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Testi presentati :

RC-B6-0387/2006

Discussioni :

PV 04/07/2006 - 10
CRE 04/07/2006 - 10

Votazioni :

PV 06/07/2006 - 6.13

Testi approvati :


Resoconto integrale delle discussioni
Martedì 4 luglio 2006 - Strasburgo Edizione GU

10. Conseguenze economiche e sociali della ristrutturazione delle imprese in Europa (discussione)
PV
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  Presidente. L’ordine del giorno reca la dichiarazione della Commissione sulle conseguenze economiche e sociali della ristrutturazione delle imprese in Europa.

 
  
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  Günter Verheugen, Vicepresidente della Commissione. (DE) Signor Presidente, onorevoli deputati, utili record da una parte, chiusure di stabilimenti e delocalizzazioni dall’altra. Molti cittadini nell’Unione europea oggi si pongono ogni giorno la stessa temuta domanda: quando sarò io ad essere colpito? Quando toccherà al mio posto di lavoro? Quando sarà il mio turno?

Nel processo di trasformazione dell’Europa centrale e orientale, intere economie sono crollate e milioni di posti di lavoro sono scomparsi. Tuttavia la gente ha capito che questo fenomeno era la conseguenza della cattiva amministrazione del comunismo. Molti non riescono invece a capire che cosa stia accadendo in numerosi settori industriali dei vecchi Stati membri dell’Unione europea: tessile, calzaturiero, mobili, elettrodomestici, farmaceutico e automobilistico, settori manifatturieri che finora erano considerati sicuri e che adesso sono in difficoltà.

Pochissime persone sono state preparate ad affrontare la trasformazione strutturale alla quale assistiamo. E’ pertanto venuto il momento di aiutare tutti coloro, e sono molti, che hanno perso l’orientamento, a ritrovarlo. Il significato della discussione odierna va molto al di là della possibile chiusura di uno stabilimento automobilistico in Portogallo. E’ una discussione sul futuro dell’occupazione in Europa.

E’ anche giunto il momento di smettere di tacere alcune verità spiacevoli.

Primo: siamo ora entrati in una nuova fase della concorrenza, e il ritmo della trasformazione strutturale è destinato ad accelerare ulteriormente. Non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte a questa situazione. La concorrenza fa parte della vita, che ci piaccia o no. Non si tratta nemmeno di sapere se sopravviveremo alla concorrenza. Il grande problema sociale della nostra epoca riguarda tutte le vite che saranno rovinate da questa concorrenza; in altri termini, il grande problema sociale della nostra epoca riguarda il futuro dei nostri posti di lavoro.

E’ venuto il momento di guardare in faccia questa realtà. Chi crede ancora che ci siano altri problemi più urgenti non capisce assolutamente il mondo di oggi e le sue sfide. Abbiamo bisogno di più crescita sostenibile e rispettosa dell’ambiente, e abbiamo bisogno di posti di lavoro più numerosi e di migliore qualità, altrimenti il volto sociale dell’Europa diventerà un volto freddo e cinico, e questo sarebbe un insulto ai nostri principi europei di responsabilità condivisa tra il singolo e la società, di solidarietà, di giustizia sociale e di coesione sociale.

La parola chiave per la società europea del XXI secolo che cerca di offrire nuove prospettive ai propri cittadini è “competitività”. Sappiamo bene che una fortezza Portogallo, una fortezza Germania, una fortezza Polonia o una fortezza Europa non sono opzioni realistiche nel mondo aperto del XXI secolo. Dobbiamo accogliere la concorrenza aperta; dobbiamo acquisire una posizione di vantaggio e orientare la concorrenza verso l’alto alla ricerca delle soluzioni migliori, della tecnologia più vantaggiosa e degli standard più elevati.

Secondo: abbiamo avviato una politica comune europea per la crescita e l’occupazione. Questa politica deve essere ora realizzata con determinazione a livello europeo, nazionale e regionale, altrimenti assisteremo in preda allo sgomento a ripetute violazioni del nostro modello sociale con la chiusura di stabilimenti e laboratori di ricerca che hanno delocalizzato in altri paesi – come sta già accadendo. Metto in guardia chiunque dal credere che possiamo facilmente sopportare il trasferimento degli impianti di produzione, poiché la ricerca e lo sviluppo sono ancora da noi. Una volta partita la produzione, la ricerca e lo sviluppo la seguiranno.

Una politica per la crescita e l’occupazione deve essere una politica che crei un clima economico favorevole per tutte le imprese. E’ nell’economia, nelle imprese, che si creano posti di lavoro, ed è ancora nelle imprese che i posti di lavoro si tagliano. Nessun ordine del governo di un singolo Stato membro o di tutta l’Unione europea può cambiare di una virgola le cose. Noi possiamo però portare avanti una politica in grado di creare le condizioni esterne che rendano fattibile ed interessante per le imprese lavorare, crescere, investire e creare posti di lavoro in Europa. E’ questo il senso dell’espressione “politica rispettosa delle imprese”.

Terzo: una politica industriale attiva, che tenga l’industria in Europa, è ora più necessaria che mai. L’immagine secondo cui l’industria può ormai essere relegata nei musei è falsa quanto quella secondo cui l’industria è prima di tutto la maggiore fonte di inquinamento al mondo. Consiglio a chi ancora è di questo parere di ripensarci. Chi vuole portare via l’industria dall’Europa gioca con il futuro dei lavoratori dell’industria, con il futuro di chi lavora nei servizi collegati all’industria – settori che danno lavoro non a milioni, ma a decine di milioni di persone – e con il futuro delle piccole e medie imprese presenti lungo tutta la catena della fornitura, e in sostanza, gioca con il futuro dell’Europa stessa.

Dobbiamo mantenere un’industria forte in Europa, con imprese efficienti e competitive sul mercato mondiale. Non stiamo solo cercando campioni europei; abbiamo bisogno di leader sul mercato mondiale, perché le nostre imprese concorrono in un’arena mondiale. Nessun governo può trasformarle in imprese di successo; il successo dipende dall’impegno messo in atto dalle singole imprese, tuttavia noi possiamo aiutarle fino in fondo.

Per questo è stato costituito il gruppo di alto livello CARS 21. Dodici milioni di posti di lavoro nell’Unione europea sono direttamente o indirettamente collegati alla produzione automobilistica. Abbiamo parlato con tutti i soggetti interessati di quello che può e deve essere fatto per mantenere un’industria automobilistica forte in Europa. Spero che il Parlamento capisca perché, in materia di future norme relative alle emissioni di gas di scarico, sono contrario ad attuare una politica ispirata al motto “giù la testa e avanti “ e sono invece favorevole alla formulazione di proposte che possiamo mettere sul tappeto al momento opportuno, certi del fatto che i nostri elevati standard sono tecnologicamente praticabili e che hanno un costo sostenibile dalla maggior parte delle persone.

Onorevoli deputati, già oggi siamo in grado di fabbricare un autoveicolo a emissioni zero, ma nessuno, che io conosca personalmente, potrebbe permettersi di acquistare un’auto di questo tipo, e suppongo nemmeno nessuno in quest’Aula. Dobbiamo fare quanto in nostro potere perché continui ad essere possibile fabbricare e vendere auto europee – non tanto per coloro che le acquistano e le guidano, quanto per le persone che hanno bisogno di questi posti di lavoro.

