiato la Costituzione e si siano trovati in disaccordo con i suoi articoli specifici. Dubito che questo sia il motivo della maggioranza di “no”. Non è un problema di formulazione o di disaccordo su aspetti specifici del testo. L’altra spiegazione è che la Costituzione sia stata solo un veicolo che ha permesso ai cittadini di esprimere il loro ampio e profondo scontento sulla situazione in Europa. Ritengo sia questa l’analisi corretta. Se è così, non si tratta di una crisi delle Istituzioni politiche. Si tratta di una crisi di leadership politica.

(Applausi)

I cittadini d’Europa ci pongono quesiti difficili. Si preoccupano della globalizzazione, della sicurezza del lavoro, delle pensioni, del tenore di vita. Vedono mutare non solo la loro economia, ma anche la società attorno a loro. Le comunità tradizionali si sgretolano. Cambiano i modelli etnici. La vita familiare è in crisi, perché le famiglie fanno fatica a conciliare lavoro e vita privata. Viviamo in un’epoca di profondo perturbamento e cambiamento. Guardate i nostri figli, la tecnologia che usano e il mercato del lavoro che li attende. Il mondo è irriconoscibile rispetto a quello in cui vivevamo da studenti 20 o 30 anni fa. In presenza di un cambiamento di tale portata, devono essere i moderati ad assumere la leadership. In caso contrario, gli estremisti guadagneranno terreno nei processi politici. Succede all’interno di una nazione. Sta succedendo ora in Europa.

Riflettete. La dichiarazione di Laeken, che ha lanciato la Costituzione, era intesa a, cito: “avvicinare l’Europa ai cittadini”. Lo ha fatto? L’agenda di Lisbona è stata lanciata nel 2000 con l’ambizione di rendere l’Europa, cito: “l’economia più competitiva del mondo entro il 2010”. Siamo a metà di tale percorso. Ha avuto successo? Ho ascoltato innumerevoli conclusioni del Consiglio che descrivono il modo in cui stiamo ricollegando l’Europa ai cittadini, ma lo stiamo facendo davvero?

E’ ora di confrontarsi con la realtà e di reagire. I cittadini suonano le trombe attorno alle mura della città. Li stiamo ascoltando? Abbiamo la volontà politica di uscire e incontrarli, affinché considerino la nostra leadership collettiva come parte della soluzione e non del problema?

(Applausi)

Questo è il contesto in cui va inserito il dibattito sul bilancio. I cittadini affermano che ci occorre il bilancio per ridare credibilità all’Europa. E’ chiaro che ne abbiamo bisogno, ma deve essere il bilancio giusto. Non può essere separato dal dibattito sulla crisi dell’Europa, deve essere parte della risposta a tale crisi.

Vorrei spendere un paio di parole sul Vertice di venerdì scorso. Alcuni hanno affermato che non ero disposto ad accettare compromessi sulla riduzione concessa al Regno Unito, che ho sollevato la questione della riforma della politica agricola comune solo all’ultimo minuto, che mi aspettavo di rinegoziare la PAC venerdì notte. In realtà, sono l’unico leader britannico ad aver mai espresso la disponibilità a mettere la riduzione sul tavolo negoziale. Non ho mai affermato che dovremmo smantellare la PAC o rinegoziarla nel giro di una notte. Sarebbe una posizione assurda. Qualsiasi cambiamento deve tenere conto delle esigenze legittime delle comunità agricole e deve avvenire col tempo. Ho solo detto due cose: che non possiamo definire nuove prospettive finanziarie che non diano almeno inizio a un processo che porti a un bilancio più razionale…

(Applausi)

… e che ciò deve permettere a tale bilancio di impostare la seconda metà delle prospettive fino al 2013. In caso contrario, arriveremo al 2014 prima che qualsiasi cambiamento fondamentale possa essere deciso, figuriamoci attuato. Nel frattempo, la Gran Bretagna chiaramente pagherà la sua intera quota dell’allargamento. Potrei rilevare che in ogni caso resteremo il secondo contributore netto al bilancio dell’Unione europea e nelle prospettive finanziarie attuali abbiamo pagato miliardi in più rispetto a paesi di dimensioni analoghe alle nostre. Questo è il contesto reale per il dibattito sul bilancio.

Che forma dovrebbe dunque assumere una diversa agenda politica per l’Europa? In primo luogo, deve modernizzare il nostro modello sociale. Anche in questo caso, alcuni hanno affermato che voglio abbandonare il modello sociale europeo. Ma ditemi, che tipo di modello sociale è quello che vede 20 milioni di disoccupati in Europa, …

(Applausi)

… tassi di produttività inferiori a quelli degli Stati Uniti, che permette che vi siano più laureati in materie scientifiche in India che in Europa, che secondo qualsiasi indice relativo di un’economia moderna – competenze, ricerca e sviluppo, brevetti, tecnologie dell’informazione – peggiora anziché migliorare? L’India espanderà il proprio settore delle biotecnologie fino a quintuplicarlo nei prossimi cinque anni. La Cina ha triplicato la spesa per la ricerca e lo sviluppo negli ultimi cinque anni. Tra le 20 principali università del mondo, attualmente solo due si trovano in Europa.

