2. Composizione del Parlamento (cfr. processo verbale)
3. Banca mondiale
Presidente. – L’ordine del giorno reca le dichiarazioni del Consiglio e della Commissione sulla Banca mondiale.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Signor Presidente, nell’ambito di questa dichiarazione del Consiglio sulla Banca mondiale posso confermarvi che tale istituzione svolge un ruolo molto significativo a livello globale nell’ambito del finanziamento dello sviluppo. E’ pertanto chiaro che la gestione politica e amministrativa della Banca mondiale è un argomento della massima importanza. Tuttavia, in qualità di rappresentante della Presidenza del Consiglio dell’Unione europea, purtroppo non sono in grado di prendere posizione a nome del Consiglio, né di riferire sui lavori svolti dal Consiglio al riguardo.
In effetti l’Unione, in quanto tale, non svolge alcun ruolo nel processo decisionale e nel funzionamento della Banca mondiale, cosa di cui di nuovo mi rammarico. Spetta dunque agli Stati membri dell’Unione, che sono nel contempo membri degli organi della Banca mondiale, definire la propria posizione di fronte alla stessa. Il Consiglio quindi non ha adottato alcuna posizione sulle materie in discussione, in quanto non ha alcuna autorità per farlo. Nessuna formazione del Consiglio ha mai discusso una strategia per la Banca mondiale, né il coordinamento di un’eventuale posizione comune europea al riguardo, o le procedure decisionali esistenti in seno a questa istituzione.
Vorrei inoltre aggiungere che gli Stati membri si adoperano per coordinare le proprie posizioni al fine di avere maggior peso in seno alle istituzioni internazionali, comprese quelle finanziarie come la Banca mondiale; tale sforzo tuttavia non coinvolge il Consiglio in quanto Istituzione, poiché, lo ripeto, la Comunità non ha competenze in questo ambito.
E’ altresì vero che il candidato alla Presidenza della Banca mondiale Paul Wolfowitz si è recato a Bruxelles, dove ha incontrato il Presidente del Consiglio ECOFIN Junker e i rappresentanti degli altri governatori europei della Banca. In occasione di quella riunione, a carattere totalmente informale, si è parlato della futura strategia della Banca mondiale per il finanziamento dello sviluppo con il candidato alla Presidenza proposto dal governo americano, come di consuetudine.
Non posso dunque che rammaricarmi per il fatto che il Consiglio non abbia alcuna competenza in materia. Forse un giorno sarà necessario considerare come migliorare il coordinamento tra gli Stati membri dell’Unione europea in seno alle istituzioni internazionali, nelle quali, in effetti, grazie al loro peso collettivo, detengono la maggioranza anche in rapporto agli Stati Uniti.
Joaquín Almunia,Membro della Commissione. – (ES) Signor Presidente, in qualità di Commissario responsabile per le relazioni con le istituzioni finanziarie internazionali, sono grato per l’opportunità di spiegare al Parlamento le posizioni della Commissione sulle relazioni della nostra Istituzione con la Banca mondiale.
La Banca mondiale e l’Unione europea sono i due principali protagonisti mondiali della lotta contro la povertà e del finanziamento dell’aiuto allo sviluppo.
Il Parlamento è ben consapevole che l’Unione fornisce circa metà del totale degli aiuti pubblici ai paesi in via di sviluppo, e che nella maggioranza dei casi è anche il loro principale partner commerciale – un dato, questo, che riflette quanta importanza abbia la solidarietà nella nostra politica internazionale.
Il principale obiettivo della politica comunitaria per lo sviluppo è quello di ridurre e, in ultima istanza, eliminare la povertà. Tale obiettivo richiede di sostenere lo sviluppo sostenibile in campo economico, sociale e ambientale, di promuovere la graduale integrazione dei paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale e di combattere le disuguaglianze.
Come gli onorevoli deputati sanno, l’Unione si è assunta il fermo impegno di contribuire al raggiungimento degli obiettivi del Millennio mediante maggiori e migliori finanziamenti dell’aiuto allo sviluppo, maggiore coerenza tra le politiche di sviluppo e soprattutto, maggiore attenzione all’Africa.
In ciascuna di queste aree, su iniziativa del collega Michel, la Commissione ha di recente proposto azioni specifiche. Mi sembra che lo stesso Louis Michel abbia avuto la possibilità di discuterne in Parlamento.
Vorrei commentare brevemente le prime due questioni: i livelli di finanziamento e la necessità di migliorare la coerenza tra le nostre politiche di sviluppo.
Per quanto riguarda il finanziamento, al Vertice di Monterrey l’Unione si è impegnata ad aumentare gli aiuti ufficiali allo sviluppo dallo 0,33 per cento del PIL nel 2002 allo 0,39 per cento nel 2006, come primo passo verso il rispetto dell’obiettivo dello 0,7 per cento nel 2015.
Il mese scorso la Commissione ha proposto due obiettivi aggiuntivi e correlati per il 2010: un obiettivo intermedio per tutta l’Unione dello 0,56 per cento del PIL per gli aiuti allo sviluppo e un obiettivo per gli aiuti ufficiali allo sviluppo specifico per ciascuno Stato membro, ovvero almeno lo 0,51 per cento per gli Stati membri che facevano parte dell’Unione prima dell’allargamento e lo 0,17 per cento nel 2010 per i nuovi Stati membri.
Tuttavia, questi sforzi, per quanto importanti, non sono sufficienti. Oltre all’aspetto degli aiuti, le politiche dei paesi sviluppati incidono pesantemente sulla possibilità dei paesi in via di sviluppo di conseguire gli obiettivi del Millennio. In proposito la Commissione sottolinea l’importanza della coerenza delle politiche di sviluppo e per la prima volta si sta assumendo impegni in proposito in queste comunicazioni.
Vorrei parlare di due questioni inerenti alle relazioni con la Banca mondiale: la cooperazione operativa tra la Commissione e la Banca e la rappresentanza dell’Unione europea nella direzione di tale istituzione.
Le relazioni tra la Commissione e la Banca mondiale sono di lunga data. Condividiamo gli stessi obiettivi di ridurre la povertà e naturalmente gli obiettivi del Millennio. La Banca mondiale sta lavorando per conseguire questi obiettivi, per mezzo delle sue principali linee operative e della valutazione prevista dalla Relazione globale di monitoraggio dei progressi compiuti.
La Commissione e la Banca collaborano strettamente per fornire gli aiuti mediante il Trust Fund Agreement – l’Accordo sul fondo fiduciario – ratificato nel 2001 e riveduto nel 2003. Questa cooperazione si è tradotta nella partecipazione dell’Unione a vari fondi fiduciari, con un contributo totale di oltre 1 500 milioni di euro dal 2000.
Altri esempi sono i fondi per la lotta all’AIDS e fondi speciali, come l’Iniziativa multilaterale per la riduzione del debito dei paesi poveri fortemente indebitati (HIPC).
Inoltre, sia la Commissione che la Banca centrale si basano sempre più sulle strategie nazionali di riduzione della povertà definite dagli stessi paesi in via di sviluppo.
Oltre a questi obiettivi globali, la cooperazione con la Banca mondiale si incentra su alcune regioni geografiche prioritarie che sono oggetto di analisi congiunte, con cui intratteniamo un dialogo comune sulle politiche e ci adoperiamo per coordinare la programmazione finanziaria per i paesi più vicini ai confini dell’Unione europea. Non parliamo pertanto solo del coordinamento delle iniziative della Banca mondiale e delle Istituzioni europee nei paesi che appartengono già all’Unione, ma anche, naturalmente, nei paesi candidati e nei paesi che rientrano nella politica di vicinato, come i Balcani occidentali, il nord Africa, il Medio Oriente e i paesi che appartengono alla Comunità degli Stati indipendenti.
La cooperazione dell’Unione, per il tramite della Commissione e della Banca mondiale, mira a garantire che le politiche applicate in quei paesi siano complementari, contribuiscano al recepimento dell’acquis comunitario e prestino particolare attenzione allo sviluppo istituzionale, all’ambiente e alle sue infrastrutture, alle riforme economiche e allo sviluppo del settore privato.
A tal fine, negli scorsi cinque anni la Commissione e talvolta la Banca europea per gli investimenti hanno firmato tre protocolli d’intesa con la Banca mondiale.
Questi protocolli fungono da quadro pratico per rafforzare la cooperazione nell’ambito del dialogo economico e dell’assistenza tecnica e finanziaria. Essi coprono il coordinamento delle nostre attività nei settori che rientrano nella politica di vicinato dell’Unione. Nei prossimi mesi, inoltre, tali protocolli verranno estesi ai nuovi Stati membri e ai paesi candidati, con la prospettiva di includere i Balcani occidentali.
Infine vorrei parlare della rappresentanza dell’Unione negli organi direttivi della Banca mondiale.
Attualmente fanno parte della Banca 184 Stati, tra cui vi sono i 25 paesi membri dell’Unione europea. La percentuale di voti detenuta dai 25 Stati membri dell’Unione in seno alla Banca mondiale è pari al 28 per cento, mentre gli Stati Uniti hanno il 16 per cento.
Tuttavia, questo 28 per cento non riflette, in effetti, il peso reale dell’Unione, essendo il contributo dell’Unione ai finanziamenti concessi persino superiore al 28 per cento. In proposito è rivelatore l’esempio fornito dall’ultima relazione dell’Associazione internazionale per lo sviluppo (IDA), dalla quale risulta uno spettacolare cambiamento nei contributi dei donatori, che ha visto la quota europea passare dal 48 al 60 per cento, mentre quella degli Stati Uniti è scesa al 13,8 per cento, il livello più basso nella storia di questa istituzione.
Nonostante i dati summenzionati dimostrino che l’Unione partecipa sia al capitale che ai finanziamenti della Banca mondiale, non stiamo traendo pieno vantaggio da questo peso, perché l’Unione europea non ha una rappresentanza unificata negli organi direttivi della Banca. Pertanto, gli Stati membri dell’Unione, anche se numericamente dominano il Consiglio direttivo della Banca, in generale hanno meno influenza rispetto agli Stati Uniti.
Attualmente la Commissione partecipa solo in veste di osservatore alle riunioni del Comitato di sviluppo della Banca, che è il principale organo decisionale dell’istituzione. La medesima situazione si ripete anche nel Comitato monetario e finanziario internazionale del Fondo monetario internazionale e mette in rilievo la palese contraddizione tra l’importanza dell’Unione europea nella cooperazione allo sviluppo e la sua effettiva influenza sulla Banca mondiale o sull’andamento del sistema monetario internazionale, per mezzo della nostra moneta unica, nel caso del Fondo monetario internazionale.
La Commissione ribadisce che l’Unione, se vuole porre fine alla disparità tra influenza esercitata e contributi forniti e se aspira ad essere più presente sul piano internazionale, deve parlare a una sola voce. Se l’Unione sarà in grado di presentare una posizione unitaria europea, accrescerà la propria visibilità ed influenza. In proposito bisognerebbe notare che vi sono stati alcuni piccoli progressi nel coordinamento dell’Unione con gli organi direttivi della Banca.
Ad esempio, dall’anno scorso i direttori esecutivi della Banca mondiale che rappresentano paesi dell’Unione europea hanno riunioni annuali con membri del Parlamento europeo, con la Commissione e con rappresentanti delle organizzazioni non governative.
I direttori esecutivi dell’Unione in seno alla Banca mondiale hanno convenuto di incontrarsi con cadenza settimanale per scambi di opinioni, e un funzionario della Commissione appartenente alla nostra delegazione di Washington partecipa regolarmente a queste riunioni.
La Commissione sta lavorando per migliorare il coordinamento dei direttori esecutivi europei a Washington, ma l’obiettivo ultimo deve essere la rappresentanza unificata dell’Unione negli organi direttivi della Banca mondiale. Naturalmente, prima di assumere tale decisione sarà necessario esaminarne attentamente le implicazioni giuridiche e finanziarie; tuttavia questo non ci deve impedire di analizzare seriamente come compiere progressi per conseguire tale obiettivo.
In conclusione, intratteniamo con la Banca mondiale una cooperazione stretta e di lunga data, in particolare nel sostegno ai paesi in via di sviluppo. La Commissione desidera mantenere e rafforzare queste eccellenti relazioni di lavoro e migliorare il coordinamento sia con la Banca mondiale a livello operativo che tra i rappresentanti degli Stati membri negli organi direttivi dell’istituzione. In tal modo l’Unione parlerà a una sola voce e avrà l’influenza che merita in seno alla Banca mondiale.
Anders Wijkman,a nome del gruppo PPE-DE. – (SV) Signor Presidente, desidero ringraziare il Presidente Schmit e il Commissario Almunia per i loro contributi. Si può dire molto sulla Banca mondiale, sulla sua gestione e in particolare sulle modalità di nomina dei suoi direttori. La recente elezione di Paul Wolfowitz dimostra che hanno pesato i meriti politici più che le qualifiche per il compito specifico, a riprova del fatto che la nomina degli alti dirigenti del sistema internazionale lascia ancora molto a desiderare.
Visto che ho poco tempo a disposizione, mi concentrerò in particolare sulle relazioni tra l’Unione europea e la Banca mondiale. Sia il Presidente Schmit che il Commissario Almunia indicano che l’attuale debolezza è da imputare al fatto che non agiamo all’unisono e che non parliamo a una sola voce. In Parlamento si è svolta di recente una riunione con i direttori europei della Banca mondiale, i quali sono stati assolutamente unanimi nel chiedere con insistenza una maggiore unità d’azione da parte dell’Unione sulle questioni relative allo sviluppo, sia in generale che nell’operato interno alla Banca mondiale. Inoltre, circa un mese fa la commissione per lo sviluppo ha incontrato Jeffrey Sachs, il quale ha chiesto perché, visto che il flusso di denaro erogato a titolo di aiuti da parte dell’Unione europea è di gran lunga superiore a quello del resto del mondo, l’Unione non intraprenda un’azione più concertata. Egli ha affermato che in tal modo il nostro lavoro sarebbe più efficace e produrrebbe migliori risultati, e che avremmo anche maggiore influenza su ogni dimensione di questo importante contesto.
In effetti sia il Presidente Schmit che il Commissario Almunia nei loro interventi hanno messo in rilievo che attualmente manca qualcosa. Come possiamo intraprendere un’azione più concertata e unificata in politica estera, se continuiamo ad agire in modo così diviso nelle istituzioni internazionali? E’ caratteristico il fatto che nei colloqui in corso sulla futura composizione del Consiglio di sicurezza non si parli dell’opportunità di assegnare all’UE, in quanto organo unificato, un seggio in seno al Consiglio di sicurezza, né del fatto che gli Stati membri invece continuano ad agire su base nazionale.
Dal canto mio posso solo sottolineare che dobbiamo apportare cambiamenti in proposito. Abbiamo bisogno di cooperare in modo più concertato e dobbiamo conciliare i nostri sforzi in modo del tutto diverso al fine di ottenere davvero i risultati auspicati dall’azione intrapresa dall’UE e di essere in grado di assumerci maggiori responsabilità nell’arena globale.
Poul Nyrup Rasmussen,a nome del gruppo PSE. – (DA) Signor Presidente, Presidente Schmit, Commissario Almunia, vorrei ringraziare il Presidente in carica del Consiglio e il Commissario per i loro contributi sulla Banca mondiale. Ritengo che abbiano davvero colto quello che in sostanza è necessario. Cinque anni dopo la firma della dichiarazione del Millennio del 2000 sulle necessità fondamentali dei paesi in via di sviluppo fino al 2015, tra i cui firmatari ci sono anch’io, dobbiamo senza dubbio prendere atto che le cose non hanno preso la giusta piega, anzi, purtroppo hanno imboccato la direzione sbagliata pressoché ovunque.
E’ incontrovertibile il fatto che, negli scorsi 15 anni, 54 paesi sono diventati più poveri e che attualmente un miliardo di persone vive con meno di due euro al giorno. La Banca mondiale non funziona bene come potrebbe. Sono in corso una serie di importanti riforme, ma restano ancora da affrontare alcuni problemi. Sostengo senza riserve l’importanza attribuita dal Commissario Almunia al fatto che l’Europa riesca a parlare a una sola voce, e vorrei richiamare l’attenzione su quattro compiti che mi paiono urgenti.
Il primo compito deriva dalla reale necessità che l’Europa trovi il modo di intraprendere azioni concertate in seno alla Banca mondiale. Se riusciremo in tale intento, avremo il 27,98 per cento dei voti, mentre gli Stati Uniti avranno il 16,39 per cento. Attualmente il paese europeo con la quota più consistente di voti, dopo gli Stati Uniti, è la Germania, con il 4,49 per cento. Non sto parlando di un nuovo conflitto di interessi, ma di un equilibrio di gran lunga migliore in seno alla Banca mondiale nonché della necessità, come secondo compito, di chiedere una riforma delle norme e delle condizioni per la concessione dei prestiti e di insistere davvero perché esse vengano applicate. Dobbiamo assicurare il coordinamento tra gli aiuti ai paesi in via di sviluppo erogati dalla Banca mondiale, dal Fondo monetario internazionale e dalle Nazioni Unite. In tal modo i nostri sforzi saranno coordinati invece di sovrapporsi.
Il terzo compito riguarda la necessità di riformare il Consenso di Washington. Dobbiamo smetterla di fare le stesse richieste ai paesi poveri e a quelli ricchi. Dobbiamo invece aiutare i paesi in via di sviluppo a costruire Stati forti e sani, che possano avvalersi del diritto di gestire direttamente la politica di sviluppo. Il nostro quarto e ultimo compito, signor Presidente, è di prendere davvero sul serio la relazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro sulla povertà mondiale, come dovrebbe fare anche la Banca mondiale. “Lavoro dignitoso per tutti”, ecco lo strumento decisivo per eliminare la povertà.
Vorrei concludere unendomi al Commissario Almunia e al Presidente Schmit nel ribadire l’importanza che l’Europa si assuma anche la responsabilità effettiva derivante dal fatto di essere la maggiore organizzazione mondiale che fornisce aiuti ai paesi in via si sviluppo. Dovremmo condividere la responsabilità di assicurare che anche la Banca mondiale agisca di conseguenza.
Johan Van Hecke,a nome del gruppo ALDE. – (NL) Signor Presidente, nel 1944, quando è stata creata la Banca mondiale, i sette paesi più ricchi, i G7, producevano la stragrande maggioranza di tutte le merci mondiali; oggi ne producono appena la metà. In quell’epoca gli Stati Uniti erano il maggiore creditore, oggi sono il maggiore debitore. Sessant’anni fa i paesi in via di sviluppo erano ancora incapaci di reggersi in piedi da soli, oggi la loro influenza sui negoziati multilaterali, ad esempio nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio, non può più essere ignorata.
Tutti questi cambiamenti indicano che la Banca mondiale ha urgente necessità di riforme radicali. Finché i paesi in via di sviluppo non avranno davvero voce in capitolo nella politica e nei processi decisionali della Banca mondiale, questa istituzione continuerà a essere percepita come uno strumento di controllo nelle mani dei cosiddetti ricchi, invece di essere un organismo internazionale che mira a perseguire stabilità e sviluppo, in uno spirito di mutuo rispetto e forte compartecipazione.
La Banca mondiale ora dispone di un dipartimento per le relazioni esterne che conta un organico di oltre 300 persone e che la Banca stessa definisce come uno dei dipartimenti più importanti per migliorare la propria immagine. Resta tuttavia da capire se tale obiettivo non si potrebbe raggiungere in altro modo, ovvero coinvolgendo in modo più efficace i paesi in via di sviluppo nelle iniziative della Banca, rendendo il processo decisionale più trasparente e controllando meglio le spese. In breve, sono tra quanti ritengono che la Banca mondiale abbia urgente bisogno di essere rifornita di risorse non in termini finanziari, ma interni. Sembra davvero che le strutture, il funzionamento e la mentalità di questa organizzazione internazionale, che è considerata tra le più grandi e tra le più autorevoli, siano fermi da oltre cinquant’anni.
Monica Frassoni, a nome del gruppo Verts/ALE. – Signor Presidente, onorevoli colleghi, sono molto grata ai colleghi degli altri gruppi che hanno sostenuto la nostra proposta di discutere la questione della Banca mondiale, anche se ero perfettamente consapevole, come la maggior parte di noi, che il Consiglio non poteva fare affermazioni molto diverse da quanto il Ministro Smith ha dichiarato stamattina. Tuttavia, noi dobbiamo essere consapevoli del fatto che una situazione non soddisfacente può e deve essere cambiata, anche perché questo mi sembra un settore nel quale la volontà politica ci può essere di aiuto.
Non dobbiamo ricorrere a grandi articoli del Trattato per fare in modo che il Consiglio e la Commissione, insieme al Parlamento, cosa assolutamente indispensabile, possa lavorare per migliorare o perlomeno per mettere all’ordine del giorno il tema del coordinamento europeo. Un coordinamento europeo che tuttavia non si dovrebbe solamente limitare al pur meritorio lavoro di cooperazione tecnica e finanziaria, ma che si deve concentrare anche sulle politiche della Banca mondiale – sulle quali, appunto, non interveniamo in alcun modo – sui processi di nomina e sui criteri di concessione dei finanziamenti. Ritengo che questi siano i tre elementi sui quali l’azione del Parlamento europeo dovrebbe essere definita meglio: lo possiamo fare se lo vogliamo.
Io penso, Presidente, lei mi potrà correggere nella sua eventuale risposta, che questo non sia un problema di competenze ma di volontà politica: se il Consiglio vuole può agire, al pari della Commissione, e lo stesso vale per il Parlamento.
Per quanto riguarda le procedure di nomina sappiamo benissimo che dal 2000 al 2001, sono state emesse delle direttive per renderle più trasparenti ed accettabili. Queste direttive sono state disattese e ciò ha un forte valore politico: ancora una volta non si tratta di una questione di carattere procedurale o istituzionale. Gli Stati Uniti hanno respinto il primo candidato proposto dagli europei alla direzione del Fondo monetario internazionale, i paesi europei non hanno fatto altrettanto quando Wolfowitz è stato presentato come candidato a dirigere la Banca mondiale. Avrebbero potuto farlo. Due telefonate sono state sufficienti per convincere un paio di primi ministri o presidenti di governo europei, e gli executive director sono stati completamente aggirati: mi sembra che ciò sarebbe stato perfettamente evitabile se l’avessimo voluto.
Per quanto riguarda la qualità delle politiche della Banca mondiale, noi oggi non abbiamo nessuna particolare garanzia che alcune piccole aperture che erano state iniziate da Wolfensohn saranno continuate: penso alla governance, penso alla questione della corruzione. Credo che anche su questo noi dovremmo cercare di incidere. Ci sono una serie di progetti estremamente controversi come la grande diga del Nam Theun in Laos o un progetto di miniera in Guatemala, che sollevano un’opposizione assolutamente generale, però i nostri executive director li hanno approvati. Se questo Parlamento o l’opinione pubblica ne fossero stati al corrente, probabilmente avrebbero reagito in modo diverso. Mi piacerebbe sentire oltre a dichiarazioni di impotenza anche qualche elemento di volontà di agire.
Luisa Morgantini, a nome del gruppo GUE/NGL. – Signor Presidente, onorevoli colleghi, ringrazio Monica Frassoni per aver chiarito in modo così diretto le questioni sul tappeto.
Penso che la nomina di Wolfowitz a capo della Banca mondiale abbia nuovamente messo in luce il deficit di democrazia e di trasparenza che caratterizza il processo di selezione e nomina del presidente della più importante istituzione finanziaria mondiale per lo sviluppo. Anche commissione sviluppo di questo Parlamento lo ha messo in evidenza. Ci piacerebbe pensare che il Presidente della Banca mondiale possegga un approccio positivo alla risoluzione dei conflitti interculturali, nonché un convinto impegno a supporto del multilateralismo, insieme, ovviamente, ad un personale coinvolgimento in favore dell’eguaglianza sociale e nella lotta alla povertà.
Ma la di là del giudizio sulla persona, nota comunque per essere uno dei più efficaci promotori della dottrina della guerra preventiva, nonché dell’esportazione della democrazia con le armi – non si sa mai, anche San Paolo si convertì sulla via di Damasco – sembra che la Banca mondiale non si sia evoluta molto rispetto al quadro fissato a Bretton Woods, ormai più di sessant’anni fa. Questo è vero anche per il sistema dei voti e dei seggi di cui è necessaria una revisione, anche per rispondere alle richieste dei paesi del sud del mondo e dei movimenti che si sono espressi in questi anni per un sud diverso e per la partecipazione.