Ancora un’osservazione: una politica industriale attiva non si ferma alle frontiere della vecchia Unione europea, ma comprende anche i nuovi Stati membri. L’allargamento non è una maledizione che grava sui lavoratori europei e non è nemmeno la causa della trasformazione strutturale. La verità è che in 17 su 20 settori industriali la vecchia Unione europea vanta un notevole vantaggio; i nuovi Stati membri hanno un vantaggio competitivo solo in tre settori, tra cui il settore automobilistico. Ma questo non sarà che un vantaggio per noi, quando la Cina e gli altri paesi emergenti diventeranno concorrenti più forti nel settore automobilistico.

Per quanto riguarda più direttamente il settore automobilistico – che è all’origine di questo dibattito – vorrei sottolineare che sono fermamente convinto che riusciremo a mantenere a lungo la nostra industria automobilistica in Europa, e che sarà un’industria forte, anche se tra dieci anni avrà una struttura piuttosto diversa da quella odierna. Ci saranno consolidamenti. E’ sufficiente leggere i giornali odierni per venire a conoscenza di trattative transatlantiche proprio in questo ambito.

Quello che possiamo pronosticare con una certa sicurezza è un quadro frammentario – un quadro per l’Europa occidentale e un altro per l’Europa centrale e orientale. In Europa occidentale non assisteremo più a una crescita cospicua della produzione di autoveicoli e la domanda aumenterà solo in misura ridotta. E’ presumibile che la produttività aumenterà più rapidamente della domanda, e chiunque abbia nozioni anche minime di economia sa qual è la conseguenza: la pressione sui posti di lavoro nel settore automobilistico nei vecchi Stati membri aumenterà ulteriormente.

Per quanto ci è dato sapere, i grandi costruttori europei – e lo stesso vale per General Motors – non prevedono alcun trasferimento delle capacità produttive dall’Europa occidentale. Creeranno tuttavia – e questo è l’elemento saliente – nuovi impianti di produzione dove più elevata è la domanda per i loro prodotti. Questa tendenza è chiaramente visibile già oggi in tutta l’industria automobilistica europea.

Per quanto riguarda gli aspetti positivi, osserviamo tuttavia che non solo i costruttori europei, ma anche quelli di altre regioni del mondo, stanno ricominciando a concentrare le capacità di ricerca e sviluppo in Europa, soprattutto nei vecchi centri. Anche da questo punto di vista, le attività europee di General Motors non costituiscono un’eccezione.

Onorevoli deputati, le imprese hanno una grossa responsabilità sociale per l’Europa che deve diventare ampiamente visibile. Non critico a priori qualsiasi decisione aziendale che comporti una delocalizzazione e del resto non spetta a me farlo. Inoltre, un atteggiamento simile sarebbe stupido, poiché la globalizzazione della produzione e della ricerca è inevitabile, se un’impresa vuole rimanere competitiva a lungo termine in un settore competitivo. Critico però coloro che antepongono l’utile a breve termine alle soluzioni sostenibili. Critico coloro che, quanto sono sotto pressione, scelgono la soluzione più economica, senza pensare minimamente alle persone che mettono sulla strada. Critico i manager che si attribuiscono retribuzioni elevatissime, ma che in termini di responsabilità non valgono nemmeno un centesimo, perché hanno fatto fallire le loro imprese e provocato così la perdita dei posti di lavoro che un tempo assicuravano.

In Europa voglio vedere imprese che si impegnino costantemente per migliorare, che promuovano l’innovazione, che siano in grado di modificare il proprio profilo, che forniscano ai loro dipendenti una formazione che li qualifichi per svolgere nuove mansioni. Naturalmente noi abbiamo il compito di aiutarle in tutto questo. Dobbiamo tuttavia anche individuare i limiti dell’azione politica. Le decisioni che determinano chiusure o trasferimenti di stabilimenti sono puramente decisioni aziendali, e nessuno Stato e nessuna Unione europea può invalidarle, nel caso di Azambuja o in qualsiasi altro caso.

Abbiamo tuttavia regole molto chiare e noi dobbiamo insistere energicamente sul rispetto di queste regole. Tra di esse c’è per esempio la questione fondamentale del dialogo sociale tra datori di lavoro e lavoratori. Quando uno stabilimento deve essere chiuso o delocalizzato, tale dialogo deve occuparsi anche di un’altra questione: che cosa ha fatto l’impresa per dare ai lavoratori licenziati un nuovo futuro, per esempio in termini di formazione, di aggiornamento o di riqualificazione? A questa domanda fa seguito un’altra: che cosa abbiamo fatto noi per aiutarla?

Abbiamo anche lo strumento delle sovvenzioni per le imprese in difficoltà, che è stato utilizzato anche nel caso di Azambuja. La concessione degli aiuti è stata autorizzata nel 2002. Le difficoltà dello stabilimento non sono quindi del tutto nuove. Vorrei tuttavia precisare con grande chiarezza che gli aiuti di Stato autorizzati in quel caso ed erogati sotto forma di aiuti agli investimenti a titolo del bilancio portoghese sono stati concessi conformemente alle norme europee, che prevedono l’obbligo per l’impresa beneficiaria di rimanere nella sua sede naturale per almeno cinque anni dopo aver effettuato l’investimento per il quale ha ricevuto gli aiuti.

Su richiesta della Commissione, il governo portoghese sta ora verificando se lo stabilimento abbia ricevuto anche finanziamenti a titolo dei fondi europei. In caso affermativo, dovremmo insistere ancora una volta sul rigoroso rispetto delle nostre condizioni, e vi posso promettere che la Commissione lo farà. Le entrate fiscali europee sono destinate ad essere utilizzate per mantenere gli stabilimenti nelle loro sedi europee, non per ridurre drasticamente i posti di lavoro.

(Applausi)

 
  
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  José Albino Silva Peneda, a nome del gruppo PPE-DE. – (PT) Signor Presidente, onorevoli colleghi, l’attuale processo di ristrutturazione industriale è in ampia misura frutto della globalizzazione. La prima osservazione che si è condotti a fare è che questa nuova era ha contribuito a ridurre la povertà in tutto il mondo.

Vale la pena di continuare a promuovere la libera circolazione di beni, merci e persone, anche se solo in termini di crescita economica, di cui molti paesi in tutto il mondo godono in modo sostenibile. Non dobbiamo però trasformare il mercato in una vacca sacra; benché i valori che guidano la nostra azione politica riconoscano molte delle virtù delle leggi del mercato, ci rendiamo anche conto che le autorità politiche hanno un ruolo vitale nella regolamentazione e nel funzionamento di tale mercato.

E’ un ruolo che l’Unione europea e il Parlamento non devono trascurare. Nel progetto di relazione sul modello sociale europeo di cui si discuterà in Aula in settembre, esorteremo l’Unione europea ad adottare, nei confronti dei paesi terzi caratterizzati da un’elevata crescita economica, un atteggiamento atto a promuovere democrazia, libertà, rispetto dei diritti umani, protezione ambientale, giustizia sociale e regolamentazione del mercato del lavoro.

Spetterà all’Europa, a nostro avviso, svolgere un ruolo fondamentale nella creazione di un equilibrio tra la crescita economica e il perseguimento di standard sociali e ambientali dignitosi nelle potenze mondiali emergenti. Se vogliamo che tali orientamenti prevalgano all’esterno, internamente l’obiettivo principale dovrà essere l’enfasi sul miglioramento della competitività. A questo riguardo, desidero esprimere il mio apprezzamento per le osservazioni esposte oggi dal Commissario.

Le prossime tappe sono contenute nella strategia di Lisbona. Per quanto riguarda le modalità d’azione, desidero ribadire che credo ancora che sarebbe molto utile rafforzare il ruolo della Commissione in vista dell’attuazione di questa strategia. Anche se la globalizzazione può essere considerata un’opportunità per l’economia europea, si tratta di un processo che, come ha detto in quest’Aula la Commissione, comporta anche rischi nell’area europea. Uno di questi rischi è la possibile scomparsa dalla carta geografica industriale di regioni e settori la cui base economica è costituita dall’industria manifatturiera.