Scopo del modello sociale deve essere migliorare la nostra capacità di competere, di aiutare i nostri cittadini a far fronte alla globalizzazione e permettere loro di coglierne le opportunità ed evitare i pericoli. E’ chiaro che abbiamo bisogno di un’Europa sociale, ma deve essere un’Europa sociale che funzioni. Ci è stato detto come farlo. La relazione Kok del 2004 indica la strada: investimenti nella conoscenza, nelle qualifiche, in politiche attive per il mercato del lavoro, in parchi scientifici e nell’innovazione, nell’istruzione superiore, nella riqualificazione urbana, aiuti alle piccole imprese. Questa è una politica sociale moderna, non la regolamentazione e la protezione dell’occupazione, che per salvare alcuni posti di lavoro oggi, ne pregiudica un maggior numero in futuro.

(Applausi)

Poiché questo è un giorno adatto a demolire i luoghi comuni, permettetemi di farne crollare un altro: l’idea che la Gran Bretagna sia in preda a una filosofia di mercato anglosassone estrema, che calpesta i poveri e gli svantaggiati. L’attuale governo britannico ha introdotto il New Deal per i disoccupati, il più vasto programma a favore dell’occupazione in Europa, che ha visto la disoccupazione giovanile di lunga durata praticamente debellata nel mio paese. Ha aumentato gli investimenti nei servizi pubblici più di qualsiasi altro paese europeo negli ultimi cinque anni. Avevamo bisogno di farlo, è vero, ma lo abbiamo fatto. Abbiamo introdotto il primo salario minimo della Gran Bretagna. Abbiamo riqualificato le nostre città, abbiamo sollevato quasi un milione di bambini dalla povertà, due milioni di detenuti da difficoltà estreme e abbiamo ora affrontato l’espansione più radicale dell’assistenza all’infanzia, dei diritti di maternità e di paternità, nella storia del nostro paese. Abbiamo fatto tutto questo sulla base, e non a spese, di un’economia forte. Questo è quindi il primo punto: modernizzare il nostro modello sociale.

In secondo luogo, il bilancio deve tenere conto di queste realtà. La relazione Sapir indica la strada. Pubblicata dalla Commissione europea nel 2003, tale documento indica in modo preciso e dettagliato come dovrebbe essere un bilancio europeo moderno. Mettiamola in pratica. In ogni caso, un bilancio moderno per l’Europa non è un bilancio che tra dieci anni destinerà ancora il 40 per cento delle risorse alla politica agricola comune.

(Applausi)

In terzo luogo, l’attuazione dell’agenda di Lisbona. A Lisbona abbiamo fissato obiettivi relativi a posti di lavoro, partecipazione al mercato del lavoro, abbandono della scuola e apprendimento permanente, ma francamente al momento non siamo nemmeno vicino a realizzare tali obiettivi entro il 2010. L’agenda di Lisbona ci ha detto che cosa fare: facciamolo.

In quarto luogo, e su questo terreno procedo con cautela, occorre definire un quadro macroeconomico per l’Europa che sia disciplinato ma anche flessibile. Non spetta a me fare commenti sulla zona dell’euro, dico solo questo: se decidessimo di compiere progressi reali sulla riforma economica, se dimostrassimo di essere veramente seri sui cambiamenti strutturali, i cittadini considererebbero la riforma della politica macroeconomica ragionevole e razionale, non un prodotto del lassismo fiscale ma del buonsenso. Abbiamo urgente bisogno di tale riforma perché l’Europa possa crescere.

(Applausi)

Dopo le sfide economiche e sociali, esaminiamo un’altra serie di questioni collegate: la criminalità, la sicurezza e l’immigrazione. La criminalità attraversa ora le frontiere con più facilità rispetto al passato. Stimiamo che solo nel Regno Unito la criminalità organizzata ci costi 20 miliardi di GBP all’anno. La migrazione è raddoppiata negli ultimi 20 anni. In gran parte è sana e bene accolta, ma deve essere gestita. L’immigrazione clandestina è un problema per tutti i nostri paesi e una tragedia umana per molte migliaia di persone. Si stima che il 70 per cento degli immigrati clandestini si sposti appoggiandosi alle reti della criminalità organizzata. Vi è poi la pratica ripugnante della tratta di esseri umani, con la quale bande organizzate spostano persone da una regione all’altra nell’intento di sfruttarle al loro arrivo. Tra 600 000 e 800 000 persone sono vittime di traffici a livello globale ogni anno e ogni anno oltre 100 000 donne sono vittime del traffico di esseri umani nell’Unione europea.

Anche in questo ambito, un buon programma in materia di giustizia e affari interni dovrebbe concentrarsi su questi elementi: attuazione del piano d’azione dell’Unione europea contro il terrorismo, che ha un enorme potenziale per migliorare l’applicazione della legge e per affrontare la radicalizzazione e il reclutamento di terroristi; operazioni di intelligence e di polizia a livello transfrontaliero per combattere la criminalità organizzata; sviluppo di proposte volte a colpire duro i trafficanti di droga e di persone nell’apertura di conti in banca, bersagliarne le attività, arrestarne i membri di spicco e assicurarli alla giustizia; conclusione di accordi di rimpatrio per i richiedenti asilo che non soddisfano i requisiti previsti e gli immigrati clandestini provenienti da paesi limitrofi e da altri paesi; sviluppo della tecnologia biometrica per rendere più sicure le frontiere d’Europa. Sono tutti elementi su cui possiamo lavorare.