L’Unione europea si è impegnata a garantire e facilitare una maggiore compartecipazione dei paesi in via di sviluppo nei processi decisionali dell’economia globale, incluse le istituzioni finanziarie internazionali. Tuttavia, a prescindere da questi accordi e dagli impegni assunti dall’UE – a Monterrey, Barcellona, Johannesburg – sarebbe corretto e coerente assicurare il buongoverno nella gestione di un’istituzione che per prima la richiede come condizione per accedere ai finanziamenti.
Il mancato rispetto dei criteri di democraticità e trasparenza mina le fondamenta, la legittimità e la credibilità delle istituzioni internazionali, in un mondo in cui si sente il bisogno di istituzioni internazionali forti e legittimate, che promuovono la partecipazione: basta leggere il libro di Aminata Toure che nel Mali ha avuto un’esperienza drammatica dell’operato della Banca mondiale.
L’Unione europea può svolgere un ruolo fondamentale per questa legittimità, anzi, l’Unione europea deve svolgere proprio questo ruolo, ma per farlo deve usare un’unica voce: bisogna sviluppare un maggior coordinamento tra i direttori europei, dato che l’Europa detiene il 30 per cento dei voti nel consiglio di amministrazione della Banca mondiale e anche del Fondo monetario internazionale.
L’Unione europea, lo ribadiamo, è il più grande donatore del mondo, però dimentica spesso di accompagnare le donazioni ad un’efficace azione politica. Un importante ruolo può essere svolto dai parlamenti europei e in una riunione New York questo è già stato fatto. Sono necessarie risposte chiare: la riforma democratica delle procedure deve però vedere anche un ribaltamento dell’asimmetrica posizione tra le economie del nord e del sud del mondo.
Credo che dobbiamo portare sviluppo e molto spesso, invece, le politiche della Banca mondiale hanno avuto effetti devastanti sulle popolazioni. Ciò riguarda in particolare le privatizzazioni e i bisogni primari, dato che sembra inutile, come ha detto l’onorevole Watson, che i mercati dei paesi in via di sviluppo siano pieni di merci che le popolazioni non possono acquistare perché non dispongono di lavoro e di denaro per acquistarle.
John Whittaker,a nome del gruppo IND/DEM. – (EN) Signor Presidente, nell’Unione europea siamo molto bravi con l’ipocrita retorica sulla necessità di ridurre la povertà dei paesi poveri. Nonostante le apparenze, però, non è questo l’argomento della discussione. Come ha chiarito il Commissario Almunia, si tratta dell’influenza dell’Unione europea.
A prescindere dal fatto che io personalmente ritenga Paul Wolfowitz più o meno adatto a dirigere la Banca mondiale, l’iniziale ostilità dell’Unione europea nei suoi confronti si è smorzata. L’UE ha bisogno di sostegno per la candidatura di Pascal Lamy alla guida dell’Organizzazione mondiale del commercio e per la probabile candidatura della baronessa Amos alla guida del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Di qui il commento di Action Aid secondo cui il sostegno a Wolfowitz è un compromesso, nonché le osservazioni di analogo tenore fatte da altre ONG.
Pur non sminuendo il valore dell’assistenza offerta ai paesi poveri dalla Banca mondiale e dall’Unione europea, ritengo che per tali paesi condizioni commerciali eque sarebbero più utili di qualsivoglia aiuto o alleggerimento del debito. Il commercio, più che gli aiuti, permette ai paesi poveri di autoaiutarsi, come hanno chiesto gli indonesiani dopo lo tsunami.
Purtroppo l’Unione sembra eccellere nel creare nuova povertà, quando mette in atto la propria agenda: ad esempio quando compra i diritti di pesca delle acque costiere della Mauritania, dell’Angola e del Mozambico, impoverendo così i pescatori locali; o quando cerca di comprare il tacito consenso dei paesi poveri alle sue politiche protezionistiche tramite accordi di partenariato economico.
Senz’altro la retorica continuerà. Di fatto le azioni dell’Unione europea sono guidate dalla ricerca del suo tornaconto invece che dalla filantropia, e l’Unione persegue questo tornaconto piazzando i suoi nei posti al vertice.
Hans-Peter Martin (NI). – (DE) Signor Presidente, se mi è consentito, vorrei utilizzare il breve tempo a mia disposizione per proporre un suggerimento.
Il 18 maggio la Commissione si dedicherà all’Iniziativa europea per la trasparenza. E’ in esame una vasta gamma di idee, tra le quali quella di riprogettare i siti web dell’Unione europea. Mi chiedo se il Consiglio e la Commissione, e naturalmente anche il Parlamento, non potrebbero compiere passi tangibili per lanciare un sito web migliore che affermi con chiarezza quello che fa effettivamente la Banca mondiale, quali progressi noi europei abbiamo finora conseguito in tale istituzione, quali sono i nostri rappresentanti in seno alla Banca, gli specifici progetti previsti e quali opportunità abbiamo di far sentire la nostra voce.
Perché dico tutto ciò? Dopo aver seguito la discussione sullo schermo, sono stato costretto a trarre la spiacevole conclusione che quasi tutto quello che è stato detto era già stato detto 20 anni fa. A mio avviso, sarà possibile portare avanti le necessarie riforme, e la maggioranza dei deputati ritiene che la Banca mondiale ne abbia urgente bisogno, se verranno utilizzate procedure trasparenti per rendere pubbliche le questioni trattate.
Othmar Karas (PPE-DE). – (DE) Signor Presidente, signor Commissario, onorevoli deputati, quanto è stato detto finora durante la discussione ha dimostrato di nuovo con molta chiarezza che siamo grandi erogatori di finanziamenti, ma non ancora dei grandi attori politici. Non è sufficiente che ci limitiamo a offrire spiegazioni sul motivo per cui le cose stanno così e ad esprimere il nostro rammarico; siamo chiamati a intraprendere azioni e dobbiamo fare tutto il possibile per assicurare che questo avvenga quanto prima, così da colmare il divario tra quello che siamo e quello che vorremmo essere. Altrimenti non saremo in grado di rispettare i nostri impegni né all’interno né al di fuori dell’Unione europea.
Sia il contributo del Consiglio che quello della Commissione si sono incentrati non tanto sulla Banca mondiale, quanto piuttosto su un’accurata analisi delle nostre carenze. I due interventi mettono in rilievo che il problema non è la Banca centrale, il problema siamo noi. Come il Presidente in carica del Consiglio ha già detto, il problema è che gli Stati membri, e non il Consiglio, sono responsabili della questione, anche se sarebbe comprensibile ritenere che siano la stessa identica cosa. In veste di membri del Consiglio, gli Stati membri dovrebbero fare tutto il possibile per assicurare che il Consiglio adotti misure intese a rimediare a tale carenza.
E’ stato detto che prima o poi in futuro dovremmo avviare questo processo. Tuttavia, invece di lasciare questo proposito a un futuro indefinito, dobbiamo concretizzarlo adesso e senza indugio. La Costituzione ci fornisce l’opportunità di farlo, in quanto riconosce all’Unione europea uno status giuridico, del quale dobbiamo avvalerci per affrontare le carenze della nostra rappresentanza esterna.
A mio avviso le politiche che perseguiamo in seno al Fondo monetario internazionale, alla Banca mondiale, all’Organizzazione mondiale del commercio, alle Nazioni Unite e alla Banca europea per gli investimenti sono interconnesse. Tutti i nostri rappresentanti in seno a quelle istituzioni devono parlare a una sola voce ed essere coordinati da una persona, perché possiamo assolvere i compiti che ci spettano a livello mondiale. L’accresciuta influenza della globalizzazione sulle nostre azioni implica la crescente necessità di un ordine globale, di un ordine sociale ed economico e di un ordine fondato su principi. Non saremo in grado di svolgere adeguatamente il nostro ruolo in tali organizzazioni se non iniziamo a definire un ordine del genere in seno all’Unione europea. Siamo noi che dobbiamo agire, non la Banca mondiale.
Margrietus van den Berg (PSE). – (NL) Signor Presidente, in passato il Presidente Wolfowitz ha assunto una posizione piuttosto unilaterale ed è noto per essere un sostenitore della linea dura; adesso è divenuto Presidente della Banca mondiale, che è un’istituzione multilaterale per lo sviluppo. Per dirla in termini monetari, questo è senza dubbio un notevole esempio di riciclaggio. Tale nomina inoltre è imbarazzante per l’Europa; come qualcuno ha detto poco fa, ci sono delle nuove procedure che prevedono la nostra consultazione, ma sono bastate poche telefonate dagli Stati Uniti per garantire la nomina del loro candidato. Non vi è stato alcun previo accordo su un candidato comune, come è invece successo per la nomina di Pascal Lamy all’Organizzazione mondiale del commercio. Per quanto riguarda la Banca mondiale, siamo arrivati tardi e disuniti. A mio avviso è questo il nostro tallone d’Achille, e gli interventi del Consiglio e della Commissione hanno avuto l’onestà di riconoscerlo.
Inutile dire che la questione non riguarda solo un candidato comune, ma anche la nostra politica. Tutti sanno che, in virtù del Consenso di Washington, le istituzioni finanziarie internazionali e multilaterali perseguono linee e priorità che spesso sono in contrasto con la politica di sviluppo e di lotta alla povertà che l’Europa vorrebbe attuare a livello internazionale. Non si tratta necessariamente di ottenere tutto a tutti i costi. Abbiamo bisogno di equilibrio. Per ottenere questo equilibrio e riuscire a concentrare l’attenzione della Banca mondiale sugli obiettivi sociali, la riduzione della povertà e gli obiettivi del Millennio, è necessario parlare a una sola voce, il che richiede un’azione congiunta. Sono d’accordo con quanto è stato testé detto: la nuova Costituzione ci può conferire maggiore libertà d’azione e, in un certo senso, il dovere di agire in seno alle istituzioni come Europa e di parlare a una sola voce.
E’ davvero incredibile: eroghiamo il 60 per cento dei prestiti a condizioni agevolate e abbiamo la quota maggiore dei voti, ma nello stesso tempo siamo assenti sotto tutti gli aspetti. Non tollereremo più questo stato di cose nel settore commerciale. Penso che questo sia un punto cruciale. Abbiamo inoltre bisogno di coerenza. In Africa, ad esempio, la Banca mondiale partecipa a un’iniziativa prioritaria per l’istruzione. La Commissione tuttavia non intende parteciparvi, in quanto i documenti per la strategia nazionale di quella regione prevedono strade e infrastrutture, non istruzione. Non stiamo pertanto mantenendo fede alle promesse, anche se in quest’Aula invochiamo un’azione coerente e comune.
Vi è quindi un problema da entrambe le parti. Consiglio e Commissione potrebbero riconsiderare la possibilità di intraprendere, ai sensi della nuova Costituzione, un’iniziativa, perlomeno economica e politica, a nome della Banca mondiale? Dobbiamo inoltre rafforzare la nostra attuale posizione in relazione alle modalità di cooperazione. La nostra posizione al momento è davvero sconfortante. Né il Consiglio, né la Commissione sono pronti a farsene carico. In ultima analisi entrambi hanno parlato in modo molto convincente e insieme fortemente pessimistico. Dobbiamo andare incontro al futuro con ottimismo.
Ignasi Guardans Cambó (ALDE). – (ES) Signor Presidente, è chiaro che la Banca mondiale è uno strumento efficace e potrebbe esserlo ancora di più. Non credo che il problema sia la nuova dirigenza. Non ritengo particolarmente preoccupante il fatto che la nuova dirigenza della Banca mondiale riorienti energie, finora dirette ad altre aree, al fine di fare funzionare meglio questa istituzione.
Il problema riguarda noi, sta nell’ipocrisia del discorso europeo in virtù del quale passiamo il tempo a spiegare ai nostri cittadini che l’Europa vuole esercitare un’influenza sul mondo e come intende contribuire alla pace nel mondo. I governi dicono queste cose agli elettori e poi non compiono il minimo sforzo per tradurre le parole e le promesse in azioni concrete.
L’Unione europea, in quanto tale, non ha alcun peso in seno alla Banca mondiale. Non abbiamo bisogno di una nuova Costituzione per contare di più; è un problema di volontà politica e di coerenza. Il Commissario Almunia lo ha spiegato perfettamente. In seno alla Banca centrale abbiamo 25 Stati membri che non si parlano, cosa che dobbiamo condannare. E’ molto facile protestare contro la nomina di Paul Wolfowitz, e forse dovremmo farlo; dovrebbe però venirci ancora più spontaneo condannare l’incapacità dei nostri governi di coordinarsi in materia di politiche, nomine e criteri per la concessione dei finanziamenti.
Frithjof Schmidt (Verts/ALE). – (DE) Signor Presidente, onorevoli deputati, il problema più urgente delle politiche della Banca mondiale riguarda l’aggiustamento strutturale. Da svariati decenni la Banca mondiale sostiene i programmi di aggiustamento strutturale, benché questi abbiano avuto spesso esiti grotteschi, ad esempio nel caso della privatizzazione dei servizi.
Un buon esempio di quanto detto sono le forniture idriche; nonostante la privatizzazione e la costruzione di infrastrutture, il prezzo dell’acqua è aumentato così rapidamente che le fasce sociali più povere non possono più permettersi di comprarla. Un altro esempio è la politica commerciale; in questo settore, infatti, la subordinazione della concessione di prestiti alla liberalizzazione forzata e all’apertura dei mercati ha indebolito la posizione negoziale dei paesi in via di sviluppo in seno all’Organizzazione mondiale del commercio. Tale situazione è in stridente contrasto con gli obiettivi della politica di sviluppo dell’Unione europea, che, ad esempio, attribuiscono alle forniture idriche un ruolo centrale nella lotta contro la povertà e mirano al rafforzamento della capacità negoziale dei paesi in via di sviluppo nelle trattative dell’OMC. Questa è pertanto la strategia di attacco da adottare per cambiare le politiche della Banca mondiale.
La riforma che è attualmente nelle sue fasi iniziali non cambierà assolutamente niente. La cosiddetta nuova politica di selezione per la concessione dei prestiti, di cui è imminente l’introduzione, è in sostanza l’ammissione del fallimento di più di trent’anni di politiche della Banca mondiale; in breve, in virtù di tale politica i paesi che negli ultimi anni o decenni hanno partecipato ai programmi di aggiustamento strutturale della Banca mondiale senza aver ottenuto buoni risultati e senza averne ricavato alcun vantaggio adesso otterranno denaro per affrontare i problemi sociali più urgenti. I paesi che non hanno aderito adeguatamente alle politiche della Banca mondiale riceveranno meno denaro. Tale distinzione tra paesi che si sono comportanti bene e paesi che si sono comportati male è estremamente discutibile. A mio avviso, la Commissione e il Consiglio hanno il dovere di pretendere che tale valutazione venga effettuata quantomeno sulla base di criteri chiari, trasparenti e di facile comprensione. Credo che la Commissione e il Consiglio abbiano inoltre il dovere di sollecitare la Banca mondiale ad apportare ampi cambiamenti alla sua strategia di riduzione della povertà, nel quadro della riforma delle Nazioni Unite e degli obiettivi di sviluppo del Millennio.
Proinsias De Rossa (PSE). – (EN) Signor Presidente, devo dire che sono sbalordito dalla dichiarazione odierna del Consiglio secondo la quale nessuna formazione del Consiglio ha compiuto il benché minimo sforzo per raggiungere una posizione comune sulla nostra posizione nella Banca mondiale, o per far valere in seno alla Banca mondiale il forte peso che abbiamo in termini finanziari e di voti, nonostante di recente tutti i capi di Stato abbiano solennemente firmato la Costituzione europea, che afferma la nostra volontà di porre fine alla povertà nel mondo, e nonostante tutti gli Stati membri abbiano firmato gli obiettivi di sviluppo del Millennio.
Ci sono ancora Stati che non rispettano l’impegno di arrivare a destinare agli aiuti allo sviluppo lo 0,7 per cento del PIL, obiettivo, questo, che è stato introdotto decenni fa. L’anno scorso, lo Stato membro cui appartengo si è solennemente impegnato dinanzi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a raggiungere lo 0,7 per cento del PIL entro il 2010. Quest’anno il mio paese ha annunciato che non rispetterà tale obiettivo, non perché manchi il denaro, ma perché il governo lo vuole utilizzare per vincere le prossime elezioni!
E’ chiaro che i governi degli Stati membri dell’Unione europea sono più interessati al commercio che all’eliminazione della povertà. I governi dell’UE sono più interessati a consolidare la propria posizione in seno all’Organizzazione mondiale del commercio che in seno alla Banca mondiale affinché persegua gli obiettivi dell’Unione. Vorrei invitare l’Assemblea a chiedere la creazione di una commissione ad hoc incaricata di elaborare una posizione comune dell’Unione europea sulla Banca mondiale, in modo da indurre il Consiglio e la Commissione ad approvare la posizione del Parlamento in materia.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Signor Presidente, innanzi tutto desidero ringraziare gli onorevoli deputati per questa discussione estremamente interessante, nonché per i messaggi molto utili che hanno rivolto non solo al Consiglio, ma anche alla Commissione. Riprenderò due o tre questioni. Incomincerò dall’influenza dell’Unione nelle istituzioni finanziarie e in particolare nella Banca mondiale. Permettetemi per un attimo di parlare a nome della Presidenza invece che in veste di rappresentante del Consiglio.
E’ vero che, se fossimo azionisti di un’impresa privata, gestiremmo molto male la nostra quota di capitale sociale. Come sapete, però, le cose sono un po’ più complicate e non ci troviamo in questa situazione. Siamo in una situazione diversa, che è di natura politica. Cionondimeno, devo riconoscere che è assolutamente necessario che l’Unione europea coordini meglio le proprie posizioni in seno a queste organizzazioni e in particolare in seno alla Banca mondiale, in quanto, come molti di voi hanno detto, esercitiamo un’influenza ben al di sotto del nostro peso reale, finanziario ma anche politico.
In proposito desidero far presente che nel Trattato potrebbe esserci un articolo che bisognerebbe rileggere ed eventualmente utilizzare per dare seguito alla discussione di stamani. Mi riferisco all’articolo 99 del Trattato, che è ripreso anche nel progetto di Costituzione, ai sensi del quale gli Stati membri, sulla base di una proposta, possono coordinare meglio le proprie posizioni in seno alle istituzioni finanziarie e alle conferenze finanziarie internazionali. Credo dunque che resti aperto il problema della rappresentanza dell’Unione negli organismi internazionali, e in particolare in quelli finanziari. Non c’è bisogno che io ritorni sulle difficoltà correlate a tale questione.
La seconda questione che avete sollevato e che forse è in parte legata alla prima è la riforma delle istituzioni finanziarie internazionali e in particolare della Banca mondiale. Credo che in proposito il ruolo dell’Unione europea sia di capitale importanza. Dobbiamo infatti esortare il nuovo Presidente della Banca mondiale a portare avanti la riforma del funzionamento della Banca mondiale e anche delle sue politiche, e questo era in parte anche lo scopo dell’incontro informale con Paul Wolfowitz. Penso che, anche a tale riguardo, il ruolo europeo sarà tanto maggiore quanto più l’Unione parlerà a una sola voce, il che ci riporta alla questione dell’influenza dell’Unione europea nelle istituzioni internazionali, nel cui ambito sarà indubbiamente necessario tenere in maggiore considerazione i nuovi equilibri di potere mondiali, integrare meglio i nuovi attori internazionali e le nuove potenze economiche, senza dimenticare i paesi in via di sviluppo.
L’ultimo punto riguarda la politica di aiuto allo sviluppo. Il Commissario ha fornito anche alcuni dati al riguardo. L’Unione europea è il maggiore donatore; eroga più del 50 per cento degli aiuti allo sviluppo. Devo dire che abbiamo iniziato a esaminare nuove forme di finanziamento per gli aiuti allo sviluppo. L’ultimo Consiglio ECOFIN ha lavorato su queste modalità di finanziamento. Siete tutti a conoscenza della proposta di istituire determinate imposte proprio al fine di rispettare, se non di aumentare, la percentuale di aiuti allo sviluppo prevista. Posso dirvi che in occasione della riunione informale del 13 e 14 maggio a Lussemburgo, il Consiglio ECOFIN intende ritornare su queste nuove modalità di finanziamento dell’aiuto allo sviluppo, in particolare al fine di garantire il rispetto degli obiettivi del Vertice del Millennio che si svolgerà a settembre.
Joaquín Almunia,Membro della Commissione. – (ES) Signor Presidente, innanzi tutto vorrei dire che condivido tutti gli interventi che hanno parlato della necessità di un più stretto coordinamento tra gli Stati membri dell’Unione europea nelle attività, nel processo decisionale, nell’orientamento delle politiche e nella strategia della Banca mondiale.
Per mezzo degli strumenti a sua disposizione la Commissione cerca di influenzare le politiche della Banca mondiale e di orientarle verso i nostri obiettivi in materia di politica di sviluppo e di aiuti ufficiali allo sviluppo. Nel mio intervento di apertura ho parlato dei protocolli d’intesa e dei fondi fiduciari per mezzo dei quali agiamo, unendo le risorse della Banca mondiale alle risorse finanziarie dell’Unione europea in una serie di attività e regioni del mondo, ogni volta che reputiamo che tali azioni siano in linea con gli obiettivi decisi dall’Unione europea nonché con le sue priorità nel settore degli aiuti allo sviluppo e delle sue politiche di sostegno allo sviluppo nei paesi più poveri del mondo.
In secondo luogo ribadisco quanto ho detto nel discorso iniziale e che è stato anche ripreso da molti di voi, vale a dire la necessità di compiere progressi affinché l’Unione europea si esprima a una sola voce in seno alla Banca mondiale e alle altre istituzioni internazionali.
Alcuni di voi hanno detto che l’entrata in vigore della Costituzione imprimerà l’impulso necessario per conseguire questo obiettivo. In effetti l’entrata in vigore della Costituzione, la personalità giuridica unica dell’Unione europea e lo slancio politico che deriverà dall’applicazione della Costituzione devono aiutarci a compiere progressi in tal senso. Tuttavia, come ha appena messo in rilievo il Presidente in carica del Consiglio, ai sensi del Trattato vigente e delle disposizioni attualmente in vigore, l’Unione dovrebbe già parlare a una sola voce in molte istituzioni, compresa la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, almeno per quanto riguarda la zona euro.
Vi è tuttavia un altro elemento che ci aiuterà. Non so se esso rifletta la volontà di tutti gli Stati membri, ma credo che sia in linea con la volontà comune dell’Unione, del Parlamento, della Commissione e del Consiglio. L’Europa vuole essere un attore globale, come ha detto l’onorevole Karas, ma vi sono alcuni paesi che diventeranno attori globali e che chiedono la riforma dei criteri di rappresentanza dei vari paesi e regioni del mondo in seno agli organi direttivi delle istituzioni finanziarie internazionali e in particolare della Banca mondiale. Di fronte a questa pressione l’Unione europea non può rispondere in modo diviso, deve rispondere in modo unitario, in vista dell’obiettivo di parlare a una sola voce.
Vorrei fare un’osservazione sulla nomina del nuovo Presidente della Banca mondiale. Come sapete, la Commissione europea non partecipa in alcun modo a questa procedura, ma Wolfowitz diventerà Presidente della Banca mondiale il 1° giugno. Vogliamo che, a partire da questa data, la Banca mondiale continui a lavorare sugli aspetti positivi che hanno caratterizzato la Presidenza di James D. Wolfensohn negli ultimi dieci anni. In entrambe le occasioni in cui nelle ultime settimane, in veste di membro della Commissione europea, ho potuto parlare personalmente con Wolfowitz, gli ho detto che dal 1° giugno la Commissione europea e tutta l’Unione vogliono che la Banca mondiale continui sulla via seguita negli anni della Presidenza di Wolfensohn. Devo dire che finora dalle risposte di Wolfowitz emerge l’impegno a continuare a lavorare su questi aspetti positivi. Mi auguro che dopo il 1° giugno avremo effettivamente conferma di tale impegno.
Presidente. – Con questo si conclude la discussione sul presente argomento.
4. Situazione nel Kirghizistan e in Asia centrale
Presidente. – L’ordine del giorno reca le dichiarazioni del Consiglio e della Commissione sulla situazione nel Kirghizistan e in Asia centrale.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio.– (FR) Signor Presidente, onorevoli deputati, sono particolarmente lieto dell’opportunità datami di intervenire a nome del Consiglio su temi importanti inerenti a una regione fondamentale come l’Asia centrale. Per l’Unione europea, questa regione è cruciale da numerosi punti di vista: geopolitico, geostrategico e anche economico.