Ritengo pertanto che occorra un intervento a livello europeo nella definizione e nell’attuazione di politiche pubbliche in grado di promuovere la coesione regionale e sociale, al fine di evitare il fenomeno dell’esclusione. E’ un elemento estremamente importante, perché se vogliamo convincere i cittadini rispetto al progetto europeo, non possiamo permettere che sentimenti quali perdita di speranza e di fiducia prendano piede in alcune regioni all’esterno dei centri urbani principali. Accolgo pertanto con estremo favore l’iniziativa della Commissione relativa alla costituzione del Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione. Le imprese, proprio come le persone, nascono, crescono e muoiono. La cosa importante, in termini di crescita dell’occupazione, è che il tasso di natalità delle imprese sia sempre superiore al loro tasso di mortalità.

Per quanto concerne il ruolo dell’Unione europea e delle sue Istituzioni, ritengo che non dovrebbero appoggiare iniziative politiche volte a tenere in vita industrie o stabilimenti che a medio termine non sopravviverebbero. Non sarebbe questa la strada giusta da seguire; sarebbe invece una sorta di fuga in avanti che alimenterebbe illusioni insensate. La giusta via da seguire dovrebbe invece basarsi sulla competitività dell’economia europea, che dipende dall’equilibrio dei conti pubblici, sistemi di istruzione e formazione efficienti, una giustizia celere, regimi fiscali competitivi, una maggiore flessibilità sul mercato del lavoro e incentivi cospicui per la ricerca.

Se le economie non sono competitive, non ci sono nemmeno investimenti. Se non ci sono investimenti, non c’è occupazione e nemmeno giustizia sociale. Il Parlamento dovrebbe concentrare i propri sforzi verso la discussione e la definizione di strumenti politici in grado di contribuire al miglioramento della competitività e della coesione regionale e sociale nell’Unione europea. Appoggiamo naturalmente tutte le iniziative destinate a controllare come vengono impiegati i fondi pubblici da parte delle imprese private e riteniamo che questo tipo di sostegno dovrebbe essere correlato ad obiettivi a medio termine nell’ambito dello sviluppo occupazionale e regionale. Non credo che spetti al Parlamento esprimere giudizi sui singoli casi, come è avvenuto invece per questo dibattito.

A questo proposito, vorrei concludere incoraggiando il dialogo tra le parti interessate, al fine di pervenire alla migliore soluzione possibile che, secondo le più recenti informazioni di cui dispongo, potrebbe soddisfare tutti.

 
  
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  Martin Schulz, a nome del gruppo PSE. – (DE) Signor Presidente, onorevoli colleghi, sono molto grato al Commissario per le sue osservazioni che hanno toccato il cuore del dibattito che dobbiamo condurre sul futuro dell’industria europea.

Azambuja è un caso singolo, ma è rappresentativo di molti altri. E’ sintomatico di una scelta di condotta errata nella politica industriale europea. E’ assolutamente innegabile che dobbiamo rimanere competitivi e che le razionalizzazioni fanno parte di questo sforzo, che la crescita della produttività è necessaria e che, se l’aumento della produttività determina perdite di posti di lavoro in un’impresa, tale perdita deve essere neutralizzata dalla creazione di nuovi posti di lavoro altrove oppure nella stessa regione attraverso investimenti innovativi. E’ assolutamente ovvio. Per questo sono tuttavia necessari investimenti mirati. Quello che però le nostre politiche non possono e non devono accettare e quello che noi socialisti europei combatteremo è la brutalità con cui le grandi multinazionali trattano la vita degli esseri umani.

Nel corso della mia carriera politica come sindaco di una città tedesca, ho visto con quanta freddezza e con quanto calcolo le imprese hanno messo le une contro le altre le amministrazioni nazionali, regionali e municipali, quando si è trattato di investimenti a favore delle loro sedi naturali. La fantasia dei consigli di amministrazione è illimitata, quando si tratta di ricevere aiuti pubblici agli investimenti come incentivi a favore della sede naturale dell’azienda, mentre è totale la loro mancanza di fantasia quando si tratta invece di assumersi la responsabilità sociale in periodi di crisi. E’ proprio il comportamento attuale di General Motors.

Le sono grato per quello che ci ha detto. Verificherete se questo stabilimento ha ricevuto fondi europei, e se così è stato, l’impresa è tenuta a rimanere nella sede portoghese. E’ una buona notizia. Ci si chiede tuttavia che cosa succederà in Portogallo. La situazione sarà la stessa cui abbiamo assistito solo pochi mesi fa, quando i lavoratori svedesi sono stati messi contro i lavoratori tedeschi dello stesso gruppo. Vince chiunque riduce ai livelli più bassi gli standard sociali, chiunque ammette i salari più modesti. Meno diritti sociali e salari più bassi costituiscono i criteri fondamentali nelle decisioni di delocalizzazione. E’ una forma di capitalismo che i cittadini europei non vogliono e contro la quale dobbiamo lottare.

Se, come nel mio paese, un’impresa – non un costruttore automobilistico in questo caso, ma la società di servizi finanziari Allianz – realizza un utile di 4,4 miliardi di euro e poi decide di licenziare 8 000 lavoratori altamente qualificati per massimizzare gli utili degli azionisti, non solo siamo di fronte a un’azione immorale – non mi posso del resto aspettare moralità da un capitalista, e nemmeno me l’aspetto – ma anche socialmente irresponsabile. Dobbiamo pensare a come limitare questo tipo di politica aziendale avvalendoci della legislazione nazionale e del diritto europeo. Nel caso dei grandi gruppi che operano a livello mondiale, si tratta naturalmente di decisioni aziendali che vengono prese a livello di gruppo e sulle quali non abbiamo alcuna influenza. Gli effetti di queste decisioni aziendali ricadono però su tutta la società. Per questo, riteniamo che l’applicazione dei principi democratici a tali decisioni sia parte integrante della democrazia economica.

Al giorno d’oggi, i fondi speculativi fanno incetta di imprese come se fossero merci. Viviamo in una realtà economica in cui i grandi fondi acquistano le grandi imprese, le fanno escludere dalla quotazione in borsa il più rapidamente possibile per riorganizzarle il più rapidamente possibile e rivenderle il più rapidamente possibile realizzando un utile. In questo modo l’impresa, la sua sede e tutta la regione sono ridotte a pure merci di scambio. Non può essere questo il futuro economico dell’Europa! Pertanto, il modo in cui viene ristrutturata l’economia europea condizionerà la futura coesione sociale in Europa.

Nella seconda metà del XX secolo, l’idea alla base dell’Unione europea, l’idea alla base del mercato unico in cui viviamo oggi prevedeva che il progresso economico e tecnico andasse di pari passo con il progresso sociale. Oggi siamo in una fase in cui l’aumento degli utili va di pari passo con la riduzione della sicurezza sociale. Se non fermiamo questa tendenza e non ritorniamo a quello che abbiamo realizzato con successo nella seconda metà del XX secolo, quando abbiamo assicurato il legame tra crescita economica e sicurezza sociale, perderemo la stabilità sociale delle società europee – e l’instabilità sociale è sempre all’origine dell’instabilità politica, che a sua volta determina la perdita della sicurezza. Per questo, la ristrutturazione delle imprese in Europa è una sfida che dobbiamo affrontare a livello sociale.