Vi è poi l’intero ambito della politica estera e di sicurezza comune. Dobbiamo concordare misure pratiche per migliorare la capacità di difesa europea, essere preparati a svolgere un maggior numero di missioni di pace. Dobbiamo sviluppare la capacità, assieme alla NATO o, se la NATO non vuole occuparsene, al di fuori di essa, di intervenire con rapidità ed efficacia a sostegno della risoluzione dei conflitti. Esaminate le cifre attuali riguardanti gli eserciti europei e la spesa che destiniamo alla difesa. Rispondono realmente alle necessità strategiche di oggi?

La politica di difesa è un elemento necessario di una politica estera efficace. Tuttavia, anche senza di essa, dobbiamo esaminare il modo in cui far sì che l’Unione europea conti di più nel mondo. Con la recente decisione di raddoppiare gli aiuti, in particolare gli aiuti destinati all’Africa, l’Unione europea ha dato immediatamente slancio non solo a tale continente tormentato, ma anche alla cooperazione europea. Oggigiorno siamo leader mondiali in materia di sviluppo e dovremmo esserne fieri.

(Applausi)

Dobbiamo assumere un ruolo guida nel promuovere un nuovo accordo commerciale multilaterale che intensifichi gli scambi per tutti, soprattutto le nazioni più povere.

(Applausi)

Stiamo guidando il dibattito sul cambiamento climatico e sviluppiamo politiche paneuropee per affrontarlo. Grazie a Javier Solana, l’Europa ha cominciato a far sentire la sua presenza nel processo di pace in Medio Oriente. Il mio punto di vista è molto semplice: un’Europa forte dovrebbe essere un soggetto attivo nella politica estera, un buon partner per gli Stati Uniti, naturalmente, ma anche in grado di dimostrare la capacità di esercitare la sua influenza nel mondo e farlo progredire.

(Applausi)

Tale Europa – con l’economia in via di modernizzazione e la sicurezza rafforzata da un’azione chiara all’interno delle nostre frontiere e al di là di esse – sarebbe un’Europa fiduciosa. Sarebbe un’Europa abbastanza fiduciosa da vedere l’allargamento non come una minaccia, come se l’adesione fosse un gioco insensato in cui i vecchi membri perdono e quelli nuovi vincono, ma una straordinaria opportunità storica per costruire un’Unione più grande e più potente. Non fatevi illusioni. Se interrompiamo l’allargamento o ne precludiamo le conseguenze naturali, alla fine non salveremo un solo posto di lavoro, non manterremo in attività un’impresa, né impediremo un trasferimento di produzione. Per un po’ forse ci riusciremmo, ma non a lungo. Nel frattempo, l’Europa diventerebbe più chiusa, più introspettiva, e a guadagnare sostegno sarebbero idee che non appartengono alla tradizione dell’idealismo europeo, ma a quella del nazionalismo e della xenofobia.

Vi dirò con grande franchezza che è una contraddizione essere favorevoli alla liberalizzazione dell’adesione all’Europa ma contrari all’apertura della sua economia. Se imbocchiamo questa direzione chiara, se la associamo a una Commissione disposta a eliminare la regolamentazione non necessaria, a ridurre la burocrazia e farsi campione di un’Europa globale, orientata all’esterno e competitiva – come questa, guidata dal Presidente Barroso, è pienamente in grado di fare – non sarà difficile conquistare l’immaginazione e il sostegno dei cittadini d’Europa.

Durante la nostra Presidenza, cercheremo di portare avanti l’accordo sul bilancio, di risolvere alcuni dossier difficili, quali la direttiva sui servizi e la direttiva sull’orario di lavoro, di adempiere gli obblighi dell’Unione nei confronti della Turchia e della Croazia, che sperano in un futuro come membri dell’Europa, e di condurre il dibattito sul futuro dell’Europa in modo aperto e partecipativo, esprimendo il nostro parere in modo energico, ma nel pieno rispetto delle opinioni altrui.

Chiedo solo una cosa: non illudiamoci che questo dibattito non sia necessario, che se solo riuscissimo a svolgere normalmente le nostre attività i cittadini prima o poi verrebbero a più miti consigli e accetterebbero l’Europa così com’è, non come vorrebbero che fosse.

In qualità di Primo Ministro, ho constatato che l’aspetto difficile non è prendere la decisione, ma capire esattamente quando deve essere presa. E’ comprendere la differenza tra le sfide da gestire e quelle da affrontare e superare. Questo è un momento di decisione per l’Europa.

I cittadini d’Europa ci stanno parlando. Sollevano interrogativi. Vogliono leadership ed è giunto il momento di dargliela.

(Vivi e prolungati applausi)

 
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