Malgrado alcuni recenti sviluppi, la situazione in Kirghizistan rimane critica. La nuova dinamica politica è strutturata in base ad alleanze personali e regionali, mentre i partiti politici rivestono un ruolo puramente nominale. Le elezioni presidenziali sono previste per il 10 luglio, con la possibilità di un secondo turno il 24 luglio. I rischi legati alla sicurezza e all’incerta situazione economica potrebbero complicare la campagna presidenziale, che, in effetti, si sta trasformando sempre più in una gara tra i due principali candidati sulla scena politica del paese, Kulov e Akayev.
Per questo motivo, la stabilità del paese dipende in gran parte da un possibile riavvicinamento dei due leader politici, i quali potrebbero trovare un compromesso che preveda l’impegno a rispettare il risultato delle elezioni, cosa che dovrebbe essere normale in una democrazia, a condizione che il candidato perdente possa assumere la carica di Primo Ministro. Tuttavia, i contatti informali tra le due fazioni non hanno, sinora, portato a risultati tangibili. A tale proposito, durante la campagna presidenziale il messaggio della comunità internazionale, di cui fanno parte l’OSCE e l’Unione europea, deve vertere principalmente sull’importanza di garantire elezioni libere e imparziali.
Tuttavia, lo svolgimento di elezioni democratiche non garantirà automaticamente la piena riuscita del processo di democratizzazione. Molte questioni politiche rimarranno all’ordine del giorno, segnatamente la riforma costituzionale, le previste elezioni parlamentari, l’indipendenza dei media e lo sviluppo di un sistema politico basato sullo sviluppo naturale dei partiti politici.
Il tema della riforma costituzionale è già stato affrontato nel dibattito elettorale. Il parlamento ha istituito un consiglio costituzionale che deve stabilire i principi della riforma costituzionale da attuare dopo il risultato elettorale. Malgrado ciò, diversi attori politici assumono posizioni totalmente opposte in materia. La congiuntura economica non registra miglioramenti significativi e l’ordine pubblico rimane precario. La confisca dei terreni attorno a Bishkek aumenta il rischio di disordini. Le questioni etniche sono al centro del dibattito politico. In generale, la situazione delle minoranze etniche desta ancora preoccupazioni.
Tutti i principali attori internazionali, Russia compresa, sono favorevoli al mantenimento della stabilità e della sicurezza interna in Kirghizistan. I nuovi leader del paese sono riusciti a mantenere buone relazioni con tutti i paesi limitrofi, in modo particolare con il Kazakistan e l’Uzbekistan. Presto sarà ultimato il lavoro dell’OSCE per il Kirghizistan, che il governo kirghizo dovrà approvare nei prossimi giorni. La Commissione europea ha di recente annunciato l’intenzione di stanziare 25 milioni di euro a favore del Kirghizistan nel 2005.
Come sapete, la situazione generale in Asia centrale rimane preoccupante. Alcuni fattori creano un’atmosfera di incertezza nei paesi di quella regione. Innanzi tutto, le principali minacce alla stabilità regionale dell’Asia centrale sono legate alla mancanza di riforme economiche, alla persistenza di regimi autoritari e alla diffusa presenza di fenomeni di corruzione, di criminalità organizzata e di traffico di stupefacenti. Ieri abbiamo parlato del problema della droga in Afghanistan: ebbene, questi paesi si trovano proprio sulla rotta del narcotraffico.
I diritti politici delle popolazioni sono intaccati nella maggioranza di questi paesi. La cooperazione regionale non ha raggiunto un livello adeguato per la mancanza di fiducia e di volontà politica negli Stati della regione. La povertà e la mancata crescita dei paesi dell’Asia centrale hanno inasprito le tensioni socioeconomiche. La prossimità geopolitica dell’Afghanistan e alcuni fattori interni hanno permesso la diffusione dell’estremismo islamico e, come ho appena affermato, hanno incrementato il narcotraffico. Potenziali conflitti vicino agli Stati della regione, e tra loro stessi, potrebbero essere scatenati dalla mescolanza delle minoranze etniche sul territorio di quei paesi.
Occorre affrontare diverse questioni specifiche legate alla situazione in alcuni paesi della regione, e le passerò rapidamente in rassegna. In Kazakistan, le elezioni parlamentari svoltesi nel settembre 2004 non hanno rispettato i criteri internazionali normalmente riconosciuti. L’opposizione, nonostante il crescente appoggio della popolazione, ha ottenuto soltanto un seggio. L’attuale Presidente è propenso a indire le elezioni presidenziali prima della fine del proprio mandato nel gennaio 2006. L’ingerenza del governo nel processo legislativo, nell’opposizione, nei media, nella società civile e nei sistemi finanziari è preoccupante. La situazione dei diritti umani è in continuo degrado.
In Uzbekistan, l’opposizione ufficiale non ha potuto partecipare alle elezioni parlamentari del 26 dicembre 2004. Il programma di riforma del paese non ha fatto alcun passo avanti e la povertà dilaga. C’è il rischio concreto che il fondamentalismo islamico aumenti sempre più in seno alla popolazione.
In Turkmenistan, la mancanza di libertà di espressione e di dibattito democratico, l’impossibilità di mantenere un’opposizione efficace al governo e l’inesistenza di programmi di riforma strutturale rappresentano i principali motivi di preoccupazione.
Infine, la situazione in Tagikistan è caratterizzata da due problemi principali: le dispute endemiche tra province e una crisi economica prolungata.
Nonostante i problemi e le difficoltà della regione che ho appena elencato, l’Unione europea ritiene che i rapporti con essa siano di vitale importanza ed è pronta a sostenere la transizione di questi paesi a economie di mercato efficaci e a democrazie funzionanti.
Il Direttore generale aggiunto per le relazioni esterne della Commissione europea si è recato di recente in visita in quattro repubbliche dell’Asia centrale. Il 12 maggio, ad Ashgabat, si riunirà il comitato congiunto UE-Turkmenistan. A lato si svolgerà una riunione ad hoc al fine di promuovere il dialogo sulla questione dei diritti umani. Alla fine del mese, una troika dell’Unione europea incontrerà i rappresentanti dei cinque paesi della regione a Tashkent. A Bruxelles si terranno, rispettivamente, il consiglio di cooperazione UE-Kirghizistan in giugno e i consigli di cooperazione UE-Kazakistan e UE-Kirghizistan in luglio.
PRESIDENZA DELL’ON. OUZKÝ Vicepresidente
Albert Jan Maat (PPE-DE).– (NL) Signor Presidente, prima che il Commissario prenda la parola penso si debba fare maggiore chiarezza, perché ho sentito due date per le elezioni presidenziali in Kirghizistan, vale a dire il 10 e il 18 giugno. In base alle mie informazioni, non sono le date aggiornate. A quanto mi risulta, le elezioni presidenziali si terranno il 10 luglio. Prima di dare il via al dibattito parlamentare, credo sarebbe utile che il Consiglio o la Commissione…
(Il Presidente interrompe l’oratore)
Presidente.– (EN) Onorevole Maat, questa non è una mozione d’ordine.
Joaquín Almunia, Membro della Commissione. – (ES) Signor Presidente, è per me un onore essere presente a questa seduta plenaria per discutere con voi della situazione in una regione di grande importanza strategica, l’Asia centrale, e in particolare della situazione nella Repubblica del Kirghizistan.
Dopo l’estromissione del Presidente Akayev, a seguito delle proteste di massa del 24 marzo provocate dalla violazione dei criteri internazionali e dell’OSCE durante le elezioni parlamentari di febbraio e marzo, l’Alto rappresentante dell’UE per la politica estera e di sicurezza comune Solana, e il Commissario per le relazioni esterne Benita Ferrero-Waldner, che sfortunatamente non può partecipare a questo dibattito, hanno esortato la Repubblica del Kirghizistan a cercare la via della riconciliazione nazionale basata sulla costruzione di un dialogo e di un consenso che consentano di sviluppare il processo di riforma politica.
La Repubblica del Kirghizistan ha un’opportunità unica di stabilire un’autentica democrazia pluripartitica nell’Asia centrale e di eliminare la corruzione che tanto ha contribuito alla recente crisi. Questa opportunità è nelle mani dei leader politici del paese, chiamati a dimostrare un forte impegno nel favorire un concreto sviluppo delle riforme politiche. Il miglior modo per farlo è attuare misure che garantiscano la creazione di una democrazia multipartitica, il rispetto dei diritti umani e l’esistenza dello Stato di diritto, in conformità degli impegni internazionali assunti dal Kirghizistan.
Vorrei sottolineare che la liberalizzazione politica e la preparazione e lo svolgimento di elezioni libere, eque e trasparenti devono caratterizzare il prossimo voto presidenziale, che, in base alle nostre informazioni, si terrà il 10 luglio. Queste elezioni saranno attentamente monitorate dall’Unione e dall’intera comunità internazionale. Le credenziali democratiche della Repubblica del Kirghizistan miglioreranno se il governo ad interim applicherà le raccomandazioni contenute nella relazione finale della missione dell’Ufficio delle istituzioni democratiche e dei diritti dell’uomo dell’OSCE, pubblicata nel mese di marzo di quest’anno.
Nel quadro dell’OSCE l’Unione sta preparando, attraverso il proprio meccanismo di reazione rapida, una serie di misure di assistenza per le elezioni e le riforme legislative in ambito elettorale.
L’Unione sta esortando il Kirghizistan a creare un clima in cui i giornalisti e i mezzi di comunicazione del paese possano esercitare pienamente i propri diritti e le proprie libertà, in conformità degli impegni internazionali. Credo che, in questo senso, l’OSCE sia in grado di fornire assistenza alle autorità.
E’ importante lottare in maniera più efficace contro la corruzione in tutti i paesi dell’Asia centrale, dal momento che questo fenomeno è stato individuato come una delle principali cause degli avvenimenti in Kirghizistan.
Ora desidero parlarvi della cooperazione tra l’Unione e tutti i paesi dell’Asia centrale. Alla fine dello scorso anno, l’Unione ha lanciato un’iniziativa tesa a migliorare il dialogo politico con la regione. A tal fine, la troika dei direttori regionali dell’Unione si è incontrata, lo scorso dicembre a Bishkek, con le controparti dell’Asia centrale.
Questo dialogo politico tra Unione europea e Asia centrale può indubbiamente aiutare a cambiare i rapporti futuri tra le due regioni, a condizione che si sviluppi in maniera costruttiva. La Commissione considera positivo l’interesse dimostrato nei confronti di questo processo dai cinque paesi dell’Asia centrale.
Il successo del dialogo dipende dal grado di coinvolgimento di entrambe le parti. In questo senso, l’Unione sarà sempre a favore della liberalizzazione economica e, naturalmente, della democratizzazione politica nell’Asia centrale. Il dialogo potrebbe concentrarsi su preoccupazioni comuni alle due regioni: la lotta al terrorismo, il traffico di sostanze stupefacenti e di esseri umani, il riciclaggio di denaro sporco, l’immigrazione clandestina, l’energia, i trasporti e la crescente cooperazione economica.
Il dialogo politico tra Unione europea e Asia centrale faciliterebbe l’integrazione regionale nella zona e darebbe un orientamento politico alla cooperazione tra le due regioni.
L’Unione sta studiando come muoversi. La riunione tra la troika dell’Unione e i ministri degli Esteri dell’Asia centrale, che si svolgerà a Tashkent alla fine di giugno, sarà una buona occasione per continuare a discutere il processo di dialogo.
L’Unione sta esortando i cinque paesi dell’Asia centrale a perseverare nel processo di liberalizzazione politica. L’unico modo in cui un paese può svilupparsi a vantaggio dei propri cittadini, onde garantire stabilità e sicurezza e promuovere considerevolmente l’integrazione regionale, è fare in modo che lo sviluppo economico vada di pari passo con la liberalizzazione politica, lo Stato di diritto e lo sviluppo di una società civile attiva, uno dei cui elementi essenziali è la libertà di stampa. Sono convinto che questo sia il modo migliore per consolidare il legame tra Asia Centrale e Unione europea.
La Commissione si aspetta un miglioramento della cooperazione tra l’Unione europea e i paesi della regione del mar Caspio, come convenuto alla Conferenza ministeriale sull’energia e i trasporti svoltasi a Baku nel novembre dello scorso anno. Dal punto di vista politico, l’energia è diventata una questione di sicurezza. E’ nell’interesse di entrambe le regioni collaborare per garantire un’integrazione più profonda ed efficace dei nostri sistemi e mercati nel settore dell’energia.
L’intensificazione della cooperazione tra l’Unione e l’Asia centrale dipende da aspetti politici ed economici e, in questo contesto, l’Unione ribadisce la sua volontà di continuare a prestare assistenza a quell’importante regione.
Elmar Brok,a nome del gruppo PPE-DE. – (DE) Signor Presidente, signor Presidente in carica del Consiglio, signor Commissario, spesso questa regione viene trascurata perché in passato viveva all’ombra dell’Unione Sovietica, è non si è quindi sviluppata in maniera indipendente. Oggi, tuttavia, è di enorme importanza strategica grazie alle riserve di gas e di petrolio, alla rilevanza che assume per l’approvvigionamento energetico e così via. Questa importanza strategica, inoltre, deriva dal crescente interesse della Cina per la regione, dalla diffusione del fondamentalismo islamico e dal coinvolgimento di alcuni di questi paesi nel traffico di stupefacenti.
Dobbiamo affrontare il fatto che il venir meno della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani rende sempre più difficile cooperare con la regione, onorare gli accordi di partenariato e cooperazione esistenti e concludere o ratificare nuovi accordi. Dobbiamo anche renderci conto che simili regimi si stanno trasformando in isole di instabilità, e non di stabilità, come abbiamo potuto vedere dalle elezioni in Kirghizistan e dai precedenti avvenimenti in Ucraina.
Più sarà instabile la situazione in una regione di così grande importanza geografica, maggiore sarà l’impatto sui nostri interessi. Per tale motivo invito l’Assemblea a pensare molto più a una strategia comune piuttosto che a concentrarsi sulle singole questioni, e sottolineo la rilevanza di offrire un sostegno autentico al processo democratico di questi paesi.
Le mie prossime osservazioni sono rivolte al Consiglio e alla Commissione. A mio parere, è nell’interesse di tutti noi raggiungere un accordo con gli Stati Uniti, che non considerano più il paese come un mero campo base a breve termine per l’Afghanistan, e con la Russia, il cui atteggiamento verso simili sviluppi è spesso influenzato da antiche credenze. E’ nell’interesse di tutti e tre i partner portare stabilità alla regione, ma saremo in grado di farlo solo lavorando insieme per affermare la democrazia e lo Stato di diritto. Questa dovrebbe essere la nuova priorità.
Jan Marinus Wiersma,a nome del gruppo PSE. – (NL) Signor Presidente, penso che tutti concorderemo senza esitazioni nel ritenere che, alla luce degli avvenimenti in Kirghizistan, siamo costretti ad affrontare la situazione tenendo conto dell’intera regione, e a tenere un dibattito sulle misure da adottare in Asia centrale, sugli interessi dell’UE e su ciò che possiamo fare per migliorare la situazione e stabilizzare la regione. Gli sviluppi in Kirghizistan sono, di per sé, memorabili: c’è una straordinaria somiglianza con quanto abbiamo visto in Ucraina. Allo stesso tempo dobbiamo ricordarci che quanto è successo in Kirghizistan non è stato, ovviamente, una rivoluzione arancione, e dobbiamo aspettare per vedere quali saranno gli sviluppi nel paese, soprattutto dopo il previsto svolgimento di elezioni libere ed eque. Parlando di elezioni, l’Unione europea e l’OSCE devono svolgere un ruolo centrale nel monitoraggio delle stesse, dando quindi al popolo kirghizo la certezza di avere avuto elezioni democratiche e garantendo la presenza di un governo legittimo e capace di contribuire allo sviluppo nazionale.
Se così sarà, l’Unione europea dovrà anche pensare al modo in cui aiutare il Kirghizistan nelle nuove condizioni, perché ciò avrà un effetto positivo sugli altri paesi della regione. Senza fare una lunga analisi della situazione in cui versano l’Uzbekistan e gli altri paesi dell’Asia centrale, desidero ricordare che i paesi confinanti con il Kirghizistan sono caratterizzati da grandi problemi che dovrebbero preoccupare l’Unione europea. E’ proprio questo l’interrogativo che poniamo alla Commissione: abbiamo una strategia per la Russia e abbiamo la nuova politica di vicinato per molti paesi, ma cosa ne è dell’Asia centrale? Quali iniziative, in parte finalizzate a sostenere gli sviluppi in Kirghizistan, possiamo aspettarci nei prossimi anni? A nostro avviso, non si tratta solamente di difendere l’approvvigionamento energetico, ma anche di consolidare i legami con quei paesi e, in una certa misura, di europeizzare l’Asia centrale, vale a dire diffondere e ancorare quei valori che l’Unione europea, il Consiglio d’Europa e l’OSCE condividono. Speriamo che la Commissione e il Consiglio presentino ulteriori iniziative in questo senso.
Ona Juknevičienė,a nome del gruppo ALDE. – (LT) Sono a capo della delegazione per le repubbliche dell’Asia centrale e la Mongolia, e a breve ci recheremo in quella regione, l’Asia centrale, più precisamente in Kirghizistan. La maggioranza dei deputati al Parlamento crede alla notizia, diffusa in tutto il mondo, di una rivoluzione dei tulipani in Kirghizia. Vorrei esprimere la mia opinione al riguardo, forse da una prospettiva leggermente diversa. Credo che in quel paese ci sia stato effettivamente un movimento, un movimento di persone; chiamarlo una rivoluzione, alla pari di quanto è successo in Ucraina e in Georgia, sarebbe a mio avviso avventato, e inviterei l’Assemblea a stare più attenta quando usa simili termini. Perché lo dico? Perché il ruolo delle persone non è abbastanza chiaro. Cosa vuole la nazione e cosa vogliono i suoi leader? Qui sta la differenza.
Ad ogni modo, tale regione riveste particolare importanza per il Parlamento europeo e per l’Unione europea per un duplice motivo. Innanzi tutto alcuni paesi dell’Asia centrale, soprattutto il Kazakistan, sono tra i maggiori partner commerciali dell’Unione europea nel settore delle risorse energetiche. Come sapete, anche i paesi vicini alla regione, come la Cina, sono molto interessati ad attirarla dalla propria parte. Dobbiamo quindi impegnarci a fondo nelle nostre attività di cooperazione, finalizzandole ad aiutare i paesi dell’Asia centrale a istituire la democrazia. Dobbiamo imparare dagli Stati Uniti d’America come essere attivamente presenti nella regione, ed è un peccato constatare e dover ammettere che l’Unione europea non è, in realtà, molto attiva ed efficace nei propri programmi. Malgrado la Commissione affermi che siamo tra i principali sostenitori finanziari della regione, vale a dire che concediamo ingenti finanziamenti, dal punto di vista dell’efficacia i fondi non vengono usati in maniera appropriata. Qual è il nostro obiettivo? Che obiettivo deve perseguire l’Unione europea in Asia centrale, in tutti i suoi paesi e, soprattutto oggi, in Kirghizistan? Garantire la democrazia, l’ordine e la stabilità, nonché una stretta collaborazione tra tutti i paesi della regione. Come ho detto prima, la visita della delegazione avrà luogo dal 14 al 20 maggio, dopo la quale saremo in grado di informare i deputati sulla situazione che regna effettivamente in Kirghizistan e nella regione. Desidero inoltre aggiungere che, il 2 giugno, si terrà un incontro con i rappresentanti degli Stati Uniti sul coordinamento delle attività svolte in zona: invito tutti i deputati a parteciparvi.
Cem Özdemir,a nome del gruppo Verts/ALE. – (DE) Signor Presidente, signor Presidente in carica del Consiglio, signor Commissario, avendo solo un minuto per parlare, mi concentrerò unicamente su un aspetto della questione. Appoggio i commenti fatti dai precedenti oratori, poiché anch’io credo che il nostro primo obiettivo debba essere il riconoscimento del ruolo chiave che l’OSCE svolge in Asia centrale. Ciò è vero soprattutto nella prevenzione dei conflitti, ma lo è anche nel caso della gestione delle crisi e dell’applicazione dello Stato di diritto, dei diritti umani e delle norme democratiche. Non dobbiamo dimenticare che l’OSCE si adopera attivamente anche in altri settori, ad esempio il sostegno alla società civile o le misure di tutela delle minoranze.
Accogliamo con molto favore le attività dell’OSCE nella regione, in modo particolare il monitoraggio elettorale e i preparativi delle prossime elezioni, che si terranno in Kirghizistan nel giugno 2005. L’obiettivo di tali attività è garantire lo svolgimento delle elezioni in conformità delle norme europee e internazionali. In tal senso anche la formazione delle forze di polizia, soprattutto in Kirghizistan, svolge un ruolo essenziale.
Per concludere vorrei chiedere al Consiglio, e anche alla Commissione, di garantire la stretta collaborazione dell’UE con l’OSCE. In particolare, dovremmo mettere a frutto l’esperienza acquisita nel settore dall’onorevole Peterle nella sua qualità di inviato speciale dell’OSCE per la regione.
Jiří Maštálka,a nome del gruppo GUE/NGL. – (CS) Onorevoli colleghi, desidero ringraziare il Commissario per i commenti introduttivi. Aggiungo, inoltre, che sono molto lieto dei cambiamenti politici in Kirghizistan, poiché ci daranno anche l’opportunità di chiarire i nostri obiettivi di politica estera.
A prima vista sembra tutto molto semplice. Le elezioni in Kirghizistan sono state truccate, successivamente il Presidente è stato estromesso dopo le proteste di massa, e Bishkek sarà la prossima città a essere colpita dall’effetto domino che ha già visto il rovesciamento dei governi di Tbilisi e di Kiev. Mosca ha appoggiato un presidente antidemocratico ed è stata sconfitta.
Eppure, allo stesso tempo, è sempre più chiaro che la rivoluzione in Kirghizistan ha assunto una forte connotazione sociale, essendo stata una rivolta vera e propria contro il dominio di un’oligarchia venutasi a creare durante la privatizzazione. In realtà, si è trattato di un fenomeno comune a tutti i paesi postsocialisti, dove esistono gruppi che detenevano o detengono il potere politico grazie a precedenti contatti o a legami etnici, partitici o politici con chi è ora al potere. I membri di questi gruppi hanno accumulato incredibili fortune grazie alla privatizzazione, che non solo ha causato grandi spaccature nella società, ma ha anche fornito loro gli strumenti necessari e il desiderio di entrare in politica.
Esistono, tuttavia, ulteriori aspetti della rivolta in Kirghizistan che la contraddistinguono da altre di simile natura. La sommossa è avvenuta nel paese con il regime più liberale dell’Asia centrale. Qualsiasi oligarchia ne trarrebbe la conclusione che più sono le restrizioni imposte alla libertà di una società, più ha possibilità di rimanere al potere. Inoltre, la situazione in Kirghizistan è diversa da quella in Ucraina, ad esempio, perché la russofobia non ha avuto alcun ruolo nella rivolta kirghiza.
A tale proposito, vorrei ribadire il mio invito a fare il possibile affinché la politica comunitaria sia coerente con il ruolo dell’Unione europea in quanto Istituzione che sostiene gli ideali dello Stato di diritto e della giustizia sociale. Occorre quindi appoggiare le forze che vogliono consolidare l’ordine costituzionale e la giustizia sociale, in Kirghizistan e altrove.
Johannes Blokland,a nome del gruppo IND/DEM. – (NL) Signor Presidente, in un momento come quello attuale, nel periodo di celebrazione della liberazione dell’Europa dalla Germania nazista da parte delle forze alleate, molti europei avranno sentimenti contrastanti. Del resto, la liberazione dal giogo tedesco ha aperto la strada a decenni di oppressione dell’Unione Sovietica, cui è stata soggetta anche l’Asia centrale. Lo scorso mese, il Kirghizistan si è disfatto di un leader autoritario dopo lo svolgimento di elezioni scorrette. Tanto i governanti quanto i cittadini del paese temono che gli estremisti musulmani approfittino della situazione politicamente instabile. Le organizzazioni terroriste islamiche, tra cui Hizb ut-Tahrir, che mirano alla dominazione islamica su scala mondiale costituiscono una particolare minaccia per l’intera regione dell’Asia centrale. E’ quindi un fatto positivo che la regione, nella lotta al terrorismo internazionale, combatta il fenomeno del radicalismo islamico.