(Applausi)

 
  
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  Lena Ek, a nome del gruppo ALDE. – (EN) Signor Presidente, i sentimenti di chi perde il proprio lavoro non hanno bisogno di spiegazioni. Non ci vuole molta immaginazione per capire la disperazione, la paura del futuro e le preoccupazioni finanziarie che queste persone vivono, giorno dopo giorno. Su questo aspetto il Parlamento è unito: in tutti i partiti politici e in tutti i paesi europei sosteniamo il modello sociale europeo e appoggiamo i lavoratori e i disoccupati.

Quando si tratta però di decidere che cosa fare concretamente, le nostre opinioni sono molto divergenti. Sono fermamente convinta che sia un grave errore cercare di proteggere i posti di lavoro frenando la modernizzazione, la ristrutturazione e la globalizzazione. Può essere un rimedio valido per il presente, ma disastroso per il futuro. La nostra risposta alla globalizzazione non deve essere il tentativo di sottrarci alle nostre responsabilità e il conservatorismo, dobbiamo invece accoglierla e preparare i nostri cittadini ad affrontarla. La nostra risposta non deve essere quella di impedire le ristrutturazioni, ma di facilitare la transizione per le persone direttamente colpite.

Questo è il principio che ispira il gruppo dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa al Parlamento, quando si tratta di raccogliere le sfide alle quali siamo confrontati a seguito della ristrutturazione industriale e della globalizzazione. Crediamo che l’Unione europea possa e debba svolgere un ruolo, ma facilitando la transizione e non ostacolandola. Riguardo al cambiamento non siamo contrari, ma favorevoli, altrimenti, nel giro di dieci anni tutti i nostri posti di lavoro saranno in Cina o in altre belle regioni al di fuori dell’Europa. Siamo favorevoli alla cooperazione, all’istruzione e alla crescita economica, che dovrebbero però essere realizzate sulla base della responsabilità sociale e ambientale. E’ questo il nostro compito in Parlamento.

Ci sono una serie di settori nei quali abbiamo bisogno di politiche europee, non solo per mantenere, ma per creare nuovi posti di lavoro in tutta l’Unione. Al centro di tutto questo c’è l’agenda di Lisbona. In primo luogo occorre rafforzare l’individuo. L’Europa può contribuire incoraggiando e finanziando programmi per l’apprendimento durante tutto l’arco della vita, le competenze linguistiche e gli scambi culturali, per citare solo alcuni esempi. Sono attività che contribuiscono a prepararsi per un mercato del lavoro in transizione, in cui sono pochi i posti di lavoro che possono essere garantiti per tutta la vita. Il posto di lavoro a vita non esiste più, ma potrebbe benissimo esistere l’occupazione per tutta la vita.

In secondo luogo, occorre rafforzare l’industria europea perché sia competitiva nel XXI secolo. Assicurando l’accesso a un mercato interno ancora più grande che favorisce la ricerca e l’innovazione europee, apriamo nuove opportunità che alla fine porteranno alla creazione di nuovi posti di lavoro.

In terzo luogo, per realizzare questo obiettivo, abbiamo bisogno di un dialogo sociale più forte in grado di affrontare i temi del cambiamento, come la necessità per le aziende di facilitare la transizione dei dipendenti che perdono il posto di lavoro e regole ambientali per uno sviluppo economico sostenibile.

Per tutto questo occorre una leadership europea, occorre spiegare le sfide alle quali siamo confrontati e fare quanto in nostro potere per facilitare il viaggio nel futuro, preparando gli individui e le imprese; non dobbiamo invece fare false promesse, proteggere i posti di lavoro e sperare in vantaggi politici a breve termine.

Questa è la risposta liberale alle sfide della globalizzazione e della riforma industriale.

 
  
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  Pierre Jonckheer, a nome del gruppo Verts/ALE. – (FR) Signor Presidente, signor Commissario, l’ho ascoltata attentamente. Ho anche letto sulle agenzie di stampa che la Commissione aveva dichiarato che il processo di ristrutturazione e di delocalizzazione condotto da Opel era trasparente e conforme alle regole dei vari fondi europei.

In realtà penso, e lei è stato chiarissimo a riguardo, che non abbia molto senso che il Parlamento e alcuni dei nostri colleghi critichino ripetutamente, mese dopo mese, il capitalismo globale o il capitalismo totale: viviamo in un mondo in cui la concorrenza diventa sempre più aspra e in cui sul futuro del settore automobilistico indubbiamente pesano di più le alleanze Renault-Nissan-GM come quella annunciata, che i processi di cui stiamo parlando oggi.

Detto questo, se vogliamo avere un ruolo, vorrei che lei, in quanto Commissario e in quanto responsabile di questi problemi in seno alla Commissione, fornisse una risposta a quattro domande precise:

Prima domanda: abbiamo sempre difeso l’idea del comitato aziendale europeo e gli osservatori delle relazioni industriali per anticipare questo tipo di cambiamento. Noi in Parlamento abbiamo auspicato un rafforzamento dei dispositivi quali i comitati aziendali europei. Non ritiene che, da questo punto di vista, dovrebbe essere la Commissione a prendere iniziative di questo tipo per rafforzare la legislazione?

Seconda domanda: la Commissione Barroso ha proposto un fondo di adeguamento per i casi di ristrutturazioni legate alla globalizzazione – non so se il caso Opel rientri in questa fattispecie – ma qual è il preciso obiettivo di questo fondo? Ci può garantire che questo fondo, durante un periodo transitorio, aiuterà davvero i lavoratori penalizzati da questo tipo di processo a ricostruirsi un futuro professionale grazie a programmi di formazione?

Terza domanda: lei ha giustamente fatto riferimento al programma CARS 21 e all’attenzione dedicata dalla Commissione ai programmi di ricerca e di sviluppo e alle automobili del futuro. Supponendo che si consideri – e non è il mio caso – che l’auto privata sia un mezzo di sviluppo sostenibile per il XXI secolo, in particolare per le città europee, sbalordisce comunque constatare, sapendo che le automobili ecocompatibili dovranno essere dotate di un motore ibrido, come il modello Prius della Toyota, per i prossimi 25 anni, che i costruttori europei sono ancora in ritardo in questo settore. Qual è la sua valutazione dei programmi di ricerca e di sviluppo in materia e della commercializzazione di questo tipo di prodotto?

Quarto e ultimo punto: è piuttosto chiaro – e l’esempio della Opel è evidentemente sbalorditivo da questo punto di vista – che c’è concorrenza tra paesi vicini: Portogallo e Spagna. Non ritiene che, pur nel pieno rispetto delle regole in materia di concorrenza, la Commissione e l’Unione europea abbiano il dovere di imporre regole minime comuni alle imprese che operano nel territorio comunitario e, pur rendendomi conto che non sarebbe una soluzione perfetta, penso in particolare all’armonizzazione dell’imposta sulle società.

Ecco quattro tipi di azione che la Commissione, in quanto custode dei Trattati e promotrice dell’interesse generale europeo, dovrebbe incoraggiare. A questo riguardo, mi dispiace doverle dire, signor Commissario, che non consideriamo la sua Commissione sufficientemente proattiva o ambiziosa sui vari aspetti che ho appena citato.

 
  
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  Ilda Figueiredo, a nome del gruppo GUE/NGL. – (PT) Questo dibattito è di importanza vitale, ma lo sarà ancora di più se produrrà misure atte a fare sì che non siano sempre i lavoratori e i cittadini a dover pagare il prezzo della ristrutturazione e della delocalizzazione delle imprese e dei grandi gruppi economici che realizzano utili milionari, come è avvenuto in Portogallo.

Attualmente, i lavoratori di Opel Portogallo, che fa parte del gruppo General Motors – e li salutiamo per il tramite della loro delegazione presente in Aula – vivono momenti di terribile angoscia, mentre seguono questo dibattito con grande interesse, sperando di ricevere dal Parlamento e dalla Commissione quella solidarietà che hanno ricevuto da parte dei lavoratori di General Motors dei paesi dell’Unione europea, come Svezia, Germania e Spagna, il cui destino è anch’esso minacciato.

Mentre i media diffondono notizie su contatti e trattative tra imprese del settore automobilistico, tra le quali General Motors e altre, i lavoratori di Opel Portogallo, le loro famiglie, i cittadini e gli enti locali e regionali di Azambuja e delle zone circostanti convivono con la minaccia della disoccupazione e di difficoltà di sviluppo che potrebbero portare alla chiusura. Tale situazione è resa ancora più drammatica dal fatto che stiamo parlando di un paese in cui la disoccupazione e la povertà sono in aumento. Alla luce di tutto questo, le osservazioni dell’onorevole Silva Peneda suonano ancor più deplorevolmente insensibili.

Occorre prestare molta più attenzione alle fusioni e alle ristrutturazioni industriali. Gli aiuti comunitari devono essere subordinati ad accordi a lungo termine sull’occupazione e lo sviluppo locale. E’ necessario privilegiare la protezione dei lavoratori, in ogni caso di ristrutturazione aziendale, garantendo anche la piena informazione e partecipazione dei lavoratori e la loro possibilità di esercitare un’influenza decisiva durante tutto il processo.

Sappiamo che ci sono alternative alla chiusura di Opel Portogallo. Sappiamo che se c’è la volontà politica, l’azienda può continuare a lavorare normalmente. E’ un’impresa in cui ci sono le condizioni per la produttività e in cui sono stati presi impegni che i lavoratori hanno rispettato. General Motors deve rispettare da parte sua l’impegno preso e la Commissione deve adottare le misure necessarie per far sì che Opel Portogallo funzioni normalmente e che sia garantita un’occupazione in cui sono tutelati i diritti dei lavoratori.

 
  
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  Zdzisław Zbigniew Podkański, a nome del gruppo UEN. – (PL) Signor Presidente, la ristrutturazione delle imprese in Europa è dovuta a un aumento della capacità produttiva, all’utilizzo delle nuove tecnologie e alla globalizzazione dell’economia nel suo insieme. Questo processo ha gravi conseguenze sociali ed economiche. La produzione si concentra nelle regioni economicamente e tecnologicamente più forti, a spese delle regioni meno sviluppate. Questo è particolarmente visibile nei nuovi Stati membri dove interi settori industriali sono scomparsi. In Polonia, per esempio, l’industria leggera e, in misura significativa, l’industria automobilistica, l’elettronica e il settore minerario sono scomparsi, e con loro i posti di lavoro.

La progressiva globalizzazione della produzione e la liberalizzazione dei mercati hanno determinato un’ulteriore accentuazione delle differenze economiche e sociali. Le regioni caratterizzate da elevati livelli di produzione agricola e una rete sviluppata di industrie agroalimentari, come quella saccarifera, quella ortofrutticola e la refrigerazione in particolare, sono quelle che accusano le perdite più gravi. La Polonia è ancora una volta uno dei paesi che ha maggiormente sofferto e si trova in una delle regioni più gravemente colpite. Ma allora, chi ci guadagna? I “vecchi” Stati membri e le regioni economicamente forti ci guadagnano e continueranno a farlo, soprattutto perché l’Unione europea si impegna in particolare in vista della realizzazione di utili con il commercio di manufatti con paesi terzi, che rappresentano l’85 per cento delle vendite di merci. I prodotti agricoli rappresentano solo il 15 per cento delle vendite. Tutto questo presuppone una risposta alla domanda fondamentale: qual è il nesso tra la politica delle Istituzioni dell’Unione europea in materia aziendale e i principi fondamentali dell’Unione europea, quali la solidarietà europea, le pari opportunità, lo sviluppo sostenibile o i diritti umani?

 
  
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  Philip Bushill-Matthews (PPE-DE).(EN) Signor Presidente, desidero iniziare ringraziando il Commissario per i commenti saggi e attenti che ha espresso nella sua introduzione al dibattito e, in particolare, per aver posto l’enfasi principale sulle persone, elemento fondamentale nell’ambito del tema di cui stiamo discutendo.

Desidero semplicemente riprendere due delle sue osservazioni, tutte molto importanti. Una riguardava la trasformazione strutturale. Sono assolutamente d’accordo: la trasformazione strutturale è destinata a continuare, anzi subirà un’accelerazione. Quindi il problema non è come fermarla, ma come sfruttarla e gestirla.

La seconda osservazione importante che desidero sottolineare è che la risposta non è il protezionismo attuato dai paesi che cercano di erigere barriere o dalle aziende che cercano di proteggere i vecchi posti di lavoro, mentre il mercato è andato avanti.

Sono d’accordo con l’onorevole Ek sul fatto che oggi non è più possibile pensare al posto di lavoro a vita, ma credo che sia legittimo avere il diritto di ambire a una vita con un lavoro. Si tratta pertanto di capire che cosa si deve fare per contribuire a risolvere il problema e cosa invece non si deve fare.

Ritengo che, in quanto eurodeputati, non dovremmo condurre questo tipo di dibattito ogni volta che una grande società chiude o snellisce l’organico, per fare vedere che noi politici ci preoccupiamo – anche se è ovvio che ci preoccupiamo – e per fare vedere “che facciamo qualcosa” in ogni singolo caso, dando rilievo ai singoli casi di imprese rinomate. Non credo che siano utili dibattiti regolari e ripetuti di questo tipo. Non dovrebbero essere un mezzo per conquistarci le prime pagine dei giornali nazionali.

Sono sicuro che possiamo e dobbiamo fare di più, contribuendo a creare un clima normativo nel quale possa fiorire l’imprenditoria e possano essere davvero creati nuovi posti di lavoro; se una porta è destinata a chiudersi, si può cercare di fare in modo che se ne aprano altre.

Ritengo inoltre che la migliore forma di sicurezza occupazionale di ognuno sia rappresentata dall’insieme di competenze che ognuno è in grado di sviluppare, ed è su questo che dovrebbero concentrarsi le nostre priorità. Dobbiamo accertarci che, in materia di investimenti, le società si rendano conto che gli investimenti in risorse umane sono quelli più importanti che possono effettuare, e questo vale anche per i paesi. Se riusciremo in questo intento, compiremo consistenti passi avanti nella gestione della sfida del cambiamento.

 
  
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  Jan Andersson (PSE).(SV) Signor Presidente, nel mio intervento mi concentrerò sugli aspetti principali delle ristrutturazioni. Vorrei comunque esprimere il mio sostegno ai lavoratori portoghesi nei loro sforzi per conservare e sviluppare i loro posti di lavoro. So anche, sulla base dell’esperienza passata, che, come ha ricordato l’onorevole Schulz, GM non ha sempre condotto correttamente il dialogo sociale, come lo dimostrano le relazioni con i suoi stabilimenti in Germania e Svezia, quando ha messo gli uni contro gli altri i lavoratori dei diversi paesi. Non è un comportamento che mi piace.

Sono d’accordo sul fatto che le ristrutturazioni non sono un fenomeno nuovo. Si tratta piuttosto di una realtà con la quale abbiamo sempre convissuto. Nella mia città natale una volta c’era una fabbrica di gomma, ma ora non c’è più. All’epoca quasi tutta la popolazione lavorava in quello stabilimento. Anche in futuro continueranno ad esserci ristrutturazioni. In alcuni casi, le ristrutturazioni sono gestite male e questo causa perdite di posti di lavoro e gravi conseguenze per la regione in questione. Ci sono tuttavia anche esempi di ristrutturazioni di successo in cui sono stati creati nuovi posti di lavoro e le regioni sono riuscite a sopravvivere e addirittura a crescere, con un’occupazione a più lungo termine. Qual è il segreto? Ci sono alcuni fattori fondamentali: responsabilità sociale, partecipazione e strategie a lungo termine.