Purtroppo i regimi autoritari della regione non affrontano la questione in maniera adeguata e ciò comporta, tra l’altro, l’insorgenza di molti problemi legati alla libertà religiosa. E’ giusto che i governi dell’Asia centrale cerchino di controllare lo sviluppo di fenomeni di radicalizzazione all’interno dell’islam, ma imporre alle chiese cristiane di registrarsi presso il governo è, a mio avviso, eccessivo. Da loro non si dovrebbe temere alcun attacco.
Periodicamente riceviamo resoconti da cui risulta che le comunità cristiane, registrate o meno, si trovano di fronte a gravi problemi, persecuzione compresa. Permettetemi di fare solo un esempio. In Kazakistan Valery Pak, della comunità battista di Kyzyl-Orda (non registrata), è stato minacciato e perseguitato per anni. Tutto questo deve finire, perché tutti i paesi dell’Asia centrale prevedono, nella propria costituzione, la libertà religiosa. Esorto il Consiglio e la Commissione a sostenere quei paesi nella lotta contro il fondamentalismo islamico, invitandoli a render conto dei problemi legati alla libertà religiosa, delle condizioni imposte sulla registrazione delle chiese, e in particolare della situazione delle comunità battiste non registrate, così come dei torti commessi a danno di Valery Pak e di altri.
Anna Elżbieta Fotyga,a nome del gruppo UEN. – (PL) Vorrei esordire congratulandomi con la Presidenza per l’eccellente lavoro svolto nella stesura di un’analisi circostanziata della situazione in Asia centrale, e in particolare in Kirghizistan. Se me lo permettete, vorrei aggiungere alcune osservazioni sulla situazione in quel paese.
Pur essendo passato oltre un mese e mezzo dalla rivolta in Kirghizistan, la situazione è ancora ben lungi dall’essere stabile, e ciò è motivo di grave preoccupazione nei paesi vicini. Abbiamo avuto una serie di segnali incoraggianti che indicano un ritorno alla normalità, e credo che uno di questi sia il fatto che non sia stata costituita una diarchia a livello parlamentare o a livello di capo di Stato. Con ciò mi riferisco, fondamentalmente, alle dimissioni del Presidente Akayev in aprile. Malgrado tutto, si sono verificati alcuni eventi che potrebbero generare profonda inquietudine, tra cui alcuni episodi legati a una misteriosa morte per motivi politici, che hanno aperto molti interrogativi sulla vera natura dei cambiamenti avvenuti. A mio avviso, le modalità con cui si svolgeranno le prossime elezioni presidenziali saranno una prova del nove per tali cambiamenti. A questo punto vorrei sottolineare il ruolo chiave che l’OSCE ha svolto, svolge e, sicuramente, continuerà a svolgere in Kirghizistan. Il monitoraggio della situazione preelettorale e delle elezioni stesse deve concentrarsi, in particolare, su quegli aspetti del processo elettorale che hanno direttamente provocato le proteste in Kirghizistan e portato alla rivolta, come l’esclusione dei candidati e l’acquisto dei voti. Un altro parametro fondamentale sarà l’atteggiamento delle autorità kirghize verso l’indizione di elezioni parlamentari anticipate.
Vorrei, se posso, fare un ultimo commento in base alla mia esperienza di vita pubblica in Polonia. Quando una società inizia a combattere per i propri diritti inalienabili, la lotta diventa un processo irreversibile e inevitabile, a prescindere da quanto duri. Il sostegno ai cambiamenti concesso dall’Unione europea deve, di conseguenza, tenere conto di questo fatto e concentrarsi sulla società civile. Sono a favore degli aiuti finanziari forniti dall’Unione; essi, però, devono essere condizionati al rispetto dei criteri legati ai diritti umani e allo Stato di diritto.
Ryszard Czarnecki (NI). – (PL) Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho ancora vivamente impressa nella memoria la visita che ho compiuto in Kirghizistan alcuni anni fa. E’ un paese di grandi bellezze naturali che vanta una notevole abbondanza d’acqua, una risorsa naturale preziosa in quella parte del globo. Di recente il Kirghizistan è tornato alla ribalta della cronaca quando il suo leader di lunga data, il Presidente Akayev, è stato destituito. Alcune persone, compresi alcuni presenti in Aula, hanno interpretato questo fatto piuttosto ingenuamente giudicandolo simile a quelli accaduti in precedenza in Georgia e Ucraina. La verità è molto diversa. I nuovi governi georgiano e ucraino stanno facendo tutto il possibile per attuare politiche che garantiscano l’indipendenza da Mosca. In Kirghizistan, invece, il nuovo assetto politico è tanto filorusso quanto lo era il precedente, se non di più. La situazione del paese è ben lungi dall’essere stabile, come evidenziato dal recente tentativo di omicidio perpetrato ai danni di Erkinbayev, candidato alla presidenza. Gli avvenimenti attuali in Kirghizistan non si prestano a un’interpretazione secondo schemi precostituiti, anche se alcuni osservatori occidentali vorrebbero fosse così.
E’ fondamentale che l’UE svolga un ruolo più attivo in quella parte del mondo, senza lasciare i popoli della regione alla mercé dei russi e degli americani. Detto questo, ovviamente occorre collaborare con gli uni e gli altri in materia.
Albert Jan Maat (PPE-DE). – (NL) Signor Presidente, sono lieto che la Commissione abbia chiarito l’equivoco riguardo alla comunicazione del Consiglio sulla data elettorale, che è il 10 luglio. Onore alla Commissione, quindi, che era meglio informata. Vorrei ribadire le parole del presidente della delegazione per l’Asia centrale, che ha già detto che dobbiamo stare attenti a non paragonare la situazione in Kirghizistan a quella in Ucraina. Staremo a vedere se si tratta della stessa rivoluzione o se alcuni leader hanno dato il via a un processo differente. La situazione in Kirghizistan è molto diversa: la democrazia del paese si divide tra confini etnici e regionali senza, di per sé, complicare le cose, né cambiare il fatto che all’Unione europea converrebbe investire in Asia centrale. Al momento vi sono pochissimi investimenti e la cosa sorprendente è che sino a poco tempo fa i due paesi più poveri, la Mongolia – un paese che merita fiducia per l’assenza di problemi legati alla democrazia e ai diritti umani – e il Kirghizistan, registravano i migliori risultati.
Ora che nel paese è in corso una rivoluzione, dovremmo approfittarne. Sono lieto dei 25 milioni accordati dalla Commissione, i quali, tuttavia, sembrano veramente un’inezia. A breve termine, l’Unione europea dovrebbe fare quanto segue. Invito il Consiglio e la Commissione, insieme con il Parlamento, a investire nelle elezioni inviando una solida delegazione di osservatori elettorali il 10 luglio e aiutando l’OSCE a garantire il buono svolgimento delle elezioni. In effetti, se il voto andrà bene infonderà fiducia nella popolazione, anche per future elezioni parlamentari. E’ importante inoltre che l’Unione europea investa maggiormente nell’istruzione e nella cooperazione economica, perché è pazzesco che la parte del leone negli investimenti stranieri destinati al settore dell’istruzione sia fatta dai gruppi fondamentalisti islamici. Questa situazione deve finire. Per l’Europa è una sfida investire di più in Kirghizistan, soprattutto nei settori dell’istruzione e della cooperazione economica. A tal fine, il paese richiede anche solidi accordi di libero scambio.
Vorrei aggiungere un’altra nota critica sulla regione. Desidero sapere dalla Commissione cosa intenda fare riguardo alla crescente repressione in Kazakistan, che ha visto anche la recente chiusura del maggiore quotidiano dell’opposizione, Republika, e l’imprigionamento della sua giornalista Irina Petrusheva in Russia, su richiesta delle autorità kazake.
Bernadette Bourzai (PSE). – (FR) Signor Presidente, onorevoli colleghi, nei precedenti interventi sono state dette molte cose su cui non intendo tornare. Nel complesso, approvo i contenuti della proposta di risoluzione comune che è stata presentata.
Desidero, tuttavia, sottolineare l’importanza di tre punti. Innanzi tutto, le difficoltà economiche e sociali sono una delle principali cause degli avvenimenti in Kirghizistan. Questo perché la situazione di grande povertà e considerevole incertezza ha rappresentato un terreno fertile, favorevole allo sviluppo di manifestazioni e al rovesciamento del governo di Akayev, che, dal 1991, si era arricchito alle spalle dell’economia kirghiza. L’esistenza di pratiche inaccettabili, tra cui corruzione e nepotismo, ha rafforzato il malcontento silenzioso ma legittimo della popolazione, che desidera migliorare la propria situazione: dobbiamo essere attenti a questo genere di aspirazioni. Di conseguenza, se vogliamo sostenere il processo di transizione democratica in corso, occorre prestare particolare attenzione all’autenticità e alla trasparenza delle elezioni, nonché allo sviluppo di una politica di dialogo e riconciliazione nazionale. Solo un governo legittimo e stabile potrà portare a termine le riforme necessarie per migliorare la situazione dei cittadini kirghizi.
Inoltre, le questioni legate ai diritti umani e alle libertà fondamentali costituiscono un altro aspetto cruciale della situazione. L’Unione europea deve accertarsi che il processo di democratizzazione si basi su un autentico pluralismo politico che permetta anche ai media e alle ONG di operare in maniera libera e indipendente. I progetti di cooperazione lanciati dall’OSCE e nel quadro del programma TACIS devono essere sostenuti e incoraggiati.
Infine, mi sembra necessario allargare la riflessione sugli avvenimenti in Kirghizistan a una prospettiva regionale più ampia, che prenda in considerazione tutta l’Asia centrale. La democratizzazione di quel paese potrebbe così rappresentare un simbolo di speranza, un esempio da seguire per gli altri paesi dell’Asia centrale, vittima di violazioni dei diritti umani. Il recente inasprimento della legislazione nei confronti delle ONG e dei gruppi d’opposizione impone all’Unione europea un atteggiamento particolarmente vigile e attento di fronte all’evoluzione della situazione politica nella regione.
Charles Tannock (PPE-DE). – (EN) Signor Presidente, il Kirghizistan è una piccola repubblica musulmana dell’Asia centrale di incredibile bellezza naturale e di orgogliose tradizioni nomadi. Il paese è stato annesso dalla Russia nel 1864 ma ha raggiunto l’indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991. Di recente è apparso sui giornali in seguito alle elezioni parlamentari del 27 febbraio, quando le irregolarità elettorali hanno suscitato molte proteste iniziate nel sud del paese. Il Presidente è stato costretto a fuggire, dopo essere stato accusato di corruzione e di avere manovrato le elezioni.
Ieri, in occasione di una visita di Stato in Georgia, il Presidente Bush ha invocato la libertà e la democrazia in tutto il mondo comunista. Il Kirghizistan è un paese povero e montuoso, prevalentemente a economia agricola, ma ha attuato importanti riforme di mercato sotto la guida dell’ex Presidente Akayev. Egli si è distinto per l’adozione di politiche economiche relativamente liberali e ha introdotto un migliore sistema normativo e una riforma fondiaria. Il Kirghizistan è stato il primo paese della Comunità degli Stati indipendenti a essere accolto nell’Organizzazione mondiale del commercio. Gran parte delle aziende di Stato sono state svendute anche se, sfortunatamente, sono dilagati fenomeni di nepotismo e di corruzione.
Si auspica che la rivoluzione – se è una rivoluzione – indichi al paese la giusta via alla democrazia, al rispetto dei diritti umani e al buon governo. Esso potrebbe rappresentare un modello per gli Stati circostanti quali l’Uzbekistan, il Kazakistan e il Tagikistan, che mantengono sistemi autoritari e attraversano una transizione solo parziale. Tuttavia, le contese di confine tra il Kirghizistan e i paesi vicini stanno ritardando il processo di delimitazione delle frontiere, in particolare con il Tagikistan ma anche con l’Uzbekistan.
Un altro problema è quello della coltivazione illecita di canapa indiana e di papaveri da oppio destinati ai mercati della CSI, mentre il governo fa poco o nulla per eliminare le colture illegali di sostanze stupefacenti. Il Kirghizistan funge altresì da punto di transito per i mercati del sud-ovest asiatico e per gli stupefacenti destinati alla Russia e al resto dell’Europa.
Le elezioni presidenziali sono previste per il mese di luglio: ne ho avuto la conferma da Internet. Il Parlamento europeo deve sicuramente inviare osservatori per controllare la transizione del paese alla democrazia.
(Applausi)
Genowefa Grabowska (PSE). – (PL) Signor Presidente, onorevoli colleghi, è del tutto evidente che il Parlamento europeo è molto lieto di collaborare con il Kirghizistan, ma anche con gli altri paesi dell’Asia centrale, come dimostra l’accordo di partenariato e cooperazione concluso nel 1995. Tra i temi che rivestono interesse per il Parlamento europeo figurano i diritti umani, la democratizzazione della vita dei cittadini, l’energia e la tutela dell’ambiente, che meritano particolare attenzione.
Moltissime speranze sono state riposte nella costituzione kirghiza al momento della sua adozione, nel 1993. Benché da allora sia stata emendata quattro volte, sembrerebbe ancora essere una premessa potenzialmente valida per stimolare ulteriori cambiamenti democratici all’interno del paese. Eppure, malgrado la costituzione sancisca che il sistema giudiziario è ufficialmente indipendente e responsabile del rispetto dei diritti umani nel paese, gli osservatori hanno chiaramente affermato che le riforme intraprese sono insufficienti, che la corruzione è ancora endemica e che i giudici non sono pagati a sufficienza. Secondo loro, la nomina da parte del Presidente dei membri della Corte costituzionale, dei giudici della Corte suprema e degli arbitri del Tribunale arbitrale viola i principi democratici. Essi hanno lanciato un monito, dicendo che i diritti umani non devono essere limitati col pretesto di combattere il terrorismo.
L’Unione europea può e deve concedere l’abituale assistenza finanziaria per invertire questa tendenza negativa. Inoltre, può e deve dare il consueto sostegno morale essendo presente laddove necessario, e laddove occorre appoggiare la democrazia e ripristinare lo Stato di diritto.
Andreas Mölzer (NI). – (DE) Signor Presidente, il nuovo millennio sembra essere iniziato con un’ondata di cambiamenti, soprattutto negli Stati subentrati all’ex Unione Sovietica. I fattori esterni, quali la lotta per il potere e il controllo degli oleodotti, non sono stati la causa principale delle “rivoluzioni colorate” dell’Asia centrale, anche se, indubbiamente, Stati Uniti e Russia hanno cercato di esercitare la propria influenza. Al contrario, è molto più probabile che quelle rivoluzioni siano il risultato della graduale modernizzazione delle ex repubbliche sovietiche. I popoli dell’Asia centrale sono stufi delle vecchie e rigide strutture, e vogliono cambiamenti rapidi senza spargimenti di sangue. Ovviamente, l’opinione pubblica spera anche che tali cambiamenti portino alla prosperità e allo sviluppo economico.
In linea di principio, simili riforme possono determinare trasformazioni positive. Tuttavia, sembrerebbe che in Kirghizistan si sia manifestato un parziale vuoto di potere, e ciò comporta il pericolo di un cambiamento di stati d’animo che potrebbe far sprofondare il paese nel caos e nella guerra civile. E’ nell’interesse dell’Unione europea porgere la mano e offrire aiuto per stabilizzare la situazione politica, anche se un’eccessiva interferenza da parte nostra potrebbe avere l’effetto contrario, sconvolgendo gli equilibri che, gradualmente, si sono creati nel paese. Del resto, il Kirghizistan vuole provare di essere in grado di continuare le misure di ricostruzione con i propri mezzi. Anche il fatto che un’analoga ondata rivoluzionaria possa oltrepassare i confini in qualsiasi momento dovrebbe darci motivo di pensare, perché non sarebbe una sorpresa se questa stessa tendenza continuasse in altri paesi che versano in condizioni simili, come il Kazakistan, il Tagikistan e il Turkmenistan. L’Unione dovrebbe iniziare subito a prepararsi a tale eventualità. Concordo, infine, con l’osservazione fatta da uno dei precedenti oratori secondo cui, in quella regione, non bisogna lasciare libero spazio alla Russia e agli Stati Uniti.
Alojz Peterle (PPE-DE). – (SL) Dopo gli sconvolgimenti politici in Kirghizistan, non del tutto paragonabili agli sviluppi in Ucraina e in Georgia, le principali cause di instabilità economica, sociale e in altri settori sono ancora presenti. Ovviamente il nuovo governo non può risolvere i problemi accumulatisi prima delle elezioni presidenziali del 10 luglio, né sarà in grado di farlo per molti mesi successivamente a quella data.
Io stesso ho vissuto la rivoluzione come inviato speciale del Presidente in carica dell’OSCE, che, secondo me, sta svolgendo un ottimo lavoro nella regione con l’appoggio dell’Unione europea e delle Nazioni Unite. Vi sono grato per le cortesi parole usate riguardo all’operato dell’OSCE, che si sta adoperando in particolare per garantire elezioni eque, il miglioramento della sicurezza e il dialogo politico tra i candidati presidenziali. Sappiamo che esistono grandi differenze tra il nord e il sud e che per questo motivo, benché non sia l’unico, potrebbe verificarsi un’instabilità politica prima delle elezioni vere e proprie. Sappiamo anche che, dopo il 10 luglio, il paese avrà ovviamente urgente bisogno di assistenza a lungo termine da parte della comunità internazionale per poter attuare riforme in campo politico, economico e sociale.
Sono molto lieto che oggi il Commissario Almunia abbia già sottolineato l’aspetto strategico, come hanno poi fatto l’onorevole Brok e altri oratori. Io stesso ho raccomandato più volte che l’Unione europea riveda i propri rapporti con quella regione, che non è parte della grande Europa ma è più vicina a noi di quanto sembri. Penso che nell’ambito di questi rapporti, come già ricordato dall’onorevole Brok, occorra prendere in considerazione anche la dimensione russa e transatlantica. In ogni caso, sono d’accordo che il Parlamento dimostri la propria attenzione nei confronti del Kirghizistan con un folto gruppo di osservatori, e vi assicuro che il parlamento kirghizo attende con ansia l’arrivo della nostra delegazione parlamentare.
Panagiotis Beglitis (PSE). – (EL) Signor Presidente, l’annuncio delle elezioni presidenziali il prossimo luglio non costituisce, almeno per il momento, la conditio sine qua non per la creazione della stabilità politica e la democratizzazione del paese. Tutti i deputati intervenuti in precedenza hanno parlato dei gravi problemi che caratterizzano il Kirghizistan.
Ad ogni modo, l’Unione europea deve operare in stretta collaborazione con l’OSCE per organizzare e soprintendere alle elezioni, nonché aumentare gli aiuti umanitari e il sostegno finanziario attraverso il programma TACIS e il sistema delle preferenze generalizzate.
La regione dell’Asia centrale non deve costituire un nuovo motivo di conflitto tra le grandi potenze – Stati Uniti, Russia e Cina – per il controllo strategico delle risorse energetiche.
Nel quadro della lotta al terrorismo, l’Asia centrale è diventata l’area adatta a ospitare nuove basi militari, e il suo grado di militarizzazione si sviluppa sempre più pericolosamente.
L’Unione europea ha interesse a diventare la forza stabilizzante di quella zona. La relazione strategica per i paesi della regione per il periodo 2002-2006, adottata dall’Unione europea nel 2002, deve essere rivista e migliorata, tenendo conto della nuova situazione creatasi. Credo sia opportuno, e invito la Commissione a farlo, che essa inizi sin d’ora la stesura di una nuova relazione strategica per la zona, senza aspettare il 2006.
La democratizzazione, la cooperazione regionale, la lotta al narcotraffico e lo sviluppo del fanatismo religioso sono sfide importanti che dovranno essere affrontate nei prossimi anni. In questo senso, si ritiene importante un maggiore coinvolgimento delle Nazioni Unite.
Ursula Stenzel (PPE-DE). – (DE) Signor Presidente, il positivo effetto domino iniziato con il risveglio democratico in Ucraina e in Georgia ha ora investito un terzo paese. Quanto è accaduto in Kirghizistan è un altro bell’esempio del modo in cui la nomenklatura postsovietica stia perdendo il potere, benché gli avvenimenti nei tre paesi citati non siano necessariamente paragonabili tra loro. Il regime di Akayev è crollato senza alcun intervento esterno, a causa di una spontanea sommossa popolare. Molto semplicemente, la pazienza dell’opinione pubblica era stata messa a dura prova, ad esempio, dalle frodi elettorali e dalle enormi fortune accumulate da una famiglia politica nepotistica, che trattava il paese come se fosse una proprietà privata.
L’Unione Sovietica è caduta quasi quindici anni fa, eppure non si è trattato di un disastro geopolitico, come il Presidente russo Putin vorrebbe farci credere, bensì di un’opportunità geopolitica. L’indispensabile iniziativa intrapresa dall’OSCE e dall’ODIHR, agenzia dell’OSCE attualmente diretta da un austriaco, è l’unico fattore esterno che, si può dire, abbia influenzato gli eventi.
Putin sembrerebbe avere imparato dagli errori commessi in Ucraina, e anche l’opposizione kirghiza ha agito con sagacia avvisandolo in anticipo dell’imminente rovesciamento dell’allora capo di governo. Per questo motivo Putin non è intervenuto a sostegno del sistema né ha puntato sul cavallo perdente, come aveva fatto in Ucraina, anche se il Presidente Akayev ha cercato rifugio a Mosca dopo avere perso il potere, uscendo illegalmente dal paese in un tappeto arrotolato. Democrazie stabili e non corrotte possono solo essere una buona notizia per la Russia.
Quali conclusioni dovrebbe trarre l’Unione europea? Innanzi tutto che deve sostenere la democratizzazione della regione e, in secondo luogo, che deve garantire il rafforzamento della democrazia e il sostegno della società civile, soprattutto in Kazakistan, per impedire che l’assistenza finanziaria cada in mani sbagliate. Il Kazakistan è molto più grande, più ricco e di gran lunga più importante in termini geopolitici rispetto al Kirghizistan, che, per quanto suggestivo, è solo un piccolo paese.
Libor Rouček (PSE). – (CS) Come si è già chiaramente dedotto dal dibattito, si possono osservare due tendenze in Kirghizistan o, meglio, in tutta l’Asia centrale. La prima riguarda l’aggravamento della situazione politica e il venir meno dei diritti umani e delle libertà civili. La seconda è legata alla crescente importanza strategica dell’intera zona, principalmente dovuta alle risorse energetiche situate in Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan.
Avendo un solo minuto a disposizione, vorrei concentrarmi brevemente su due settori cui l’Unione europea deve concedere la propria assistenza. Indubbiamente, il primo settore è quello del sostegno dei diritti umani, delle libertà civili, del processo elettorale in Kirghizistan e della società civile.
Il secondo, che non ha goduto di molta attenzione da parte dell’Assemblea, è il sostegno alla cooperazione regionale o, in altre parole, agli Stati dell’Asia centrale nella lotta contro il terrorismo e il contrabbando di stupefacenti, nella cooperazione nel settore dell’energia e nell’utilizzo delle risorse idriche, ad esempio. Sia l’Uzbekistan sia il Kazakistan possiedono risorse energetiche, mentre il Kirghizistan dispone di grandi risorse idriche. In altri termini, vorrei sapere in che modo la Commissione ritiene di potere sostenere la cooperazione regionale, insieme con l’Unione europea.
Jas Gawronski (PPE-DE). – Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi sembra che la risoluzione che abbiamo davanti, dato che bisogna parlare anche di questa e credo che finora nessuno l’abbia fatto, sia realistica ed equilibrata. Mi compiaccio che sia stata firmata da quasi tutti i gruppi politici e questo dà una dimostrazione di unità del Parlamento europeo ed eleva il suo prestigio.
Ma soprattutto è bene che l’Europa rivolga la sua attenzione al Kirghizistan perché l’Unione europea è stata per troppo tempo assente, come ha ricordato poco fa Elmar Brok, e ha una certa responsabilità nell’aver tollerato il regime di Akayev e altri simili nella zona. E’ anche vero che, quando due anni fa abbiamo incontrato Akayev a Bishkek con la delegazione del Parlamento europeo, egli sembrava sincero e convincente nel sostenere che il suo obiettivo era uno Stato più democratico e più trasparente. Forse allora ci credeva veramente, ora di sicuro non più.
La risoluzione parla di situazione fragile in Kirghizistan ed è giusto, perché a differenza dell’Ucraina e della Georgia, come ha ricordato la collega Stenzel, il risultato finale non è affatto acquisito. In questo momento c’è un pericoloso vuoto di potere. Nella risoluzione, si sottolinea anche la litigiosità dell’opposizione che attualmente sembra detenere il potere, unita solo dalla lotta al regime di Akayev, mentre le sue credenziali democratiche sono intaccate dalla precedente collaborazione con la dittatura di quest’ultimo.