Vediamo per prime le strategie a lungo termine. Non ho una grande stima delle imprese che non hanno un programma a lungo termine per fare fronte con successo alla concorrenza mondiale e che prendono sovvenzioni a breve termine prima di andarsene dalla regione in questione. Inoltre, è necessaria la partecipazione, e a questo proposito intendo la partecipazione del bene più importante di cui dispongono le imprese: i dipendenti. I dipendenti sono la risorsa più importante delle imprese e non dovrebbero essere informati e consultati solo quando sono in atto cambiamenti. I lavoratori dovrebbero partecipare al processo di ristrutturazione. Dovrebbero poter essere coinvolti in tale processo e dovrebbero poterlo influenzare. In questo modo, non è necessario scendere in strada a manifestare. In questo modo, possono essere creati nuovi posti di lavoro. E’ anche necessario dare prova di responsabilità sociale sin dalle fasi più precoci e formare il personale in modo che sia in grado di affrontare le sfide a lungo termine del futuro e anche per aiutare le regioni, in quanto sono spesso le imprese a svolgere un ruolo importante nelle regioni in cui è necessario dare prova di responsabilità sociale.

Per quanto concerne l’industria automobilistica, si tratta di un settore che è diventato sempre più globalizzato e costituito da un numero sempre più ridotto di imprese. La ristrutturazione sarà necessaria. Ci sono molte cose che possiamo fare a livello europeo. Possiamo, come ha detto l’onorevole Jonckheer, rafforzare i comitati aziendali e le direttive in materia. Possiamo lavorare su informazione e consultazione. Credo che abbiamo bisogno di accordi quadro tra le industrie e i sindacati a livello europeo per poter gestire i cambiamenti che si verificheranno in futuro. Questo sarà sempre più importante. La ristrutturazione è un fenomeno con cui dobbiamo convivere, ma che può essere trasformato in un successo se sarà consentito ai lavoratori di partecipare attivamente e se le imprese coinvolte daranno prova di responsabilità sociale.

(Applausi da vari banchi)

 
  
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  Roberto Musacchio (GUE/NGL). – Signor Presidente, onorevoli colleghi, è bene ricordare che stiamo parlando di persone in carne ed ossa, che ci stanno anche ascoltando e che richiedono, dunque, risposte concrete.

Un anno fa sono intervenuto in Aula per parlare di siderurgia e di Terni, una città italiana che vedeva a rischio la propria vita per l’operare di una multinazionale. Il pronunciamento di questo Parlamento fu molto utile. Oggi devo tornare a parlare di un’altra fabbrica, la Eaton, in Piemonte: anche qui i lavoratori sono a rischio a causa del comportamento di una multinazionale; vorrei citare anche Getronix, e altri, abbiamo sentito, parlano di Opel.

In tutti questi casi, come per Terni, noi dobbiamo e possiamo aiutare. Dobbiamo poi anche intervenire perché tutto ciò non si ripeta, cioè non accada che multinazionali, che peraltro realizzano profitti e magari godono di fondi pubblici, anche europei, usino l’Europa addirittura mettendo un paese contro l’altro, lavoratori contro altri lavoratori.

Dobbiamo decidere che bisogna, con norme concrete, combattere il dumping, le delocalizzazioni, perché esse non hanno nulla a che vedere con la concorrenza e il mercato, ma, al contrario, minano la coesione sociale e scaricano costi insopportabili su tutti noi.

Per questo occorrono risposte concrete: una è quella di rafforzare veramente i comitati aziendali europei. Attribuire più potere ai lavoratori e ai sindacati ci aiuterà anche a costruire un’idea di quale sviluppo debba avere l’Europa.

Qualcuno considera affidabile questo mercato speculativo, pensando che poi, magari, ci sarà un saldo positivo nell’occupazione, che invece non c’è; io penso che la politica si debba occupare di ciò che bisogna produrre in questa Europa e che, dunque, dobbiamo rispondere anche su questo terreno.

Ritengo che chi vuole costruire l’Europa debba sapere che l’unità dei lavoratori europei, e non la loro divisione, è un bene indispensabile per costruire questa unità dell’Europa e che, dunque, non il dumping, ma l’armonizzazione delle regole e dei diritti verso l’alto sono un preciso impegno per questo Parlamento.

 
  
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  Malcolm Harbour (PPE-DE).(EN) Signor Presidente, non è una coincidenza che il mio collega, onorevole Bushill-Matthews, ed io abbiamo chiesto di intervenire in questo dibattito. Veniamo dalla regione dei West Midlands, nel Regno Unito, una regione che storicamente è sempre stata molto dipendente dall’industria automobilistica, che ha assistito a numerosi cicli di chiusure e ristrutturazioni.

L’altro giorno sono andato a parlare in una scuola di Coventry e ho detto ai ragazzi: “Sapete dove si trovano ora il negozio di Blockbuster e quel supermercato? Negli anni ’80, lì c’era uno stabilimento automobilistico in cui lavoravano 20 000 persone tra le quali c’ero anch’io”.

Non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Stiamo discutendo del problema come se fosse una novità. Gli investimenti creeranno posti di lavoro e forniranno la soluzione ai problemi di cui hanno parlato molti colleghi su questo lato: investimenti in nuovi autoveicoli, investimenti in nuovi stabilimenti, investimenti in nuovi robot che ridurranno i costi di produzione, e investimenti in qualità. Chiedo all’onorevole Schulz da dove verranno questi investimenti. Verranno dagli utili. Quello che manca all’industria automobilistica non sono cuori sanguinanti; ha invece bisogno di più utili da investire nei prodotti nuovi. Nelle imprese di successo funziona così.

Un altro stabilimento nel quale ho lavorato durante i 30 anni che ho trascorso nel settore – lo stabilimento di Oxford di quella che era all’epoca la British Motor Corporation – è ora uno degli stabilimenti automobilistici di maggiore successo in Inghilterra, e produce la Mini. La si vede ovunque, la si vede in America. La BMW – società tedesca proprietaria di quello stabilimento – sta realizzando investimenti dell’ordine di 250 milioni di sterline per fabbricarvi un’automobile nuova e di questo la ringraziamo. Questa operazione creerà 1 000 nuovi posti di lavoro. Un motore che veniva fabbricato in Brasile ora sarà fabbricato a Birmingham, nel mio collegio elettorale.

Vorrei dire ai miei amici in Portogallo – molti dei quali interverranno tra breve su questi problemi: venite a parlare con chi di noi ha già affrontato questo problema. Uno dei giorni più tristi della mia vita è stato quando mi sono recato presso lo stabilimento automobilistico di Longbridge per incontrare il curatore fallimentare. Avevo cominciato a lavorarvi nel 1967 quando aveva 25 000 dipendenti, e in quel momento mi rendevo conto che stavo entrando in una fabbrica vuota.

Questa è la realtà della vita industriale ed è così da tempo. Il problema è come affrontarla. Abbiamo bisogno di un’occupazione migliore, abbiamo bisogno della piena occupazione, abbiamo bisogno di riqualificazione, e abbiamo bisogno di aiutare i lavoratori licenziati a trovare un nuovo posto di lavoro. Abbiamo le risposte anche per i casi in cui non è possibile sempre salvare qualcosa. Siamo intervenuti a Longbridge, dove erano state licenziate 5 000 persone. Attualmente stiamo lavorando da Peugeot e in altre zone. Venite a parlarci degli interventi pratici che stiamo attuando e smettetela di lamentarvi dei problemi in quest’Aula. Sono problemi che abbiamo vissuto tutti i giorni. Non serve tenere altri dibattiti come questo. Dobbiamo invece individuare una via percorribile per il futuro.

 
  
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  Jean-Louis Cottigny (PSE).(FR) Signor Presidente, onorevoli colleghi, sono tentato di riprendere le osservazioni dell’onorevole Harbour. Mentre il collega ha assistito a licenziamenti e ristrutturazioni, io sono stato licenziato tre volte a causa di evoluzioni economiche e ristrutturazioni nel Nord Pas-de-Calais, in Francia. Il gruppo socialista al Parlamento europeo è favorevole a una politica che consenta alle imprese di creare posti di lavoro, di modernizzarsi e di favorire lo sviluppo economico. Tuttavia, quando parla di sviluppo economico, il gruppo socialista intende anche sostegno sociale, per creare ricchezza, ma anche per ridistribuirla. L’Europa deve mostrare il suo modello sociale europeo.

E’ il motivo per il quale abbiamo lavorato collettivamente e per il quale oltre l’80 per cento di noi ha votato a favore di una relazione sulla ristrutturazione e l’occupazione, nella quale affermiamo che certamente dobbiamo prevedere una forma di sostegno, ma che dobbiamo anche spiegare all’Europa chi siamo e che cosa facciamo. Abbiamo votato a favore, a larghissima maggioranza, perché vogliamo fare sapere che, se l’Europa fornisce aiuti economici ed eroga fondi pubblici e se, in qualsiasi momento, si scopre che esiste una forma di “turismo sovvenzionato”, allora questo denaro deve essere rimborsato. General Motors, gruppo in cui l’anno scorso oltre 500 000 lavoratori sono stati colpiti dagli effetti dalla ristrutturazione, è un esempio di questo fenomeno che è per noi fonte di preoccupazione. Non ci stiamo lamentando, ma riteniamo che tutti debbano essere rispettati, in particolare i lavoratori.

Le ristrutturazioni sono necessarie per il mantenimento della competitività economica delle nostre imprese, tuttavia comportano non poche conseguenze. Nel caso di General Motors oggi, come nei numerosi altri casi di ristrutturazione, i cittadini europei si aspettano una risposta forte dall’Unione. Il Presidente Barroso ci ha dato questa risposta chiedendo alla nuova Presidenza finlandese di incarnare l’Europa dei risultati. Ebbene, l’Europa dei risultati comincia qui, in quest’Aula, con l’invio di un forte segnale ai lavoratori che oggi sono in difficoltà. Devono naturalmente essere adottate misure di sostegno, in materia di formazione e aiuti, ma dobbiamo sin d’ora chiederci come sarà rimborsato il denaro pubblico che è stato distribuito.

(Applausi)

 
  
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  Helmuth Markov (GUE/NGL).(DE) Signor Presidente, signor Commissario, le chiusure di stabilimenti, come questa in Portogallo, non sono casi isolati. Nel 2005 nell’Unione europea è stato perso oltre mezzo milione di posti di lavoro a seguito di ristrutturazioni.

Le società quotate in borsa, qualunque sia il paese in cui hanno sede, evidenziano gli utili più elevati mai registrati. Le vendite esplodono e si taglia drammaticamente sull’occupazione. Nel corso degli ultimi tre anni, la produttività delle imprese quotate all’indice di borsa tedesco DAX è aumentata in media del 6,5 per cento. Questo significa senza alcun dubbio che sono competitive! Quando discutiamo di quello che occorre fare, dobbiamo chiederci se la base sulla quale concediamo aiuti sia corretta.

Vorrei farvi alcune proposte, la maggior parte delle quali non è ancora stata presa in considerazione. Non si potrebbe forse prudentemente ipotizzare che gli aiuti siano concessi in via prioritaria per i prodotti e i processi innovativi, per nuove attività di ricerca e sviluppo invece che per stabilimenti e attrezzature? Ritengo che si potrebbe utilizzare questa classificazione per limitare la concessione di aiuti.

Ho poi una seconda domanda: è saggio limitare il periodo di rimborso a cinque anni? Il periodo di ammortamento per le attrezzature è generalmente di 10-15 anni. A rigore di logica, le imprese dovrebbero rimborsare il denaro nel periodo necessario ad ammortizzare la spesa di capitale.

Terzo aspetto: quando si tratta di valutare se concedere o meno gli aiuti, non dovremmo forse esigere e verificare che le imprese che operano a livello internazionale siano conformi agli orientamenti dell’Organizzazione mondiale della sanità, dell’Organizzazione internazionale del lavoro nonché ai requisiti in materia di emissioni applicabili in tutte le loro sedi? Le imprese non conformi semplicemente non potrebbero ricevere aiuti.

Quarto aspetto: è ragionevole concedere sovvenzioni a imprese i cui lavoratori non sono coperti da un contratto collettivo e che i sindacati non sono in grado di influenzare? In casi di questo tipo, i contribuenti europei pagano due volte. Noi finanziamo alle imprese la loro attività di ricerca e sviluppo e le loro spese di attrezzatura e poi loro licenziano i dipendenti, e il contribuente europeo deve poi nuovamente intervenire nel finanziamento delle indennità di disoccupazione. Non è certo questo un esempio di buona economia!

Un ultimo aspetto: se vogliamo condurre un’autentica politica strutturale e regionale, deve essere creato un legame molto più stretto tra le necessità dell’impresa di ricevere aiuti e l’impatto positivo di tali aiuti sulla regione.

 
  
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  Edite Estrela (PSE).(PT) General Motors sta licenziando migliaia di lavoratori europei. Lo scorso anno in Germania si sono persi 9 000 posti di lavoro. Quest’anno è stata annunciata la soppressione di 900 posti di lavoro nel Regno Unito, e più recentemente la chiusura dello stabilimento di Azambuja in Portogallo, che è in funzione da decenni e nel quale lavorano 1 200 persone.

Vorrei cogliere questa opportunità per porgere il benvenuto ai rappresentanti dello stabilimento di Azambuja che sono oggi presenti in Aula ed esprimere loro la nostra solidarietà. Quando parliamo di migliaia di licenziamenti, non sono soltanto grandi numeri, non sono solo statistiche o percentuali, sono esseri umani, tragedie famigliari, e sono stupefatta che alcuni deputati di questo Parlamento non se ne rendano conto.

La chiusura dello stabilimento di Azambuja ci colpisce tutti in quanto potrebbe essere un ulteriore passo verso lo smantellamento di altri stabilimenti di General Motors nell’Unione europea e la loro successiva delocalizzazione ad est – in Russia e in Asia. Per questo il presente dibattito è utile ed è positivo che l’onorevole Schulz abbia preso l’iniziativa di metterlo in programma, per darci la possibilità di avere qualche risposta.

Primo, che cosa si può fare per evitare la chiusura dello stabilimento di Azambuja? Questo dibattito dovrebbe anche aiutare le multinazionali a rendersi conto che non possono semplicemente adottare il comportamento “usa e getta”; non possono ricevere incentivi sotto forma di finanziamenti comunitari o sgravi fiscali in uno Stato membro e poi andarsene in un altro, nel tentativo di ottenere altri aiuti e accrescere gli utili. Le chiusure non possono essere la norma. Devono essere evitabili e noi, insieme alla Commissione, dobbiamo naturalmente fare tutto quanto in nostro potere perché non si ripetano e perché, in caso di difficoltà, sia utilizzato il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione.