Per questo motivo è molto importante il punto 4 della risoluzione che, auspicando una sostanziale riforma della costituzione, mette in guardia contro il pericolo che si insedi un sistema di potere simile al precedente, ma solo con diversi personaggi politici. Il pericolo esiste, gli Stati Uniti da anni forniscono un aiuto finanziario e morale alle forze democratiche nel Kirghizistan, dobbiamo cominciare a farlo anche noi.
Péter Olajos (PPE-DE). – (HU) Signor Presidente, i cambiamenti intervenuti nella regione dei Nuovi Stati indipendenti nell’ultimo anno indicano che i sistemi postsovietici sono attraversati da una crisi e non hanno soddisfatto le aspettative di riforma politica, economica e sociale. L’esempio più lampante in Asia centrale è il Kirghizistan. Purtroppo, siamo costretti a notare che alcuni leader hanno ancora una volta tratto le conclusioni sbagliate dalle “rivoluzioni colorate” e, invece di riparare ai propri errori evidenziati dai fatti, hanno bloccato le possibili strade d’uscita dalla crisi per loro stessi, i loro paesi e i loro popoli.
E’ stato triste apprendere che gli avvenimenti kirghizi hanno costretto il leader del vicino Kazakistan a introdurre misure rigorose. Sembra che le mozioni di risoluzione tese a emendare il processo elettorale e il lavoro dei media stiano andando nella direzione sbagliata, e che la proposta di legge sulla sicurezza nazionale sia stata criticata dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa durante una tribuna aperta. Ciò è deplorevole, soprattutto perché la comunità internazionale ha di buongrado riconosciuto i progressi del Kazakistan nella ristrutturazione economica e sociale e nel garantire pace e armonia tra nazionalità e confessioni diverse. Speravamo fortemente che il Kazakistan sarebbe stato il primo paese della regione dei Nuovi Stati indipendenti a meritare l’onorabile nomina alla Presidenza, incarico di grande responsabilità. In tale ottica, forse, appaiono ancora più incresciosi fatti come la chiusura, con false motivazioni, del quotidiano dell’opposizione, Respublica, e le brutali aggressioni di cui è stato vittima, per ben due volte in meno di un mese, il potenziale candidato dell’opposizione Zharmakhan Tuyakbai. Il fatto che la polizia non si sia assolutamente mossa mentre decine di scagnozzi compivano aggressioni non può essere stato casuale. Possiamo solo sperare che il capo di Stato abbia serie intenzioni di trovare e punire i responsabili.
La democrazia comporta un’onesta rivalità tra avversari politici, e questi attacchi sono incompatibili con i suoi principi. Bisogna dichiarare a gran voce che un’autorità ha sempre il compito di garantire, nel proprio paese, le condizioni per il rispetto delle pari opportunità e l’uso di strumenti onesti nelle battaglie politiche.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio.– (FR) Signor Presidente, desidero innanzi tutto correggere un errore che ho commesso sulla data delle elezioni in Kirghizistan. L’onorevole Maat ha detto che le elezioni sono previste per il 10 luglio. Questa informazione è stata comunicata il 6 maggio: vi prego, dunque, di accettare le mie scuse per l’errore.
Vorrei inoltre ringraziare gli onorevoli parlamentari intervenuti per le analisi che hanno proposto, estremamente utili e del tutto adatte all’importanza della regione. Il ruolo geopolitico e geostrategico che essa riveste per l’Unione europea è stato chiaramente espresso: ciò significa che l’UE deve garantire una maggiore presenza nella regione. Tutti noi abbiamo l’interesse a garantirne una maggiore stabilità e, a tal fine, occorre in primis sostenere l’aspirazione di tali paesi al consolidamento della propria indipendenza conquistata abbastanza di recente. Ritengo che, in questo senso, l’Unione europea possa svolgere un ruolo importante nel mantenere il necessario equilibrio tra la Russia, da una parte, e gli Stati Uniti e probabilmente la Cina dall’altra.
La stabilità è ancora più fondamentale trattandosi, come molti oratori hanno sottolineato, di Stati ancora caratterizzati da fragilità interne, i quali, pertanto, sono particolarmente esposti alla minaccia del terrorismo e del fondamentalismo. Dobbiamo quindi collaborare con tali paesi affinché possano evolvere in democrazie in cui i diritti umani siano meglio rispettati e il sistema democratico consolidato. Ciò sarà possibile solo se li aiuteremo a promuovere lo sviluppo economico. I paesi di cui ci stiamo occupando sono molto diversi tra loro: la situazione economica di un paese come il Kirghizistan è, in effetti, molto diversa da quella di un paese come il Kazakistan, uno degli Stati potenzialmente più ricchi. Anche in questo senso l’Unione europea può svolgere un ruolo molto importante. Con quegli Stati abbiamo già stipulato, negli anni ’90, accordi di cooperazione nel quadro dei quali teniamo periodicamente incontri sia sulla cooperazione che stiamo promovendo sia su una forma di dialogo politico.
Il messaggio lanciato dalla vostra risoluzione, che accolgo con favore, indica che l’Unione europea è chiamata a ricoprire un ruolo politico importante, che può esercitare in stretta collaborazione con l’OSCE, soprattutto per le questioni legate ai diritti umani e alla transizione democratica.
Joaquín Almunia, Membro della Commissione. – (ES) Signor Presidente, anch’io desidero ringraziare tutti gli onorevoli parlamentari per i contributi che, con i loro interventi, hanno apportato a questo dibattito, al fine di condividere tra tutte le Istituzioni dell’Unione la visione più certa possibile di quale sia la situazione reale, quali siano le sfide, le strategie e gli strumenti a nostra disposizione per portare la libertà, garanzia dei diritti umani e del processo democratico, ai paesi dell’Asia centrale. Perché questo, ovviamente, non solo sarà vitale per le aspirazioni dei cittadini della regione: la stabilità, la prosperità e la democratizzazione di quegli Stati sarà anche, sicuramente, un elemento molto importante per la nostra sicurezza.
In primo luogo, le elezioni del 10 luglio sono molto importanti. E’ fondamentale che esse si svolgano in un clima di tranquillità, con la garanzia che la volontà dei cittadini che si recheranno alle urne sarà rispettata.
Da questo punto di vista, come ho detto nel mio intervento iniziale, condiviso da molti onorevoli, l’azione dell’OSCE è cruciale, e la Commissione ritiene che il ruolo che deve ricoprire per il corretto svolgimento delle elezioni debba coordinarsi con il ruolo da protagonista svolto dall’OSCE. In ogni caso – come ho anche detto nel mio discorso iniziale – sono stati utilizzati i meccanismi a nostra disposizione e sono stati stanziati 1,3 milioni di euro per garantire il buon andamento del processo elettorale.
Sarebbe altresì auspicabile, se ancora non esiste una decisione al riguardo, che una delegazione di osservatori del Parlamento assista alle elezioni e garantisca, o cerchi di migliorare, lo svolgimento della consultazione popolare nel pieno rispetto della democrazia.
Vorrei inoltre aggiungere un secondo commento sulla necessità di una strategia, di un approccio regionale. Molti di voi ne hanno parlato, la Commissione è d’accordo e, dal 2002, esiste una strategia che è stata elaborata dopo la visita dell’ex Commissario alle relazioni esterne e adottata alla fine del 2002. Gli obiettivi principali sono la promozione della stabilità e della sicurezza nella regione, oltre allo sviluppo economico sostenibile, dando priorità alla riduzione della povertà e alla difesa dei diritti umani.
Poiché uno dei principali interessi dell’Unione europea in questa regione è legato – dal punto di vista economico – alle risorse energetiche, nello sviluppo di questa strategia è molto importante l’incontro tenutosi lo scorso anno a novembre tra i ministri dell’Energia, e crediamo di dovere proseguire in questa direzione. Il prossimo giugno, la troika e i ministri degli Esteri della regione terranno un’altra importante riunione per valutare la situazione e continuare a progredire nell’attuazione del programma.
Di conseguenza, tutto ciò che favorisce la creazione di ulteriori elementi per la nostra strategia, per un approccio comune regionale, in tutti i suoi aspetti di democratizzazione, lotta alla povertà, difesa, garanzia dei nostri interessi economici, tutela dei diritti umani, avrà ovviamente il sostegno della Commissione, e saranno accolti tutti i contenuti della risoluzione del Parlamento al riguardo.
Infine, per quanto attiene al caso particolare menzionato dall’onorevole Maat nel suo intervento – un caso di violazione dei diritti umani – in questo momento non abbiamo informazioni precise sul fatto citato dall’onorevole deputato. Chiedo all’onorevole Maat, pur sapendo che in questo momento non è presente in Aula, di riferirci in merito, cosicché i nostri rappresentanti presenti nella regione possano raccogliere tutte le informazioni necessarie, che poi metteremo a disposizione dell’Assemblea.
Presidente. – A conclusione del dibattito, comunico di aver ricevuto sei proposte di risoluzione ai sensi dell’articolo 103, paragrafo 2, del Regolamento(1).
La discussione è chiusa.
La votazione si svolgerà domani.
(La seduta, sospesa alle 11.10, riprende alle 11.30)
Presidente. – L’ordine del giorno reca il turno di votazioni.
(Per risultati e ulteriori dettagli sulle votazioni: cfr. processo verbale)
6. Prodotti alimentari destinati a un’alimentazione particolare
7. Nomina di un membro della Banca centrale europea
8. Regime di contingentamento per la produzione di fecola di patate
9. Riconoscimento delle qualifiche professionali
Prima della votazione
Stefano Zappalà (PPE-DE), relatore. – Signor Presidente, onorevoli colleghi, l’emendamento 54, che fa parte del blocco 1, prevede l’introduzione all’allegato 5 di ulteriori tabelle da considerare integrative della tabella 22 di cui alla posizione comune del Consiglio: non sostitutive, ma integrative! E’ una precisazione che faccio perché così come è stato posto non risulta chiaro, e perché resti agli atti: si tratta di una posizione concordata.
Presidente. – Le sue osservazioni verranno messe agli atti e chiederemo ai servizi linguistici di esaminare in dettaglio le diverse versioni linguistiche e il loro contenuto.
10. Semplificazione dell’organizzazione comune di mercato dei prodotti ortofrutticoli
11. Organizzazione dell’orario di lavoro
Prima della votazione sull’emendamento n. 49
Mario Borghezio (IND/DEM). – Signor Presidente, onorevoli colleghi, intervengo per presentare un emendamento orale. Chiedo di aggiungere alla parola “sicurezza” due aggettivi “pubblica e privata” per estendere questa giusta tutela anche ai lavoratori della sicurezza privata, che spesso sono penalizzati e non tutelati adeguatamente a livello sindacale.
(Essendosi alzati più di 37 deputati, l’emendamento orale non è preso in considerazione)
PRESIDENZA DELL’ON. BORRELL FONTELLES Presidentee
12. Seduta solenne
Presidente. – Altezze, è un grande onore per me, come Presidente del Parlamento europeo, ricevere oggi il capo dello Stato che esercita attualmente la Presidenza dell’Unione europea.
Sire, a nome mio e dei miei colleghi, le porgo il più caloroso benvenuto. La sua presenza nella nostra Istituzione dimostra il suo interesse per l’integrazione europea e l’importante ruolo che il suo paese svolge in questo processo. La sua visita ha un nesso storico con quella compiuta da suo padre, il Granduca Jean, il 22 novembre 1990, quasi quindici anni fa.
All’epoca l’Unione europea era costituita da dodici Stati membri e aveva 340 milioni di cittadini. Oggi siamo più che raddoppiati: 25 paesi e 455 milioni di europei. Queste cifre dimostrano quanto è stato lungo il cammino che abbiamo percorso, durante il quale siamo riusciti a riunificare un continente e a condividere gli stessi valori.
Il suo paese, il Lussemburgo, è sempre stato un difensore fedele e determinato dell’integrazione europea e la sua Presidenza ci sta dimostrando ancora una volta che i cosiddetti paesi “piccoli”, piccoli per dimensioni, ma grandi per la loro storia, sono capaci di esercitare grandi presidenze e apportano un savoir faire aggiuntivo all’integrazione comunitaria, grazie al lavoro di politici intelligenti e costantemente disponibili nei confronti del Parlamento.
Guardando al passato, ricordiamo che il nome del suo paese, il Lussemburgo, è associato a momenti importanti della storia europea, come il compromesso del Lussemburgo del 1966, con il quale si riuscì a riportare la Francia al tavolo comunitario. E’ un momento straordinario della storia d’Europa che porta il nome del suo paese. E oggi, trascorsi tre quarti del suo mandato, la Presidenza lussemburghese mostra già un bilancio estremamente positivo, che sono sicuro si arricchirà ancora nel periodo rimanente del semestre.
(Applausi)
Sire, il governo del suo paese ha raggiunto un accordo sul Patto di stabilità durante la sua Presidenza dell’Unione, rispettandone i criteri fondamentali; ha dato un nuovo orientamento alla strategia di Lisbona e abbiamo appena firmato in Lussemburgo i trattati di adesione con la Romania e la Bulgaria, benché non le nasconda che la questione più difficile, quella delle prospettive finanziarie per il prossimo periodo 2007-2013, deve ancora essere conclusa. Fidiamoci degli sforzi della Presidenza lussemburghese per concluderla positivamente.
Monseigneur, da quando è stato proclamato Granduca nell’ottobre del 2000, lei ha sempre espresso una preoccupazione costante per tutti gli abitanti del suo paese, in particolare assicurando un’adeguata integrazione delle varie nazionalità che lo compongono ed evitando ogni forma di esclusione sociale, e sappiamo che in questo compito l’asseconda la sua consorte, la Granduchessa María Teresa, che ci onora oggi della sua presenza.
(Applausi)
Insieme state perpetuando i legami che uniscono il vostro casato al vostro popolo e state proseguendo sulla strada aperta da suo padre, coniugando tradizione e modernità. Forse possiamo così sintetizzare ciò che il Lussemburgo rappresenta oggi: la migliore combinazione di tradizione e modernità che l’essere umano è mai stato capace di creare.
Sire, a lei la parola.
(Applausi)
Henri di Lussemburgo, S.A.R., il Granduca Henri di Lussemburgo. – (FR) Signor Presidente, onorevoli parlamentari, quindici anni fa, nel 1990, alla vigilia di una Presidenza lussemburghese, mio padre, il Granduca Jean, ebbe il privilegio di rivolgersi a questa eminente Assemblea. Alcuni di voi ne facevano parte già all’epoca, e mi congratulo con loro in modo particolare per la costanza del loro impegno al servizio dell’Europa.
Signor Presidente, le gentili parole che ha appena pronunciato nei riguardi del mio paese mi toccano profondamente. Con la Granduchessa, e a nome di tutti coloro che ci accompagnano in questa visita, vi ringrazio per la calorosa accoglienza che ci avete riservato.
1990-2005: quanti cambiamenti, direi anche sconvolgimenti, sono intervenuti in questo periodo, anche in questa splendida città di Strasburgo! Lo splendido nuovo edificio in cui ci troviamo e le dimensioni di questo Emiciclo sono una manifestazione tangibile dei mutamenti storici avvenuti nel nostro continente. Ricordiamo le immense speranze nutrite da alcuni e le forti inquietudini provate da altri dinanzi all’entità delle sfide che ci siamo trovati a fronteggiare con la fine del comunismo e la riconciliazione del nostro continente. Non è giunto il momento di misurare quanta strada abbiamo percorso da allora, riconoscendo in questo percorso i nostri innegabili successi?
Negli ultimi mesi, in occasione delle cerimonie per il sessantesimo anniversario della fine delle ostilità, abbiamo ricordato con piacere che l’elemento che ci ha spinti alla realizzazione della nostra impresa era il desiderio di rendere la guerra impossibile tra noi in futuro.
Come lei, signor Presidente, sono stato ad Auschwitz, dove, con numerosi capi di Stato e di governo, abbiamo pianto in silenzio ricordando i milioni di vittime innocenti morte o mutilate nelle condizioni più atroci. Vorrei anche sottolineare la presenza quel giorno, particolarmente significativa, dei presidenti dei gruppi politici del Parlamento europeo.
E’ il dovere della memoria che ci ha riuniti quel giorno, ed è con rinnovata vigilanza che questo dovere deve continuare a ispirare il nostro impegno per l’integrazione europea, affinché la storia non si ripeta. In tale contesto, sono molto felice di poter condividere oggi con voi alcune riflessioni che, per evidenti ragioni, trascendono il programma della nostra Presidenza.
Signor Presidente, le mie riflessioni mi conducono innanzi tutto a ricordare i nostri conseguimenti. Qualsiasi osservatore riconoscerà che il cammino compiuto in questi ultimi quindici anni abbonda di innegabili successi, che qualcuno definirebbe persino spettacolari. L’Europa appare oggi più forte, perché unita attorno a valori comuni che è capace di promuovere nel mondo. Insieme, abbiamo saputo scongiurare il rischio di vedere la nostra Unione degenerare in una semplice zona di libero scambio. All’indomani della riunificazione tedesca, realizzata sulla scia dell’Atto unico europeo, a sua volta preceduto da un allargamento molto riuscito a sud, abbiamo creato insieme, in circostanze difficili, una moneta unica che oggi merita rispetto e ammirazione.
La nostra Unione è stata capace di allargarsi a est. Permettetemi di esprimervi l’emozione provata di recente in Lussemburgo quando i più alti responsabili bulgari e rumeni hanno firmato l’atto di adesione dei loro paesi. L’Europa ha saputo così rispondere alle legittime aspirazioni di quei popoli che hanno sofferto tanto per un’ideologia che per quarant’anni ha negato loro i diritti più elementari.
(Applausi)
Abbiamo abolito le nostre frontiere interne, aprendo a 450 milioni di cittadini uno spazio unico di libertà e di sicurezza.
Nel rispetto delle loro alleanze, alcuni Stati membri sono intervenuti in modo autonomo nella Repubblica democratica del Congo. Le nostre truppe hanno proseguito il lavoro della NATO in Bosnia-Erzegovina. In Afghanistan, la presenza europea è essenziale per guidare la transizione del paese verso un’autentica democrazia.
Di fronte alla globalizzazione, ci siamo sempre sforzati di fare dell’Europa un polo di eccellenza rispetto ai giganti economici degli Stati Uniti, del Giappone, della Cina, dell’India e del Brasile. Parallelamente, abbiamo saputo fare nostro il motto “l’unione fa la forza” ponendoci nel mondo come un riferimento credibile in termini di democrazia e di solidarietà verso i paesi in via di sviluppo. Potrei infine menzionare gli enormi progressi compiuti nel settore della sicurezza alimentare. In seguito a lunghi e difficili negoziati, l’igiene delle derrate alimentari di 450 milioni di consumatori sarà disciplinata dalle stesse norme.
Signor Presidente, onorevoli parlamentari, voi sapete che potrei menzionare ancora molti esempi. Permettetemi di constatare qui che il ruolo svolto dal Parlamento europeo nella realizzazione di questi successi è stato decisivo in molti aspetti. Qualche volta con l’incoraggiamento, qualche volta esercitando pressioni, il vostro Parlamento si è saputo conquistare un posto eminente negli equilibri istituzionali della nostra Unione. In tal modo il Parlamento europeo ha fatto propria la constatazione espressa a suo tempo da Jean Monnet, che cito: “Possiamo scegliere solamente tra i cambiamenti che ci vengono imposti e quelli che abbiamo voluto e saputo compiere”.
Il ricordo di questi innegabili successi e l’omaggio così reso ai deputati al Parlamento europeo non mi dispensano dal constatare con molta lucidità che numerosi cittadini, e tra essi molti giovani, provano una sorta di malessere nei confronti dell’integrazione europea. Non possiamo però mancare di constatare che nei nuovi Stati membri la freschezza e l’entusiasmo di far parte di questa grande famiglia sono ancora evidenti.
Tuttavia, gli egoismi tendono a frenare il dinamismo che animava i padri dell’Europa. I dibattiti in corso negli Stati membri a proposito della ratifica del Trattato costituzionale sono a questo riguardo rivelatori. Molti danno l’impressione di sentirsi emarginati rispetto alle sfide del processo di integrazione. Si dicono disillusi nei confronti dei responsabili politici. Tuttavia, in mancanza di un’alternativa credibile, nessuno è stato in grado sin qui di proporre un altro modello.
(Applausi)
Indubitabilmente, la fiducia nell’integrazione si è affievolita. Come ha osservato con acutezza un cronista: “I fondamenti del dopoguerra – la riconciliazione, la solidarietà di fronte al pericolo comunista, la ricostruzione – sono diventati puri ornamenti”. In questo triste contesto, le nostre strutture democratiche danno spesso un’impressione di inerzia e di impotenza.
Come spiegare questi dubbi, questo smarrimento, questi giudizi negativi? Alcuni filosofi, come il francese Marcel Gauchet, ci dicono che è un fenomeno dovuto al momento che stiamo vivendo, vale a dire alla nostra epoca che sta attraversando enormi e radicali cambiamenti.
Quando il cambiamento è relativamente lento, come negli anni ’70 e ’80, l’adattamento avviene senza troppe difficoltà. Invece, quando produce uno sconvolgimento dei riferimenti tradizionali, come quello che stiamo vivendo in particolare riguardo alla globalizzazione, è tutto diverso! Occorre assimilare le rotture, reinventare nuovi punti di riferimento, ricostruire strumenti. In breve, ridefinire prospettive e visioni.
Vorrei ricordare a questo proposito una riflessione di Michel Rocard, che disse: “Uno dei drammi dell’Europa consiste nel fatto che è destinata all’amministrazione”. In effetti, dobbiamo riconoscere, con l’ex Primo Ministro, che è triste e di conseguenza ben poco motivante per lo spirito dei nostri cittadini, in particolare per i giovani, che l’Unione sia dominata dal denaro, dal capitale, dall’investimento, dalle norme e dalle sovvenzioni.
Dobbiamo ammettere che si tratta di settori molto importanti, ma troppo aridi per suscitare grandi emozioni. Ricordiamoci che, sin dall’inizio dell’integrazione europea, niente sarebbe stato possibile senza la combinazione di competenza e passione.
Con l’emergere di questa grande Europa, non è giunto il momento di porsi la domanda centrale, che rimane sempre la stessa: perché vogliamo vivere insieme e condividere in tutto o in parte il nostro destino?
La risposta non è ovvia. La vera posta in gioco è rappresentata da 450 milioni di esseri umani, con le loro decisioni e le loro ambizioni, con le loro debolezze e le loro passioni, ma soprattutto con le loro forze e le loro prodigiose qualità. Tuttavia, si presuppone che questi esseri umani condividano un unico destino storico su un unico territorio: l’Europa.
L’avventura europea non può che realizzarsi attorno a popoli e nazioni, traduzione della nostra grande diversità. Ciascuna di queste nazioni rappresenta un territorio con le sue bellezze e le sue ricchezze, ma anche con le sue cicatrici che il tempo ha inscritto nella memoria.
Nel decidere ciò che deve essere conservato rispetto a ciò che dobbiamo considerare obsoleto, il primo compito della nostra Unione è quello di conciliare l’eredità del passato con le sfide del futuro. E’ a partire da se stessa, dal suo modo di procedere e di costruirsi, che deve ora crearsi la propria legittimità.
Di fronte a potenti poli di sviluppo, come superare i rischi di un declino che nessuno sarebbe in grado di gestire individualmente? Ma, soprattutto, come riunire nella solidarietà le condizioni per una nuova espansione? Posta in questi termini, la rinascita dell’Europa – con cui va identificata la nostra ambizione collettiva – dovrebbe essere il progetto sociale delle generazioni che si apprestano a darci il cambio.
Per convincere i nostri cittadini, ricordiamoci che il benessere e la prosperità di un popolo non si possono contabilizzare esclusivamente in termini di prodotto interno lordo. Badiamo anche a non costruire un’Europa vantaggiosa per alcuni ma in cui proliferano contemporaneamente situazioni di esclusione sociale, di violenza in tutte le sue forme, di disoccupazione e di disinteresse per la conservazione dell’ambiente naturale.
Ricordiamoci anche che una migliore curva di crescita è di scarso interesse se non si traduce in un migliore accesso ai beni più elementari, che sono l’istruzione, la cultura, la salute, la giustizia sociale e soprattutto il lavoro!
(Applausi)
Per definire questo progetto di società, il metodo migliore resta il dibattito democratico, che non può evidentemente limitarsi al Parlamento europeo, come, del resto, avete auspicato con molta pertinenza nella vostra risoluzione sul Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa.
Come indicato in tale documento, occorre promuovere, con il concorso delle organizzazioni civili e delle nostre società, la partecipazione attiva dei cittadini ai dibattiti che accompagneranno il processo di ratifica. Sono lieto di constatare che il vostro messaggio non è rimasto lettera morta. Al contrario, dobbiamo riconoscere che i dibattiti sono animati. Le tesi sostenute e le opzioni presentate lasciano talvolta, è vero, uno spazio sproporzionato alla demagogia e persino alle falsità.
(Applausi)
Posso soltanto auspicare che gli onorevoli membri di questa Assemblea si impegnino direttamente e che, al di là delle appartenenze politiche, emerga un’unica ambizione: fare dell’Europa l’autore della propria storia. Non faccio che ripetere ciò che vi disse mio padre al riguardo nel 1990: “Siete i rappresentanti eletti dei nostri paesi. Sappiate mobilitare e trascinare dietro di voi tutte le forze creatrici”.
Signor Presidente, onorevoli parlamentari, per poter vivere insieme, dobbiamo comprenderci meglio. A tal fine, dobbiamo arricchirci delle nostre diversità.
Il popolo del Lussemburgo, considerandone la specificità sociologica, è in qualche modo “condannato” a scoprire l’altro. Questo è vero anche per quanto riguarda la sua prosperità. Nelle innumerevoli visite che ho compiuto negli ultimi venticinque anni, che mi hanno condotto in tutti i continenti, ho compreso molto rapidamente che il Granducato in quanto tale non poteva suscitare da solo l’interesse di potenziali investitori.
Invece, il fatto che il mio paese, seppure modesto per dimensioni, si trovi al centro dell’Unione e solidamente ancorato in questo spazio privilegiato, è stato spesso decisivo nei nostri passi di modernizzazione e di diversificazione della nostra economia.
Per il Lussemburgo, la scelta dell’Europa resta quindi una scelta naturale. La storia ci ha dimostrato che l’esistenza della nostra nazione, se isolata, poteva in qualsiasi momento essere rimessa in questione, che essa sarebbe potuta scomparire, e di questo rischio il mio paese è consapevole. Siamo ben consci della nostra condizione privilegiata di Stato membro fondatore della costruzione europea.
Per concludere, vorrei lasciarvi con una riflessione di Milan Kundera, che si è espresso in questi termini poco dopo la caduta del comunismo: “Spesso mi sembra – diceva – che la cultura europea conosciuta celi un’altra cultura sconosciuta, quella delle piccole nazioni. [...] Si suppone che le piccole nazioni siano necessariamente imitatrici di quelle più grandi. E’ un’illusione. In realtà sono molto diverse. [...] L’Europa delle piccole nazioni è un’Europa diversa, ha un altro sguardo e il suo pensiero forma spesso il vero contrappeso dell’Europa delle grandi nazioni”.
(Applausi)
La mia intenzione oggi era anche di ricordare questo particolarismo. Vi ringrazio per l’attenzione.
(L’Assemblea, in piedi, applaude Sua Altezza Reale il Granduca Henri di Lussemburgo)
Presidente. – A nome del Parlamento europeo, la ringrazio, Sire, per le sue parole, che dimostrano una profonda conoscenza della nostra integrazione politica, della quale il suo paese è stato attore e testimone privilegiato.
Le sue sono state anche parole di incoraggiamento per il lavoro quotidiano che svolge questa Istituzione e non mi rimane che augurare a lei e alla sua consorte un felice soggiorno a Strasburgo, per il tempo che ancora rimarrete con noi.
Luís Queiró (PPE-DE),per iscritto.– (PT) Ho votato a favore della relazione, in primo luogo perché tutte le norme in vigore che assicurano la debita partecipazione degli Stati membri a questo processo sono state rispettate e, in secondo luogo, perché il Parlamento ha espresso un giudizio favorevole sul candidato approvato.
Hélène Goudin, Nils Lundgren e Lars Wohlin (IND/DEM),per iscritto.– (SV) Siamo contrari alla politica agricola comune nella sua forma attuale e ci opponiamo a modifiche che, in linea di principio, rivestono importanza trascurabile nel sistema generale. Chiediamo la completa revisione e riorganizzazione dell’intera politica agricola comune e, di conseguenza, abbiamo difficoltà a isolare singoli settori quali quello oggetto della votazione odierna.
A nostro parere, il regime di contingentamento per l’amido di patate, sul quale siamo chiamati a votare, non deve assolutamente essere prorogato. L’Unione europea deve anzi abolire ogni tipo di regime di contingentamento nel settore agricolo.
Ilda Figueiredo (GUE/NGL),per iscritto.– (PT) Oggi il Parlamento ha adottato la posizione comune sulla proposta di direttiva presentata dalla Commissione europea nel 2002. Nel frattempo, molta acqua è passata sotto i ponti e ora sono stati introdotti vari aspetti che non figuravano nella proposta iniziale.
Nella versione attuale, sono comprese molte situazioni – le libere professioni e il lavoro dipendente, le prestazioni temporanee di servizi e le cosiddette professioni “regolamentate” (medici, infermieri, architetti) – seppure sotto punti di vista diversi.
Vi sono anche alcuni emendamenti, il cui obiettivo è definire il ruolo delle associazioni professionali responsabili del riconoscimento delle qualifiche e istituire un comitato unico a tal fine. Gli emendamenti mirano anche a garantire che le professioni siano rappresentate in seno al nuovo organismo e propongono l’introduzione di una tessera professionale individuale, contenente informazioni sulla carriera professionale del titolare.
Hélène Goudin, Nils Lundgren e Lars Wohlin (IND/DEM),per iscritto.– (SV) Siamo favorevoli a strutture e norme volte a prevenire le discriminazioni sul mercato del lavoro contro persone di altri paesi. Siamo sinceri sostenitori di un mercato interno flessibile e aperto nell’Unione europea. Riteniamo tuttavia che spetti ai singoli Stati membri giudicare quali qualifiche professionali debbano essere oggetto di riconoscimento reciproco. Purtroppo, la direttiva non tiene sufficientemente conto delle esigenze e delle condizioni di base nazionali. I sistemi di istruzione variano da uno Stato membro all’altro e, nella pratica, è quindi difficile garantire il riconoscimento reciproco di tutte le qualifiche professionali. Sosteniamo l’emendamento in cui si raccomanda di escludere dal campo di applicazione della direttiva i notai nell’esercizio di pubblici poteri.
Alexander Lambsdorff, Barbara Weiler e Joachim Wuermeling (PPE-DE),per iscritto.– (DE) La direttiva per ora non offre una soluzione soddisfacente a un problema che riguarda le qualifiche professionali tedesche. A seguito di modifiche introdotte nella legislazione tedesca, la direttiva comporterà che le qualifiche tedesche di operaio qualificato (Geselle) e di operaio specializzato (Meister) rientreranno nella stessa categoria, anche se gli operai specializzati devono completare un impegnativo corso di formazione supplementare che dura diversi anni.
Sarebbe tuttavia possibile aggiungere la qualifica di operaio specializzato in una categoria di livello più elevato, includendola nell’allegato II della direttiva. Abbiamo votato a favore del compromesso, nella speranza che il “Comitato di riconoscimento delle qualifiche professionali”, che sarà responsabile in materia a norma dell’articolo 58 della direttiva, accolga questa richiesta prima del termine fissato per la trasposizione.
Marine Le Pen (NI),per iscritto. – (FR) Il riconoscimento delle qualifiche professionali nell’Unione europea non rappresenterà un progresso reale se non s’inserisce in una strategia più ampia, volta a eliminare le frontiere nazionali, che sono percepite come ostacoli alla libera circolazione delle merci e delle persone. Il nomadismo è ormai stato promosso al rango di valore comunitario, in quanto fa della mobilità geografica e professionale l’alfa e l’omega del nuovo europeo.
Il sistema di riconoscimento delle qualifiche dovrà adattarsi ai cambiamenti che possono intervenire nel mondo del lavoro o nei sistemi di istruzione, secondo la filosofia ultraliberista che anima le Istituzioni europee. In quest’ottica, la Commissione ha definito una politica sociale molto particolare, che incoraggia la formazione e la mobilità dei lavoratori, a condizioni minime di formazione che dovrebbero assicurare una migliore adattabilità ai mercati del lavoro.
D’altro canto, gli organismi normativi e professionali hanno espresso diverse preoccupazioni riguardo al futuro di alcune professioni e alla qualità della formazione fornita in alcuni paesi, in particolare per quanto concerne la salute pubblica.
Infine, la direttiva sul riconoscimento delle qualifiche professionali è la conseguenza della direttiva sulla liberalizzazione dei servizi. Vale a dire che la direttiva Bolkestein è più che mai d’attualità!
Astrid Lulling (PPE-DE),per iscritto. – (FR) Abbiamo bisogno di una direttiva sul riconoscimento delle qualifiche professionali per garantire la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi nel mercato unico, senza discriminazioni per quanto riguarda il livello delle qualifiche professionali. Questo principio non è contestato. Occorre evitare di mescolarla con la scellerata proposta di direttiva Bolkestein, il cui obiettivo è creare un vero mercato unico dei servizi e di cui discuteremo in questa sede nel corso del prossimo mese, per modificarla laddove necessario.
Per quanto riguarda gli emendamenti presentati nel quadro del progetto di raccomandazione per la seconda lettura, condivido la preoccupazione degli artigiani del mio paese, che temono una svalutazione delle qualifiche professionali richieste per lo stabilimento, il che è incompatibile con la strategia di Lisbona e l’importanza che essa attribuisce alla formazione. Il desiderio legittimo di creare un mercato unico realmente funzionante non deve mai portare a un livellamento verso il basso. E’ nell’interesse sia delle imprese sia dei consumatori offrire prodotti e servizi qualificati. Questo è il motivo per cui ho votato a favore degli emendamenti che mirano giustamente a rafforzare la certezza del diritto per gli operatori economici.
Ilda Figueiredo (GUE/NGL),per iscritto.– (PT) Abbiamo votato a favore della relazione perché propone di migliorare il funzionamento delle organizzazioni dei produttori, tramite l’introduzione di un sistema di gestione delle crisi e la promozione dei prodotti ortofrutticoli e delle loro varietà locali, tenendo conto del fatto che il loro consumo contribuisce positivamente alla salute pubblica.
Concordo con la relatrice sulla necessità di incoraggiare la creazione di organizzazioni dei produttori nelle zone con un basso livello di associazionismo, come nel caso del Portogallo. Vorrei inoltre evidenziare l’importanza attribuita alla garanzia della certezza del diritto per le organizzazioni dei produttori e alla semplificazione delle procedure di controllo, tramite la definizione di criteri omogenei per i controlli effettuati sui programmi operativi dalle varie autorità nazionali e comunitarie.
Accogliamo altresì con favore “l’introduzione di un sistema efficace di gestione delle crisi di mercato per evitare che il settore si ritrovi inerme dinanzi a forti cadute dei prezzi”. Per quanto riguarda la sua applicazione pratica e il “fondo di sicurezza” menzionato nella relazione, quest’ultimo dovrebbe essere costituito esclusivamente da fondi comunitari, in quanto questo sarebbe il modo più equo di risolvere la questione.
Hélène Goudin, Nils Lundgren e Lars Wohlin (IND/DEM),per iscritto.– (SV) La relazione mira a semplificare l’organizzazione comune dei mercati degli ortofrutticoli dell’Unione europea. Essa conserva tuttavia le strutture esistenti della politica agricola comune e quindi non possiamo sostenerla.
Luís Queiró (PPE-DE),per iscritto.– (PT) E’ noto che l’agricoltura riveste importanza fondamentale per il Portogallo. In questo contesto, il mio paese deve cercare di proteggere un settore che, al di là degli interessi di una specifica categoria professionale, riveste interesse per il paese nel suo insieme. Ho votato a favore della relazione perché ritengo che la proposta risponda alle aspettative delle organizzazioni dei produttori e perché sostengo un modello adeguato per il regime di aiuti relativo ai prodotti trasformati.
Joseph Muscat (PSE). – (MT) Ho votato contro l’eliminazione della possibilità di ricorrere all’opt-out, che consente al singolo lavoratore di svolgere più di otto ore di straordinari a settimana, per ragioni pratiche e per rispondere alle necessità dei lavoratori e dell’industria maltese. Su questo punto c’è il consenso di tutte le parti sociali del nostro paese.
Sono favorevole alla limitazione dell’orario di lavoro e alla creazione di un migliore equilibrio tra l’orario di lavoro e la famiglia. Tuttavia dovete comprendere che nel nostro paese non esiste un mercato della locazione e che il terreno è scarso e molto costoso. Ogni nucleo familiare e specialmente i giovani prendono a prestito migliaia di euro per avere un posto dove vivere. Si impegnano per molti anni durante i quali spendono somme ingenti di denaro e gran parte del loro reddito, compreso quello derivante dagli straordinari, per pagare l’appartamento o la casa in cui risiedono.
Un gran numero di famiglie si trova in una situazione di questo genere non perché lo desidera, ma perché è il mercato a imporla. Si tratta di situazioni in cui le famiglie dipendono in modo sostanziale dal reddito derivante dagli straordinari, non per fare fronte a spese voluttuarie, ma per rispettare gli obblighi assunti. Le famiglie più vulnerabili sono quelle a basso reddito.
Se limitiamo gli straordinari, non le aiuteremo certo, ma le metteremo in una situazione ancora più difficile. Chi darà loro i soldi di cui hanno bisogno? L’Unione europea forse? Il partito laburista ha fatto presente questo problema e ci troviamo qui per cercare di risolverlo. Sono tuttavia molto preoccupato che la strada sia tutta in salita.
John Attard-Montalto (PSE). – (EN) Signor Presidente, desidero spiegare i motivi per i quali non ho votato conformemente alla linea del partito sulla maggioranza degli emendamenti alla relazione Cercas. La ragione è stata che, tenendo conto degli incontri informali con i maggiori sindacati del mio paese, è emerso che, al momento, Malta non si trova in una posizione economica tale da essere in grado di attuare la direttiva sull’orario di lavoro.
Come spiegato dal collega appena intervenuto, le classi sociali con un reddito più basso non sarebbero in grado di onorare i loro impegni a meno che le proprie entrate non vengano integrate con straordinari e altri sussidi.
Carlo Fatuzzo (PPE-DE). – Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho chiesto a un campione rappresentativo dei venti milioni di pensionati che dall’Italia in buona parte hanno votato perché fossi qui, parlamentare europeo per rappresentarli, come dovevo votare sulla riduzione dell’orario di lavoro. Il campione mi ha risposto: “C’è qualcuno che vuole farci lavorare tutta la vita, tutti gli anni della nostra vita di lavoro, più tanti mesi, più tante settimane, più tanti giorni, più tante ore al giorno possibili e immaginabili, come se non bastasse, vogliono anche farci riscuotere la pensione meno anni possibile, meno mesi possibile, la misura minore possibile. Non abbiamo altro da sperare che di potere, almeno, lavorare il meno possibile durante la giornata lavorativa”, pertanto ho votato a favore della relazione Cercas e degli emendamenti che riducono il tempo di lavoro.
James Hugh Allister (NI) , per iscritto. – (EN) Ho votato contro la relazione riguardante la direttiva sull’orario di lavoro perché priva i singoli lavoratori della facoltà di ricorrere all’opt-out relativamente al limite delle 48 ore lavorative settimanali. Si tratta di un’interferenza intollerabile nella libertà personale di scelta e nei diritti dell’individuo, e rivela il tipico approccio di Bruxelles di voler dettare legge in ogni aspetto della nostra vita socioeconomica.
Sfortunatamente, l’emendamento per preservare la clausola di opt-out è stato respinto, e dunque il resto d’Europa si sta allineando per rifilarci una direttiva sull’orario di lavoro che raccoglie pochissimo consenso nel Regno Unito. Si tratta di uno dei più insopportabili fardelli legati all’appartenenza all’UE e di un sano avvertimento contro il crescente controllo di Bruxelles che comporterà la nuova Costituzione, visto il dogma socioeconomico contenuto nella Parte III.
Derek Roland Clark (IND/DEM), per iscritto. – (EN) I deputati dell’UKIP hanno votato CONTRO l’emendamento n. 37 dal momento che la direttiva sull’orario di lavoro è già operativa e continuerà ad esserlo. Il nostro obiettivo è quello di mitigare i suoi aspetti peggiori. Al momento è possibile decidere di ricorrere all’opt-out sulla clausola delle 48 ore lavorative settimanali, sia a livello individuale che di gruppo, firmando un accordo con il datore di lavoro. La Commissione europea desidera mantenere gli opt-out, la relazione CERCAS li elimina.
L’emendamento n. 37 è stato classificato come “Proposta di reiezione della proposta della Commissione”. Votando contro questo emendamento l’UKIP ha cercato di ristabilire la posizione della Commissione e dunque di mantenere gli opt-out.
De Keyser (PSE),per iscritto. – (FR) Nel momento in cui il Trattato costituzionale richiede che la sinistra lotti per un “sì”, credo che gli emendamenti che la relazione Cercas è stata in grado di introdurre nella direttiva sull’orario di lavoro costituiscano una vittoria, date le forti pressioni esercitate dalla destra. Tuttavia questa vittoria non può mascherare il passo indietro dal punto di vista sociale rappresentato dal testo su cui si è votato oggi. In particolare:
1) la clausola di opt-out rimarrà in vigore per tre anni;
2) l’annualizzazione dell’orario di lavoro non verrà più negoziata dalle parti sociali. Si tratta di un passo indietro in un’area di vitale importanza, quella del monitoraggio della flessibilità;
3) sebbene i periodi di “non-produttività” – per esempio quelli in cui si svolge il servizio di guardia – vengano ancora computati come orario di lavoro, delle eccezioni potrebbero consentire di calcolarli in modo specifico.
Il Trattato costituzionale mira ad introdurre più dialogo sociale, ma l’attuale direttiva lo riduce. Inoltre la presente direttiva compromette uno dei risultati fondamentali raggiunti nelle battaglie del secolo scorso: la riduzione dell’orario di lavoro e la regolamentazione della giornata lavorativa. Ecco perché, anche se accogliamo con favore gli sforzi dell’onorevole Cercas e del gruppo socialista al Parlamento europeo nel respingere l’ultraliberalismo che caratterizza la direttiva, ho deciso di astenermi.
Proinsias De Rossa (PSE), per iscritto. – (EN) Sostengo pienamente la relazione CERCAS come significativo passo avanti verso una settimana lavorativa di 48 ore in tutti e 25 gli Stati membri dal 2010. Eliminerà gli attuali opt-out e introdurrà nuove condizioni più rigide su come calcolare il “servizio di guardia” rispetto alla settimana di 48 ore. L’orario di lavoro continuerà a essere calcolato su un periodo di 4 mesi, salvo talune eccezioni che prevedono il calcolo su 12 mesi, con un più forte controllo attraverso negoziazioni collettive.
Un regolamento adeguato sull’orario di lavoro costituisce una pietra miliare per l’Europa sociale. Consente di conciliare lavoro e vita familiare e affronta un’importante questione relativa alla salute e alla sicurezza.
E’ assolutamente sbagliato che vi sia una clausola di opt-out nella legislazione relativa alla salute e alla sicurezza, ed è dunque importante porre termine quanto prima a questa situazione. Il rischio maggiore è che questo opt-out venga esteso a tutti gli Stati membri, perché ciò renderebbe superfluo il regolamento relativo all’orario di lavoro e si tradurrebbe quindi in una corsa al ribasso.
La data di attuazione del 2010 concede ad entrambe le parti sociali il tempo necessario per negoziare nuovi accordi che tengano in considerazione la settimana da 48 ore. La Confederazione europea dei sindacati (CES) sostiene pienamente la relazione dal momento che offre un giusto trattamento ai lavoratori dell’UE.
De Vits (PSE),per iscritto.– (NL) Nel corso della votazione sulla relazione Cercas relativa alla revisione della direttiva sull’orario di lavoro mi sono astenuto. Il testo di compromesso approvato non può essere considerato un progresso per l’Europa sociale. Dovremo prestare attenzione al mantenimento dei risultati raggiunti dal punto di vista sociale.
Innanzi tutto il principio guida della direttiva è la flessibilità, non la salute e la sicurezza dei lavoratori.
In secondo luogo, anche se con il tempo (fra tre anni) decadrà la possibilità di ricorrere all’opt-out, che consente agli Stati membri di usufruire di una deroga sulle disposizioni relative all’orario di lavoro, ciò non impedisce agli Stati membri, su richiesta, di prevedere orari di lavoro stipulati sulla base di contratti individuali e dunque di aggirare le garanzie sociali degli accordi negoziati per tre anni.
In terzo luogo, la possibilità di annualizzare l’orario di lavoro anche per via legislativa rappresenta l’annullamento di un diritto esclusivo di consultazione sociale.
Anche se il Parlamento descrive il periodo di reperibilità (servizio di guardia) come orario di lavoro, la parte inattiva della reperibilità può essere calcolata in “modo specifico” (attraverso accordi collettivi o regimi legali) senza che ci siano garanzie per i lavoratori coinvolti.
Inoltre, la divisione tra periodo di reperibilità attivo e inattivo minaccia di estendersi ad altri settori.
Ilda Figueiredo (GUE/NGL),per iscritto.– (PT) Accogliamo con favore il fatto che il Parlamento non abbia accettato un gran numero di proposte contenute nella posizione della Commissione relativamente alla nuova direttiva sull’orario di lavoro. Si tratta di uno degli aspetti più pericolosi dell’attacco ai diritti dei lavoratori e mette a rischio i risultati ottenuti in una battaglia durata più di cento anni e che ha penalizzato milioni di lavoratori e le loro famiglie.
Riteniamo positivo che sia stata approvata la soppressione dell’opt-out tre anni dopo l’entrata in vigore della nuova direttiva, per cui abbiamo dato il nostro contributo.
Siamo molto delusi dal fatto che sia stata accettata la definizione di orario inattivo e che sia stata trascurata la giurisprudenza della Corte di Giustizia. Tale fatto potrebbe portare a un’ulteriore deregolamentazione in materia di lavoro, il che condurrebbe a difficoltà anche maggiori nella conciliazione della vita lavorativa e di quella familiare e nella tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Esiste inoltre la possibilità che le ore lavorative vengano annualizzate. Di conseguenza abbiamo votato contro.
Hélène Goudin, Nils Lundgren e Lars Wohlin (IND/DEM),per iscritto.– (SV) Crediamo, puramente per questioni di principio, che l’UE non debba prendere decisioni relative all’orario di lavoro negli Stati membri. Si tratta di una questione su cui devono decidere i parlamenti e le parti sociali in ogni singolo Stato. Abbiamo scelto di appoggiare quegli emendamenti che aprono la strada ad una maggiore autodeterminazione nazionale, ma nel complesso votiamo contro la risoluzione.
Louis Grech (PSE),per iscritto. – (EN) In linea di principio condivido la maggior parte dei punti di vista e delle argomentazioni esposti nella relazione. Tuttavia a Malta molti lavoratori fanno orari prolungati perché ne hanno bisogno, per soddisfare le proprie necessità finanziarie o per rispettare altri obblighi.
In alcune aree la direttiva è inflessibile e avrebbe ripercussioni negative per l’economia della nostra piccola isola e per tutte le parti interessate.
L’attuazione di questa relazione potrebbe compromettere i nostri tentativi di cercare di mantenere e possibilmente creare posti di lavoro senza intaccare il modello sociale.
La scelta dei lavoratori e la competitività, da un lato, e la prestazione efficace di assistenza sanitaria e sicurezza, dall’altro, sono due aspetti vitali per il benessere del popolo maltese e non è possibile negoziare sull’uno a discapito dell’altro.
Per Malta è dunque essenziale mantenere il diritto individuale di fare ricorso all’opt-out.
Questa posizione trova ampio consenso a Malta, anche tra i sindacati.
Ampi strati della popolazione non considerano questo documento utile per Malta. Per queste ragioni ritengo dunque che per il momento non sia opportuno per me votare a favore della relazione.