 
  
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  Pier Antonio Panzeri (PSE). – Signor Presidente, onorevoli colleghi, le questioni poste nella comunicazione da parte del Commissario sono molto importanti. Di fronte ai cambiamenti intervenuti, e che sono ancora in atto, negli assetti produttivi nazionali ed europei, si pone per l’Europa il problema del governo dei processi di ristrutturazione industriale, che hanno ricadute pesantissime sui lavoratori e nei diversi territori.

L’onorevole Harbour si chiedeva poco fa quale possa essere il tema del futuro, la mia risposta è questa: “Il tema del futuro è come governare questi processi”. Ormai sono molti i casi intorno ai quali si stanno determinando problemi, che vanno sotto il nome di delocalizzazione, non rispetto degli accordi sindacali, perdita di posti di lavoro.

Dal caso di General Motors a quello di tante piccole e medie realtà sino a ciò che sta avvenendo, ad esempio, nello stabilimento piemontese della Eaton, azienda nella quale il processo di ristrutturazione e il non rispetto delle intese sindacali stanno mettendo a serio rischio i posti di lavoro. Per questo è necessario assumere un preciso orientamento europeo, che si riconosca nell’idea di un governo effettivo di questi processi, anche per dare maggiore coerenza agli stessi obiettivi di Lisbona e allo stesso dialogo sociale, ritenuto uno dei pilastri di questa strategia.

L’invito è, dunque, quello di trovare una posizione comune per dare forza e sostanza alla stessa azione delle Istituzioni europee, a partire dal Parlamento, in questo campo.

Vorrei sottolineare un ultimo aspetto: appare oggi del tutto evidente che il tema delle ristrutturazioni richiede una revisione degli strumenti comunitari a disposizione. Un solo esempio – e vorrei sentire l’opinione del Commissario in proposito – se si vogliono davvero governare questi processi è ineludibile l’esigenza di rafforzare e riformare i comitati aziendali europei. C’è bisogno di un aggiornamento della direttiva, se vogliamo rispondere alle nuove esigenze in materia.

Mi auguro che su questo si trovi una posizione comune da parte di tutto il Parlamento e da parte della Commissione.

 
  
  

PRESIDENZA DELL’ON. ONESTA
Vicepresidente

 
  
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  Joel Hasse Ferreira (PSE).(PT) Signor Presidente, onorevoli colleghi, la situazione di Azambuja è allarmante. Migliaia di lavoratori, alcuni dei quali sono oggi presenti in Aula, rischiano di perdere il posto di lavoro. Questo vale anche per migliaia di lavoratori delle aziende dell’indotto e per le loro famiglie nella regione di Azambuja e nelle aree circostanti, nonché per i lavoratori di General Motors stessa.

Mi sono recentemente incontrato con la rappresentanza dei lavoratori portoghesi, con il sindaco e con la collega, onorevole Madeira, ma vorrei anche evidenziare che il problema ha una portata più ampia, che si estende a livello europeo. Sappiamo che General Motors ha incontrato difficoltà di natura strategica e ha chiesto l’intervento della Renault Nissan nella gestione. Questo non solleva tuttavia la società dalle sue responsabilità.

La risoluzione che abbiamo presentato mette General Motors di fronte alle sue responsabilità in Europa e descrive con grande chiarezza quello che sta avvenendo nella regione di Azambuja. Signor Presidente, onorevoli colleghi, i cambiamenti strategici e le ristrutturazioni aziendali devono tenere conto del fatto che i lavoratori sono esseri umani e non solo fattori della produzione. L’Unione europea deve avere una strategia chiara, deve disporre di strumenti più idonei ad affrontare tali problemi, se vuole avere un modello sociale europeo che funzioni correttamente. La risoluzione che abbiamo presentato è un passo in tale direzione.

 
  
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  Jamila Madeira (PSE).(PT) La situazione alla quale hanno fatto riferimento gli oratori precedenti è direttamente vissuta dai lavoratori di General Motors in Portogallo. E’ purtroppo una storia nota in questi ultimi tempi nell’Unione europea, come è già stato ricordato in quest’Aula.

Le imprese ricevono aiuti e incentivi dallo Stato e dalla Comunità per insediarsi in una data regione e in un dato paese, e poi delocalizzano, contravvenendo alle regole di condotta in vigore, senza alcun rimorso o rispetto per le centinaia o migliaia di lavoratori, e spesso intere famiglie, che sono licenziati senza il minimo indugio. La ricerca di facili ed elevati utili e il fenomeno della globalizzazione non possono giustificare la tragedia economica e sociale che colpisce gli anelli più deboli della catena economica.

Signor Commissario, il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione, adottato nella riunione del Consiglio europeo di dicembre, non ha né il mandato né la capacità di evitare tutte le situazioni che si sono create in Europa. E’ un fondo internazionale studiato per un numero limitato di licenziamenti e di paesi a seguito delle trasformazioni del commercio mondiale. E’ necessario fare di più. Affinché ciò sia possibile, l’Unione europea deve definire chiaramente il piano d’azione che deve essere portato avanti dalle aziende manifatturiere in Europa e dalle imprese che cercano di raggiungere con i loro prodotti questo mercato di 455 milioni di consumatori. Per poter dare l’esempio al mondo, dobbiamo cominciare ad esigere il rispetto del modello sociale europeo e il rispetto dei diritti umani, e farlo in modo diverso.

 
  
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  Günter Verheugen, Vicepresidente della Commissione. (DE) Signor Presidente, onorevoli deputati, consentitemi ancora due brevi osservazioni. Per quanto riguarda il caso specifico che ha prevalso negli ultimi interventi, ossia quello di Azambuja, l’asserzione secondo cui l’impresa in questione sta realizzando utili enormi a spese dei suoi dipendenti e del contribuente europeo sarebbe piuttosto difficile da convalidare, perché l’epoca in cui General Motors era in attivo fa ormai parte del passato, sia in Europa sia in altre regioni del mondo. Se non erro, l’anno scorso è stata registrata una perdita di dieci miliardi di dollari, che in ogni caso non è una somma irrilevante. Questo caso deve essere pertanto valutato in modo un po’ diverso dai casi che aveva probabilmente in mente l’onorevole Martin Schulz, quando ha fatto riferimento a certe forme di capitalismo moderno, che hanno effettivamente conseguenze sociali nocive, come nessuna persona ragionevole potrà negare.

Secondo: in questo Parlamento c’è evidentemente un consenso in merito al fatto che il cambiamento strutturale è inevitabile e che non lo si può accettare passivamente come si accetta il bello o il cattivo tempo, ma che si può fare qualcosa quando intervengono cambiamenti strutturali – anzi si deve fare qualcosa, perché ne va del benessere delle persone. La cosa fondamentale che può fare oggi una moderna politica economica è impostare il cambiamento strutturale in modo che le persone non siano più vittime abbandonate sul ciglio della strada. E questo è proprio l’obiettivo della nostra politica.

Sono state presentate alcune proposte molto interessanti. Vorrei concentrarmi almeno su una di esse e sottolineare con forza che anch’io sono personalmente convinto che il rafforzamento dei diritti dei lavoratori in Europa consentirebbe di gestire in modo più positivo il cambiamento strutturale.

 
  
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  Presidente. – A conclusione della discussione, comunico d’aver ricevuto cinque proposte di risoluzione ai sensi dell’articolo 103, paragrafo 2, del Regolamento(1).

La discussione è chiusa.

La votazione si svolgerà giovedì, alle 12.00.

 
  

(1)Cfr. Processo verbale.

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