Richard Howitt (PSE),per iscritto. – (EN) La mia regione, l’Inghilterra orientale, ha il più lungo orario di lavoro nel Regno Unito. Una persona su dieci, attiva nel settore dei trasporti, svolge più di 60 ore settimanali di servizio. Allo stesso modo un addetto a macchinari su dieci lavora più di 56 ore settimanali, mentre la stessa percentuale di lavoratori qualificati nel settore del commercio ne lavora più di 53 a settimana. Per gli operai edili e i magazzinieri il numero di ore settimanali scende a 50. Così com’era giusto introdurre il salario minimo per combattere il problema dei salari troppo modesti, è ora giunto il momento di porre fine all’orario di lavoro eccessivo, che vede lavoratori oppressi e sfruttati, colpiti da stress e altri problemi di salute che danneggiano la loro vita familiare. Ecco perché, con le necessarie tutele, sostengo appieno la fine dell’opt-out britannico alle normative comunitarie relative all’orario di lavoro.
Carl Lang (NI),per iscritto.– (FR) La relazione Cercas, che i deputati del Front National hanno approvato nonostante le numerose lacune, chiede la cancellazione della clausola di opt-out che la Commissione ha proposto di mantenere. Tale clausola, consentendo a taluni Stati membri di prolungare la durata legale della settimana lavorativa oltre le 48 ore, ha inasprito il dumping sociale in Europa. In un’Europa senza confini, le imprese francesi vincolate alla settimana di 35 ore non saranno in grado di competere con i concorrenti che hanno sede in quei paesi europei che fanno ricorso alla clausola di opt-out.
Tuttavia non ci facciamo illusioni. L’approvazione della relazione dell’onorevole Cercas rappresenta solo un primo passo. In occasione di questa prima lettura odierna, il Parlamento europeo ha costretto la Commissione europea a indietreggiare perché molti europarlamentari temono che l’elettorato francese esprima il proprio dissenso il 29 maggio.
Marie-Noëlle Lienemann (PSE),per iscritto. – (FR) Ho votato a favore dell’emendamento n. 37 che chiede la reiezione della presente proposta di direttiva perché il testo mantiene i punti negativi della normativa precedente, tra i quali la clausola dell’opt-out, e avvia il processo di smantellamento delle norme sull’orario di lavoro.
Comunque il relatore, onorevole Cercas, sta cercando di dimostrare il desiderio del Parlamento europeo di assicurare entro tre anni l’abolizione dell’opt-out, un vero veleno per il futuro del diritto sociale europeo. Credo che dobbiamo appoggiarlo in questo obiettivo. Ciononostante non posso accettare che come contropartita egli consenta il calcolo delle 48 ore settimanali massime su un periodo di 12 mesi, calcolo e annualizzazione dell’orario di lavoro come richiesto dai datori di lavoro, oltre alla riduzione della misura in cui viene preso in considerazione il servizio di guardia.
Il compromesso non è soddisfacente e non rappresenta assolutamente un passo avanti come abbiamo il diritto di attenderci nell’Unione europea. Comporta addirittura alcuni passi indietro.
Ci troviamo nella fase iniziale del processo legislativo e un voto a favore della relazione Cercas non rappresenta niente di più che un sostegno a quanto è stato fatto per giungere all’abolizione dell’opt-out. Tuttavia, alla fine della fase di codecisione, non approverò un testo di lavoro che si basa su 48 ore.
Kartika Tamara Liotard (GUE/NGL),per iscritto. – (NL) In termini pratici la proposta della Commissione di emendare la direttiva sull’orario di lavoro va a discapito di milioni di lavoratori in Europa. La clausola di opt-out rimane in vigore, anche se è provato che conduce a settimane lavorative più lunghe e danneggia la salute dei lavoratori. Dovrebbe essere abrogata quanto prima, preferibilmente nel 2008, e sostengo l’impegno dell’onorevole Cercas in tal senso. Consideriamo l’estensione del periodo di riferimento da quattro mesi ad un anno, con punte massime di 65 ore settimanali, come un fenomeno feudale del XIX secolo. Per questo motivo dobbiamo rimanere fermi al periodo di riferimento di quattro mesi. Infine bisogna rispettare la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee relativamente al servizio di guardia.
La Commissione sta cercando di venire incontro al desiderio delle imprese di divenire più flessibili in modo unilaterale. La settimana lavorativa di un massimo di 48 ore, come sappiamo, in effetti è già arcaica. L’attuale settimana lavorativa è intorno alle 40 ore e la grande maggioranza dei lavoratori desidera che sia ancora più breve. Ecco perché sarei a favore di un orario di lavoro europeo standard per ridistribuire ulteriormente l’occupazione e conciliare meglio lavoro, famiglia, assistenza e istruzione.
Astrid Lulling (PPE-DE),per iscritto.– (FR) Credo che dobbiamo modificare la direttiva del 1993 sull’orario di lavoro per meglio rispondere alle realtà del mondo odierno. Tuttavia essa dovrà assicurare alti standard nella tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, offrire alle imprese una maggiore flessibilità nella gestione dell’orario di lavoro e permettere una maggiore conciliazione tra lavoro e vita familiare.
Suona come un tentativo di quadratura del cerchio. Credo che il nostro contributo dovrebbe consentire un prolungamento dei periodi di riferimento. Sono a favore dell’annualizzazione, che può interessare anche i lavoratori e che ci consentirà di far fronte alle fluttuazioni nella domanda, in modo particolare quelle di natura stagionale.
Per quanto riguarda il servizio di guardia, mi poteva stare bene la proposta della Commissione che rispetta il principio di sussidiarietà, perché essa prevede che la parte inattiva del servizio di guardia non sia considerata come orario di lavoro, a meno che la legislazione nazionale o una convenzione collettiva non stabilisca il contrario.
Infine credo che il mantenimento della clausola dell’opt-out sia incompatibile con l’obiettivo della direttiva.
Cecilia Malmström (ALDE),per iscritto. – (SV) La questione dell’orario di lavoro riguarda la legislazione nazionale e non dovrebbe essere regolata dall’UE. Tuttavia già esiste una direttiva a livello europeo che regola l’orario di lavoro e la presente direttiva è finalizzata all’aggiornamento di quella esistente. Il partito liberale ha perciò votato in modo che le normative individuali contenute nella direttiva sull’orario di lavoro siano il più costruttive possibile. Abbiamo difeso il principio di sussidiarietà e un mercato del lavoro flessibile in cui venga tuttavia tutelata la salute dei lavoratori.
Sfortunatamente è stata approvata una serie di regolamenti dettagliati che riteniamo possano danneggiare le piccole imprese in Europa. Abbiamo quindi votato contro la proposta nel suo insieme.
Toine Manders (ALDE),per iscritto.– (NL) In riferimento all’adozione dell’emendamento n. 10, la delegazione olandese del partito popolare per la libertà e la democrazia ha ritenuto fosse saggio votare contro l’emendamento alla proposta della Commissione relativa all’organizzazione dell’orario di lavoro. Secondo la delegazione VVD rappresenta un’interferenza da parte di Bruxelles il fatto che l’Europa preveda che il servizio di guardia nella sua interezza, includendo i periodi di reperibilità e di riposo, debba essere considerato come orario di lavoro. Ciò farà ancora perdere all’Europa parte di quel sostegno di cui in questo momento avrebbe grandissimo bisogno.
David Martin (PSE) , per iscritto. – (EN) Mi congratulo con l’onorevole Cercas per l’eccellente relazione.
Ha raggiunto un compromesso ammirevole tra le esigenze di un mercato del lavoro flessibile e la tutela dei singoli lavoratori contro i danni che orari prolungati di lavoro possono comportare per la salute e la sicurezza e per l’armonia tra lavoro e vita privata.
L’annualizzazione della settimana di 48 ore consentirà alle imprese di far fronte alle fluttuazioni stagionali, a improvvisi aumenti della domanda o a situazioni di crisi.
Al lavoratore verranno garantiti orari ragionevoli di lavoro nel corso dell’intero anno.
Ponendo fine alla clausola dell’opt-out individuale si proteggeranno quei lavoratori che con l’attuale direttiva sono sottoposti a pressioni perché rinuncino ai propri diritti.
Andreas Mölzer (NI),per iscritto.– (DE) Le soluzioni che abbiamo applicato con successo in passato non sono più sufficienti per risolvere i problemi che stiamo attualmente affrontando sotto forma di una maggiore disoccupazione e di un’economia instabile.
Il rapporto di lavoro “standard” sta divenendo sempre meno la norma e la società in cui viviamo richiede sempre maggiore flessibilità. Questo fatto si riflette in nuovi modi di organizzare l’orario di lavoro, come il lavoro part-time o il conto ore. Chi vuole far carriera non ha altra scelta che essere flessibile.
Tuttavia allo stesso tempo ci troviamo di fronte al problema del calo del tasso di natalità in Europa e sarebbe un errore disastroso cercare di invertire questa tendenza attraverso l’immigrazione. L’equilibrio lavoro-famiglia svolgerà un ruolo sempre più importante in questo senso.
I genitori sono spesso spinti ai limiti nel tentativo di conciliare lavoro e doveri familiari. L’orario flessibile recherà solo benefici alle imprese e alle famiglie se apportiamo i cambiamenti necessari per sostenere strutture come quelle per l’assistenza ai bambini, per far sì che si tenga conto di tali cambiamenti. Qualora padri e madri di bambini piccoli fossero costretti a smettere di lavorare, allora l’Europa potrebbe già aver perso un’opportunità.
Claude Moraes (PSE),per iscritto. – (EN) La delegazione del partito laburista al Parlamento europeo ha votato a favore di un pacchetto di compromesso sull’orario di lavoro proposto dai gruppi del PSE e del PPE al Parlamento europeo, che ora sarà sottoposto all’esame dei governi in seno al Consiglio dell’UE. E’ in linea con il nostro voto del 2004 e sostiene il principio centrale della direttiva, e cioè la salute e sicurezza dei lavoratori. Promuove altresì l’obiettivo di conciliare il lavoro e la vita familiare e di aumentare la produttività.
Il partito laburista comprende le difficoltà di adeguamento incontrate dal Regno Unito e da altri paesi, che si possono però superare grazie a talune disposizioni flessibili contenute nella relazione, come per esempio il periodo di riferimento esteso a 12 mesi.
Riconosciamo che il servizio di guardia equivale all’orario di lavoro, come deliberato dalla Corte di giustizia nelle cause SIMAP e JAEGER. Queste sentenze di riferimento hanno implicazioni per il servizio sanitario nazionale e i sistemi di assistenza sanitaria dei paesi membri; tuttavia, consentendo agli stessi Stati membri di calcolare questa parte dell’orario di lavoro, il pacchetto di compromesso che abbiamo raggiunto è sufficientemente flessibile.
Il partito laburista auspica che un voto positivo nella prima fase del processo assicuri l’adozione di una relazione sull’orario di lavoro che salvaguardi la salute e sicurezza dei lavoratori e faccia della conciliazione tra lavoro e vita privata una realtà, pur offrendo l’indispensabile grado di flessibilità.
Luís Queiró (PPE-DE),per iscritto.–(PT) Il fatto che ci sia stata una chiara discrepanza tra il voto di maggioranza in seno alla commissione responsabile per l’occupazione e la commissione responsabile delle questioni relative all’industria è in sé sintomatico dello squilibrio presente nella versione messa ai voti e in molti emendamenti presentati.
Personalmente ho fiducia in un modello che soprattutto sostenga il principio di sussidiarietà, dando agli Stati membri un margine sufficiente di manovra per adattarsi alle normative sull’orario di lavoro a seconda della propria situazione economica. La priorità è essere in grado di adattarsi alla realtà economica e ai bisogni specifici di ogni paese in tutte le circostanze, a patto di rispettare i valori fondamentali. Questo è infatti uno dei principi guida più importanti della legislazione nazionale e vale sicuramente per il Portogallo.
Ad ogni modo, una rigidità eccessiva di qualsiasi regolamentazione in questa materia danneggia l’economia, l’industria e i servizi, e conseguentemente influisce negativamente sui lavoratori e su coloro che sono in cerca di lavoro.
Kathy Sinnott (IND/DEM) , per iscritto. – (EN) Nella relazione sull’orario di lavoro e in qualsiasi relazione in materia di lavoro, cerco sempre di vedere se sia inclusa o meno la più grande forza lavoro in Europa, quella costituita dagli operatori domestici. Non lo è.
Questo è molto deludente perché un documento che tratta del numero di ore lavorate settimanalmente si applica a questa categoria di lavoratori nell’UE più che a qualsiasi altra. Avremmo potuto e dovuto guardare a questioni quali “il servizio di guardia” in relazione i lavoratori domestici. E’ più che un’opportunità persa. Si tratta di discriminazione ed esclusione di persone che lavorano a lungo, per molte ore, persone che sono sempre di guardia.
Spero che potremo decidere di esaminare la situazione di questi operatori e che li includeremo in futuro nelle nostre raccomandazioni in materia di lavoro e che non discrimineremo più questa importante forza lavoro che è già penalizzata dal punto di vista del salario.
Konrad Szymański (UEN),per iscritto. – (PL) La mia posizione relativamente a questa questione si ispira alla convinzione che l’orario di lavoro settimanale, un aspetto fondamentale della vita economica e sociale degli Stati membri dell’UE, non dovrebbe essere regolato a livello europeo.
L’orario di lavoro rientra nell’ambito della normativa sull’occupazione che viene adottata in ogni paese democratico da un parlamento che rappresenta tutte le parti coinvolte nel processo relativo all’occupazione. Ciò fornisce una garanzia sufficiente che verranno rispettati i diritti dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Il voto odierno rappresenta una giornata nera per l’imprenditoria e la prosperità europea. I “sì” espressi dalla sinistra e dai liberali hanno significato l’adozione da parte dell’Assemblea della proposta di rendere più rigida la direttiva sull’orario di lavoro. La presente direttiva diventerà uno degli strumenti legislativi europei più dannosi, dal momento che consiste nientemeno che nella decisione di trasferire i problemi che interessano le economie francesi e tedesche a tutti gli altri paesi, tra cui anche quelli che si sono opposti a tali misure, come la Polonia, il Regno Unito e l’Irlanda. Quelle dei medici, degli infermieri e di alcuni giornalisti saranno le categorie più colpite dalle restrizioni sull’orario di lavoro settimanale e dall’inclusione del servizio di guardia nell’orario di lavoro. In ultima analisi il risultato sarà un’ulteriore riduzione della competitività dell’economia europea.
In questo caso i tentativi del Parlamento di giustificarsi facendo riferimento alla strategia di Lisbona sono il colmo dell’ipocrisia.
Georgios Toussas (GUE/NGL),per iscritto.– (EL) Il gruppo parlamentare del partito comunista greco voterà contro la direttiva relativa all’organizzazione dell’orario di lavoro perché si tratta di uno spietato attacco contro i diritti della classe dei lavoratori da parte dell’UE, delle amministrazioni locali e delle grandi imprese.
L’obiettivo delle proposte della Commissione e del relatore è quello di insidiare l’orario di lavoro introducendo due nuovi termini – servizio di guardia attivo e servizio di guardia inattivo – e un orario di lavoro più flessibile per incrementare i profitti delle grandi imprese.
Il periodo di servizio di guardia inattivo non figura nel computo dell’orario di lavoro anche se il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro.
In questo modo è stato aperto il vaso di Pandora e la normativa sull’occupazione è stata gettata al vento. La definizione di orario di lavoro e la durata della giornata lavorativa sono questioni che per molti anni sono state oggetto di un conflitto di classe tra i lavoratori e le grandi imprese.
Le conseguenze per la classe dei lavoratori sono dolorose: più lavoro non pagato, svolto quando e come dettano i bisogni della produzione capitalista, minando in questo modo gli accordi collettivi di lavoro, intensificazione della schiavitù, più incidenti sul lavoro, peggioramento delle condizioni assicurative e pensionistiche, drastiche riduzioni del tempo libero destinato alle attività sociali e crisi della vita familiare.
Il partito comunista greco sta cercando di riconfigurare e rafforzare l’orientamento di classe del movimento dei lavoratori, in modo da apportare cambiamenti radicali e soddisfare le contemporanee necessità delle classi lavoratrici e dell’intera popolazione.
Anders Wijkman (PPE-DE),per iscritto.– (SV) La questione della regolamentazione dell’orario di lavoro è complicata. La critica principale che sollevo, relativamente alla presente direttiva, è che questioni di questo tipo dovrebbero essere affrontate innanzi tutto a livello di Stati membri. Perciò quando è stata bocciata la proposta relativa all’opt-out – una regola che oltretutto non è applicata in Svezia – ed è stata respinta la proposta di calcolare l’orario medio di lavoro su un periodo superiore ai quattro mesi, ho ritenuto fosse giusto votare contro la proposta nel suo insieme.
Presidente. – Con questo si concludono le dichiarazioni di voto. La seduta riprenderà alle 15.00 con le dichiarazioni sull’avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la Seconda guerra mondiale.
14. Correzioni di voto (cfr. processo verbale)
(La seduta, sospesa alle 12.40, riprende alle 15.00)
PRESIDENZA DELL’ON. BORRELL FONTELLES Presidente
15. Approvazione del processo verbale della seduta precedente: vedasi processo verbale
16. Avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la Seconda guerra mondiale
Presidente. – L’ordine del giorno reca le dichiarazioni sull’avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la Seconda guerra mondiale.
Come ricorderete, lunedì scorso, in concomitanza della Giornata dell’Europa, ho fatto una dichiarazione sulla fine della Seconda guerra mondiale in Europa, la cui data cade nello stesso mese in cui festeggiamo anche l’anniversario dell’adesione di dieci nuovi paesi, cioè a maggio.
Tenendo conto di questa triplice coincidenza, la Conferenza dei presidenti ha deciso di svolgere oggi una discussione sull’avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la Seconda guerra mondiale, che sia qualcosa di più di una semplice commemorazione, qualcosa di più di una visione retrospettiva: una visione del nostro futuro sulla base del ricordo del nostro passato.
Per introdurre la discussione odierna sono qui presenti il Presidente in carica del Consiglio Juncker e il Presidente Barroso...
(Applausi)
...che sono stati di recente a Mosca per assistere alle celebrazioni in commemorazione della fine della guerra e che ora si uniscono a noi in questa discussione che, come vi dicevo – voglio insistere su questo punto – intende guardare al futuro e non solo ricordare il passato.
Vi ringraziamo per gli sforzi che entrambi avete fatto per essere qui tra noi. La vostra presenza arricchisce, senza dubbio, la nostra discussione. Do quindi la parola innanzi tutto a loro, come d’abitudine.
Jean-Claude Juncker, Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Signor Presidente, signor Presidente della Commissione, onorevoli deputati, sono trascorsi sessant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ricordare l’8 maggio 1945, data della capitolazione del Terzo Reich, è un dovere assoluto e vorrei congratularmi a tale proposito con il Parlamento europeo per non avere mancato oggi di ricordare tale data.
L’obbligo di ricordare è un dovere assoluto soprattutto, a mio giudizio, per quanti sono nati dopo la Seconda guerra mondiale, gli uomini e le donne della mia generazione. Quando ricordiamo l’8 maggio 1945, la capitolazione della democrazia tedesca nel 1933 e il terribile periodo che divide queste due date, noi giovani dobbiamo farlo con grande ritegno, almeno rispetto alla generazione coinvolta.
Quelli che, come me, sono nati dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1954, nel 1955 e oltre, devono ricordare con ritegno perché non sono stati testimoni diretti della tragedia che si è abbattuta sul continente europeo. Noi non abbiamo visto, a differenza di coloro che ci hanno preceduti, i campi di concentramento e le prigioni dove furono uccise, torturate e umiliate le persone, fino alla loro degradazione più totale. Non abbiamo visto, come loro, i campi di battaglia, perché non abbiamo dovuto attraversarli, con la morte nell’anima, per non parlare molto spesso della morte fisica. Non abbiamo potuto né dovuto osservare, a differenza di loro, i lunghi cortei di prigionieri di tutte le nazioni che attraversavano l’Europa, costituendo di fatto un unico corteo funebre europeo. Noi che siamo nati dopo la Seconda guerra mondiale non ci siamo trovati di fronte a scelte drammatiche, individuali o collettive. Non dovevamo dire sì o no, abbiamo potuto vivere al sole del dopoguerra, tutte le scelte drammatiche ci sono state risparmiate.
Ricordare l’8 maggio 1945 è un atto che alimenta la memoria collettiva. E’ molto importante nel momento in cui i ricordi diretti e l’esperienza vissuta della guerra o dell’immediato dopoguerra – il vissuto diretto con il bagaglio di esperienze personali e di nobili sentimenti – si stanno trasformando in storia, con tutto ciò che comporta la storia rispetto ai ricordi in termini di distanza e di griglie di lettura sedicenti obiettive. Oggi, i testimoni diretti di questa epoca terribile della storia continentale stanno scomparendo. Sono commoventi i veterani russi sui camion sulla Piazza Rossa, è commovente questo lungo corteo di quanti hanno fatto la guerra per loro e per noi e che, già oggi, non possono più camminare. Del resto noi sappiamo verso che cosa si stanno dirigendo. Il dovere di ricordare è un dovere assoluto.
Per gli uomini e le donne della mia generazione, ricordare vuole dire serbare la memoria non solo con ritegno, ma anche con molta gratitudine. Innanzi tutto, dobbiamo mostrare riconoscenza per la generazione dei nostri padri e dei nostri nonni che, di ritorno dai campi di battaglia, dai campi di concentramento, liberati dalle prigioni, avevano tante ragioni per cedere, per non fare nulla e piangere sul proprio destino. Invece hanno ricostruito l’Europa e hanno fatto dell’Europa il più bel continente che ci sia. Dobbiamo essere riconoscenti dinanzi agli straordinari risultati della generazione di coloro che hanno dovuto andare in guerra e che hanno voluto costruire la pace!
(Applausi)
Ricordando e provando questo dovere assoluto della memoria, dobbiamo anche dire la verità. L’8 maggio 1945 è stata per l’Europa una giornata di liberazione.
(DE) L’8 maggio 1945 è stato anche un giorno di sconfitta. Con ciò intendo, tuttavia, la sconfitta del fascismo e del nazionalsocialismo, oltre alla fine della capitolazione democratica di fronte ai terribili eventi che si erano succeduti dal 1933. E’ stata soprattutto, comunque, anche una giornata di liberazione per la Germania.
(Applausi)
Vorrei dire ai rappresentanti eletti del popolo tedesco presenti in quest’Aula che ora i tedeschi sono per noi vicini migliori di quanto non siano mai stati.
(Applausi)
(FR) Dire la verità, l’8 maggio, il 9 maggio e il 10 maggio significa anche mostrarsi riconoscenti nei confronti di coloro che hanno unito le loro forze e la loro energia alle forze e all’energia europee per liberare il continente europeo. Con sessant’anni non di ritardo ma di distanza, vorrei sottolineare quanto noi europei dobbiamo essere riconoscenti ai giovani soldati statunitensi e canadesi che hanno varcato l’oceano per venire a liberare l’Europa, contribuendo alla liberazione di innumerevoli paesi di cui talvolta ignoravano persino l’esistenza. Non dovremmo mai dimenticarlo.
(Applausi)
Penso anche ai soldati dell’Armata Rossa. Quante perdite! Quante vite spezzate tra i russi, che, per la libertà dell’Europa, hanno sacrificato ventisette milioni di morti! Non c’è bisogno di provare un grande amore per la profonda ed eterna Russia, che personalmente amo molto, per riconoscere che questo Stato è degno dell’Europa.
(Applausi)
Vorrei rendere un omaggio particolare a un popolo d’Europa che ha saputo dire no mentre altri, troppo spesso, erano tentati di dire un debole sì. Vorrei qui, oggi, rendere omaggio al popolo britannico, che ha saputo dire no e senza il cui contributo niente sarebbe stato possibile.
(Applausi)
Tuttavia, la libertà ritrovata, all’inizio del mese di maggio del 1945, non fu la stessa ovunque. Noi, nella parte occidentale dell’Europa, comodamente insediati nelle nostre vecchie democrazie, dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo potuto vivere nella libertà, in una libertà ritrovata di cui conosciamo bene il prezzo. Per cinquant’anni coloro che vivevano nell’Europa centrale e orientale, invece, non hanno conosciuto la libertà che abbiamo vissuto noi.
(Applausi)
Erano soggetti a una legge estranea. Gli Stati baltici, dei quali vorrei salutare l’ingresso in Europa e ai quali vorrei dire quanto siamo fieri di averli con noi, sono stati incorporati con la forza in un’unione di cui non facevano parte. Erano soggetti non alla pax libertatis, ma alla pax sovietika che non apparteneva loro. Questi popoli e queste nazioni, che sono passati di disgrazia in disgrazia, hanno sofferto più di tutti gli altri europei.
(Applausi)
Gli altri paesi dell’Europa centrale e orientale non hanno conosciuto questa straordinaria capacità di autodeterminazione che abbiamo potuto sperimentare nella nostra parte d’Europa. Non erano liberi. Hanno dovuto vivere sotto il regime di principio che fu loro imposto. Con immensa tristezza nel cuore ricordo tutte le parole negative pronunciate oggi riguardo all’allargamento. Oggi, tuttavia, che la Seconda guerra mondiale si è finalmente conclusa, io dico: viva l’allargamento!
(Applausi)
Questa Europa del dopoguerra che, senza la guerra, non sarebbe mai potuta diventare l’Europa di oggi, questa Europa, nata dalle ceneri del conflitto, non avrebbe mai visto la luce senza i cosiddetti padri fondatori dell’Europa – persone come Schuman, Bech, Adenauer, de Gasperi e altri – che, per la prima volta nella storia del continente, hanno trasformato la frase “mai più la guerra” in una speranza, in una preghiera e in un programma. Dobbiamo ricordare oggi con emozione e con gratitudine coloro che hanno avuto il coraggio di dire sì dopo aver detto no.
Non avrebbero potuto agire così se non si fossero sentiti spinti dai nobili e profondi sentimenti dei loro popoli. Non è possibile compiere grandi imprese contro la volontà del popolo. Se abbiamo potuto costruire l’Europa così com’è ora, dopo la Seconda guerra mondiale, il motivo è che i popoli europei non volevano rivivere mai più la tragedia che il continente europeo aveva vissuto, per due volte, durante il XX secolo.
Vi sono i padri fondatori dell’Europa che sono famosi; vi sono i popoli che sono andati avanti nell’ombra e che condividevano questi nobili sentimenti e poi vi sono i filosofi, i pensatori, i politici che, troppo spesso, non ricordiamo: Léon Blum, che ha sognato l’Europa in una prigione francese; il grande Spinelli, incarcerato su un’isola in Italia dai fascisti italiani; altri che non hanno un nome, ma ai quali dobbiamo molto. Vorrei rendere omaggio a coloro che, dimenticati o nell’anonimato, hanno reso possibile tutto ciò che è stato realizzato dopo la Seconda guerra mondiale.
(Applausi)
In Europa c’era dunque la parte libera e la parte rimasta paralizzata da questo funesto decreto della storia, l’accordo di Yalta, che intendeva dividere l’Europa per sempre in due. Tra queste due parti, che molto spesso si guardavano in cagnesco, siamo stati troppo spesso incapaci di costruire ponti. La guerra fredda – così si chiamava eufemisticamente questo altro periodo tragico della storia europea – ha paralizzato le migliori energie dell’Europa e ha impedito ai migliori talenti d’Europa di esprimere tutto ciò che avevano di buono da esprimere se ne avessero avuto la possibilità.
Personalmente, sono nato nel dicembre 1954, ma preferisco dire che sono nato nel 1955. Sono cresciuto innanzitutto nel rispetto delle conquiste della generazione di mio padre, se mi consentite questa digressione, che ha conosciuto una sorte doppiamente terribile, perché i lussemburghesi nati tra il 1920 e il 1927 furono arruolati a forza nella Wehrmacht e costretti a portare un’uniforme che non era la loro, al servizio di ambizioni che non erano le loro. E’ una sorte terribile dover portare l’uniforme del proprio nemico. La stessa osservazione vale per gli abitanti dell’Alsazia e della Lorena, ai quali rendo omaggio.
Sono cresciuto nell’atmosfera della guerra fredda, in cui il mondo, così sembrava, era più facile da capire. C’erano quelli che erano con noi e quelli che erano contro noi. Non sapevamo perché simpatizzavamo per quelli che stavano dalla nostra parte, ma sapevamo di dover odiare gli altri. Si sapeva che la minaccia veniva da oltrecortina e chi stava dall’altro parte pensava che la minaccia provenisse da noi. Quante occasioni perdute! Quanto tempo perso in Europa per queste stupide analisi nell’immediato dopoguerra.
Rallegriamoci, oggi, di non doverci più riferire alla logica implacabile della guerra fredda e di poter mettere pace tra le due parti dell’Europa.
(Applausi)
Penso spesso agli uomini saggi dell’Europa – probabilmente perché io non lo sono – ad esempio a Churchill. Nel 1947, quando il primo congresso del movimento europeo si riunì a L’Aia, dando origine all’idea di creare il Consiglio d’Europa, di fronte al rifiuto dell’Unione Sovietica di lasciar partecipare gli altri paesi dell’Europa centrale e orientale sia al piano Marshall che alla creazione del Consiglio d’Europa, il grande Churchill dichiarò con quel dono profetico che gli era proprio: “Cominciamo oggi a ovest quello che un giorno completeremo a est”. Onorevoli deputati, dobbiamo essere orgogliosi di essere giunti a questa meta.
(Applausi)
Ricordo alcune parole di Victor Hugo che, nel 1849, scriveva: “Giorno verrà in cui non vi saranno altri campi di battaglia all’infuori dei mercati aperti al commercio e degli spiriti aperti alle idee. Giorno verrà in cui i proiettili e le bombe saranno sostituiti dai voti” Dobbiamo essere fieri di aver raggiunto oggi questo obiettivo.
Dobbiamo sentirci orgogliosi di poterlo dire al Parlamento europeo, costituito dai rappresentanti eletti dei popoli d’Europa, eredi di coloro che hanno saputo dire no quando era necessario, eredi di coloro che hanno saputo dire sì quando era l’unica opzione che restava. Dobbiamo essere riconoscenti nei confronti di coloro che hanno detto no quando bisognava dire no e di tutti coloro che, oggi, dicono sì alla grande Europa, all’Europa che ha visto riconciliarsi la sua storia e la sua geografia. Dobbiamo essere orgogliosi di coloro che non vogliono che l’Europa si trasformi in una zona di libero scambio e di coloro che, come noi, come milioni di altri, ritengono che l’Europa sia un continente complesso, che merita qualcosa di meglio di una zona di libero scambio. Dobbiamo essere fieri dell’Europa che hanno costruito coloro che ci hanno preceduti e abbiamo il dovere di comportarci come degni eredi.
(L’Assemblea, in piedi, applaude lungamente)
José Manuel Barroso, Presidente della Commissione. – (PT) Signor Presidente, signor Presidente in carica del Consiglio, onorevoli deputati, cari amici, è un grande onore per me rappresentare la Commissione in questa cerimonia nel Parlamento che rappresenta gli europei. Oggi guardiamo sia al passato che al futuro. Siamo qui per ricordare, per riconoscere e per costruire.
Guardiamo in primo luogo al passato. Il più grande conflitto mondiale è stato fonte di sentimenti contraddittori per tutti coloro che sopravvissero. Fonte di sollievo per molti, fonte di vuoto, senza dubbio, spesso fonte di paura del futuro, il timore che il dopoguerra non fosse migliore, ma persino peggiore del passato.
Perciò ricordiamo. Ricordiamo l’entità della distruzione che ha devastato in particolare l’Europa. Quasi nessun paese ne è uscito illeso. Quella che alcuni hanno definito la “guerra civile europea” ha testimoniato la disumanità di cui può dare prova l’uomo nei confronti dell’uomo. Noi europei, che spesso ci sentiamo orgogliosi dei grandi risultati della nostra civiltà e della nostra cultura, delle grandi opere dello spirito europeo, dobbiamo ammettere umilmente che alcuni degli orrori peggiori mai perpetrati dall’umanità sono avvenuti nell’Europa nel XX secolo.
(EN) Dovremmo comunque ricordare anche le grandi storie di trionfo sulle avversità, i viaggi personali che tanti europei hanno compiuto per trovare una vita migliore, attraversando mari e montagne per realizzare il loro obiettivo di un’esistenza felice e pacifica. Alcuni lo hanno raggiunto semplicemente ritornando a casa. Ricordiamo coloro che non hanno avuto questa opportunità, per i quali la luce della libertà si è spenta subito dopo averla intravista, per i quali un incubo fu sostituito da un altro incubo.
Riconosciamo che qualcosa di straordinario è emerso dalle rovine dell’Europa nel 1945. Vorrei citarvi uno dei visionari di quel tempo, che in un discorso pronunciato a Zurigo nel 1946 disse: “Sto per dirvi qualcosa che vi stupirà. Il primo passo nella ricostruzione della famiglia europea deve essere un’intesa tra la Francia e la Germania. Solo così la Francia può recuperare la guida morale e culturale dell’Europa. Non vi può essere una ripresa dell’Europa senza [...] una Germania grande spiritualmente”. Churchill aveva ragione. E’ facile ora dimenticare il coraggio che richiedeva allora pronunciare quelle parole. Quello che disse era stupefacente.
Ancor più stupefacente furono gli atti che hanno trasformato quelle parole in realtà. Dovremmo ricordare la determinazione straordinaria mostrata da Robert Schuman, Jean Monnet, Konrad Adenauer, Alcide de Gasperi e altri e ciò che hanno realizzato, ricostruendo invece di barricarsi nelle rappresaglie. Dovremmo anche ricordare e riconoscere la visione dei leader transatlantici che contribuirono a sostenere il carico della ricostruzione invece di voltarci le spalle.
Prima di lasciarci trasportare troppo, facciamo una pausa, perché l’impresa avviata dai padri fondatori era straordinaria, ma incompleta. Come ha detto la Commissione nella sua dichiarazione del 9 maggio: per milioni di persone, la vera libertà doveva giungere solamente con la caduta del muro di Berlino, non con la fine della Seconda guerra mondiale. Dopo il 1945 questi popoli persero le loro libertà e opportunità quasi subito dopo averle riguadagnate. In alcuni casi persero il controllo politico dei loro paesi; in altri, persero la loro indipendenza. Per molte persone in Europa la fine della guerra significò pace e libertà, ma per alcuni significò solamente pace, non ancora libertà.
Non dobbiamo dimenticare che cos’era l’Europa. Sessant’anni fa qui, in questo continente, abbiamo vissuto l’Olocausto. Circa 30 anni fa molti paesi nell’Europa meridionale, compreso il mio, vivevano ancora sotto dittature. Fino a circa 15 anni fa metà dell’Europa non godeva di libertà e democrazia. Per questo ho difficoltà a capire come possiamo non essere ottimisti sul futuro dell’Europa osservando i progressi compiuti rispetto alla situazione esistente solo alcuni anni fa.
(Applausi)
Comunque, per fortuna, la storia non è finita lì. I leader europei degli anni ’40 e ’50 hanno costruito una luce e un magnete: una luce attraverso anni oscuri per coloro che non avevano nessuna prospettiva della pace, prosperità e stabilità, di cui altri europei godevano, e una straordinaria e potente forza di attrazione per quei popoli e paesi che si stavano liberando e vedevano la Comunità europea – come veniva chiamata allora – come un catalizzatore per la trasformazione dei loro paesi.
Per la mia generazione, l’Europa è sempre stata sinonimo di democrazia. A 18 anni, insieme ad altri, ero deciso a liberare il mio paese da un regime repressivo, autoritario, retrivo. Per questo motivo io e molte persone della mia generazione ammiriamo particolarmente gli sforzi straordinari dei popoli della Repubblica ceca, dell’Estonia, dell’Ungheria, della Lettonia, della Lituania, della Polonia, della Slovacchia, della Slovenia, della Romania e della Bulgaria nella lotta per la democrazia e il fatto che essi collegano l’idea stessa dell’Europa a quella di democrazia. Dovrebbe essere ed è con enorme orgoglio che l’Unione europea e le sue Istituzioni accolgono quei nuovi Stati membri e quei popoli, insieme a quelli di Malta e Cipro.
Questa trasformazione è quindi degna di riconoscimento e di commemorazione. Perché? Perché a volte sembra quasi dimenticata. Oggi è troppo facile dare per scontate le solide fondamenta della nuova Europa in cui viviamo, un’Europa di libertà e di valori condivisi.
(FR) Per questo bisogna affermare che l’Unione europea non può essere vittima del proprio successo. L’integrazione di una tale varietà di Stati membri, uniti da un progetto comune, è un risultato davvero straordinario. E’ una sfida straordinaria quella che tutti stiamo affrontando. Sono convinto che l’attuazione di questo formidabile progetto, che riguarderà presto 27 paesi e 500 milioni di persone, proseguirà malgrado le turbolenze che non mancheranno di sopraggiungere di tanto in tanto.
Questa attuazione, tuttavia, avviene talvolta così pacificamente che corriamo il pericolo di dimenticarne gli antefatti. I racconti dei conflitti sanguinosi che hanno devastato l’Europa sembrano essere oramai confinati ai libri di storia. Tuttavia, erano ancora sulle prime pagine dei giornali dieci anni fa, quando avvenivano massacri in certi paesi dei Balcani.
Nel nostro continente possiamo dire: mai più! E’ facile dirlo, ma la storia dell’Europa dimostra che dobbiamo lavorare per la pace e non darla per scontata. Questa prospettiva non è probabilmente molto allegra, perché oggi in Europa esistono problemi e timori. A Berlino, nel grande edificio che un tempo ospitava quello che la RDT chiamava il suo parlamento, si trova iscritta la parola Zweifel, che significa “dubbi”. Vi sono dubbi e timori, soprattutto tra i giovani. Le loro ansie sono serie: il timore di trovare o meno un lavoro, l’apprensione di fronte a un mondo più competitivo, percepito talvolta come una sfida. Tuttavia le paure riguardano il fatto di trovare un impiego, non di trovare o meno il proprio paese.
Attualmente è opportuno trovare un modo efficace per risolvere le difficoltà, reali o percepite come tali, legate all’integrazione dei mercati. Non si tratta di conflitti armati tra concorrenti che diventano avversari o nemici. Per tale ragione, per far fronte a questi timori, dobbiamo seguire l’esempio delle generazioni che ci hanno preceduti; dobbiamo dare prova della stessa immaginazione e dello stesso coraggio. Ricordiamoci che l’ambizioso partenariato che abbiamo concluso in Europa è stato all’origine delle rivoluzioni pacifiche che hanno portato la libertà e la democrazia a milioni di europei!
L’esempio dell’Europa – l’Europa dei Sei, dei Dieci, dei Dodici, dei Quindici e ora dei Venticinque – è stato la vera forza motrice della democratizzazione nell’Europa del sud, nell’America latina e, in seguito, nell’Europa centrale e orientale. Ricordiamoci che la libertà è la forza motrice che stimola la crescita, l’occupazione, gli investimenti e che offre a un maggior numero di europei la possibilità di una vita migliore.
La vitalità della democrazia e la modernità delle nostre società testimoniano la nostra capacità di reinventare il nostro continente. Dal mercato interno alle frontiere esterne, dalla promozione della coesione interna alla difesa dello sviluppo sostenibile e dell’ambiente, dalla dimensione della solidarietà a quella della giustizia ai quattro angoli del globo – perché non vogliamo un’Europa chiusa su se stessa – l’Unione europea costruisce continuamente l’Europa. Lo fa per tappe concrete che migliorano la vita quotidiana dei suoi cittadini. La ratifica della Costituzione consoliderà queste realizzazioni e getterà le basi per progressi ancora più significativi in futuro.
Oggi, dunque, ricordiamo questa terribile guerra e le sue conseguenze. Nel nostro lavoro imperniato sull’avvenire, lasciamoci ispirare dall’ambizione visionaria e dalla determinazione dei leader e dei cittadini che ci hanno preceduti, portandoci dalla riconciliazione alla cooperazione e dalla cooperazione all’Unione europea!
(Applausi)
Hans-Gert Poettering, a nome del gruppo PPE-DE. – (DE) Signor Presidente, signor Presidente in carica del Consiglio europeo, signor Presidente della Commissione, onorevoli colleghi, nel 1945, sessant’anni fa, l’Europa era un campo di battaglia in rovina. Una guerra barbara aveva preteso le vite di oltre 55 milioni di persone, altri milioni – un numero incalcolabile – furono sradicati, milioni furono gli sfollati e le persone costrette a lasciare le loro case; genitori persero figli, mogli persero mariti, figli persero padri. Alla fine di marzo 1945, mio padre, un soldato dell’esercito, scomparve. Solo molto tempo dopo abbiamo saputo che era fra i caduti. Io non l’ho mai visto.
Nel 1945, molte delle città d’Europa erano distrutte; l’economia era in rovina. Nel mondo, il nome dell’Europa evocava paura e terrore. Di chi fosse la responsabilità per lo scoppio della Seconda guerra mondiale non è oggetto di dubbio: il regime illegale nazionalsocialista in Germania trasformò le sue manie razziali e la sua sete di potere in un inferno di aggressione contro tutti gli altri popoli d’Europa. Il tentato sterminio degli ebrei era destinato a essere il peggiore dei suoi crimini. Il totalitarismo nazionalsocialista portò alla rovina l’intera Europa. Quando giunse la fine nel 1945, lo stesso popolo tedesco era fra le sue vittime, in un momento in cui i vincitori erano ben pochi.
Piuttosto che vincitori, c’erano superstiti, alcuni fortunati, altri no; i primi in Occidente, i secondi nell’Europa centrale e orientale. Il lungimirante appoggio americano rese possibile la rinascita nella parte occidentale del continente, che poteva godere della libertà, del rispetto per la dignità umana, della democrazia e di un’economia di mercato fondata sul diritto. E’ stato Winston Churchill, come ci è stato ricordato poco fa, a delineare la visione degli Stati Uniti d’Europa – e consentitemi di aggiungere che l’Europa non avrebbe mai potuto considerarsi completa senza la Gran Bretagna. Dopo il 1945, a cominciare dalla costa atlantica, l’Europa fu resuscitata; i suoi popoli, esausti ma felici di poter ricominciare in libertà, si ravvicinarono. Robert Schuman sarà sempre ricordato e celebrato per essersi rivolto ai tedeschi e averli invitati a unirsi a questo nuovo inizio. Senza la magnanimità francese, l’Europa sarebbe rimasta di nuovo nulla più di un’idea inconsistente – e consentitemi di aggiungere che, ora che l’Unione europea sta vivendo un altro nuovo inizio con un’unica Costituzione, l’Europa avrà bisogno anche in futuro, più che mai, di una partecipazione costruttiva da parte della Francia.
(Applausi)
Nel 1945 anche i popoli dell’Europa centrale, orientale e sudorientale erano pieni della speranza di un nuovo inizio, di avere, come quelli che appartenevano alla stessa cultura europea che noi tutti condividiamo, una nuova opportunità di vita nella libertà e nella pace. Hanno dovuto imparare dall’amara esperienza che la pace senza la libertà equivale a una liberazione solo parziale dal giogo dell’ingiustizia totalitaria. Le loro speranze furono schiacciate dalla presa di potere sovietica. Anche se il totalitarismo nazionalsocialista era stato sconfitto nel 1945, il totalitarismo stalinista divise l’Europa e impose il proprio dominio ingiusto ai popoli dell’Europa centrale, orientale e sudorientale. La speranza, tuttavia, non abbandonò i superstiti meno fortunati della Seconda guerra mondiale – la speranza di un’Europa condivisa, intellettualmente, moralmente e politicamente rinnovata, con la prospettiva della prosperità per tutti i suoi cittadini. A questa speranza hanno infine dato forma in una rivoluzione pacifica, la cui parola d’ordine era Solidarność. Ci sono voluti decenni per abbattere il muro.
(Applausi)
Essendo un deputato al Parlamento europeo sin dalle prime elezioni dirette nel 1979, considero la discussione odierna – una discussione che stiamo svolgendo insieme con la dignità e la solennità che merita – un momento di esultanza per l’Europa ora unita, un momento per rallegrarci anche della presenza fra noi di deputati provenienti da otto paesi dell’Europa centrale, che godono degli stessi diritti di cui godiamo noi.
(Applausi)
Fu nel 1989 che l’Europa si liberò dal duplice peso del totalitarismo. Il 1989 ci ha insegnato il potere che hanno per tutti noi i valori dell’Europa e quanto contiamo sull’esempio di uomini e donne coraggiosi, se vogliamo mantenere la nostra libertà. Dopo il 1989, l’Europa ha potuto ricominciare a respirare con entrambi i polmoni, per citare le parole usate dal grande Papa di immortale memoria, Giovanni Paolo II.
(Applausi)
I popoli dell’Europa occidentale avevano compiuto un lavoro prezioso, indispensabile, in preparazione di quel giorno e ciò che hanno fatto perdurerà. La creazione dell’Unione europea con valori comuni incentrati sulla dignità umana, l’unione soprannazionale in una comunità libera con le proprie leggi vincolanti, è stata la risposta conseguente all’opportunità presentata dalla fine della guerra. L’unificazione europea è un progetto di pace e di libertà.
Tutti gli europei hanno ora l’opportunità e il dovere di percorrere la strada presentata da un’Europa riunita. Ora siamo impegnati, insieme, a costruire un’Europa che difende i suoi valori nell’interesse di tutti i cittadini. L’Europa ora può dare una sola risposta alla guerra e al totalitarismo, procedendo lungo la strada dell’Unione europea di popoli e di Stati, con perseveranza, con convinzione interiore e con un’accettazione della diversità che è la forza e lo splendore dell’Europa. Il dibattito in corso sulla Costituzione europea è una grande opportunità per ricordare a noi stessi queste cose fondamentali, perché, per la prima volta nella storia europea, i nostri valori e i nostri ideali sono sanciti in una Costituzione.
L’Europa non è soltanto una costruzione politica, ma uno spazio vitale intellettuale. Per questa ragione la risposta al terribile conflitto, la cui fine oggi commemoriamo con gratitudine, doveva essere di tipo morale, “mai più” alla mancanza di libertà che conduce alla guerra, “mai più” alla guerra che sottrae agli uomini la loro libertà. Questo riassume la motivazione dietro alla costruzione di una nuova Europa, un’Europa che ripudia il totalitarismo, l’arroganza nazionalista e la disumanità egualitaria, un’Europa che rifiuta qualsiasi aspirazione egemonica dei suoi singoli Stati, un’Europa che afferma la dignità inconfondibile di ogni singolo essere umano, il bilanciamento degli interessi tra gruppi sociali e popoli, un’Europa del rispetto e della diversità origine della sua forza, un’Europa della democrazia e del diritto.
Si sono compiuti grandi progressi in termini di riconciliazione interna, tra i popoli e gli Stati d’Europa. Vogliamo – e dobbiamo – completare questo lavoro di riconciliazione interna e desideriamo anche riconciliarci con il popolo della Russia e con i popoli della Federazione russa. Nel periodo della nostra storia che sta ora cominciando, l’Europa dovrà tuttavia perseguire la riconciliazione nel mondo e con il mondo attorno a noi più di quanto abbia mai fatto prima. Le guerre dell’Europa divennero guerre mondiali. L’unificazione dell’Europa deve andare a beneficio del mondo. Possiamo essere grati ai deputati al Parlamento europeo – e desidero ringraziare in particolare l’onorevole collega Elmar Brok – che hanno elaborato una risoluzione che domani esprimerà i nostri valori.
In questo momento, ricordiamo tutte le vittime della Seconda guerra mondiale e tutta la sofferenza e la distruzione. Ricordiamo che la pace e la libertà sono strettamente legate e che il nostro lavoro deve essere al servizio dell’umanità, non ultimo nel promuovere il dialogo tra le culture.
Dove questo dialogo con il mondo sarà fruttuoso, difenderemo i valori che ci sostengono lungo il nostro cammino verso il futuro. In tal modo questo giorno dedicato al ricordo può darci una nuova missione, invitandoci a lavorare insieme per costruire un mondo migliore – un mondo più pacificato e più libero.
(Vivi applausi)
Martin Schulz, a nome del gruppo PSE. – (DE) Signor Presidente, onorevoli colleghi, pensando all’8 maggio 1945 e ricordando ciò che accadde quel giorno, pensiamo al periodo che l’ha preceduto e anche al periodo che seguì. E’ impossibile per qualsiasi deputato tedesco al Parlamento europeo pensare a quella data senza ricordare la propria nazionalità. Il gruppo a nome del quale parlo comprende deputati provenienti dalla Germania, che rappresentano il paese che ha voluto questa guerra, che l’ha preparata, l’ha intrapresa ed è stato spietato nell’organizzarla.
Tuttavia, parlo anche a nome di deputati provenienti dalla Polonia, il paese che per primo è stato invaso dall’esercito tedesco, nonché di deputati provenienti dai paesi che furono i primi fra gli Alleati – il Regno Unito e la Francia – senza le cui forze combinate Hitler non avrebbe potuto essere sconfitto. Vicino a me siede Poul Nyrup Rasmussen, per molti anni Primo Ministro della Danimarca, un paese che la Germania di Hitler invase e occupò dall’oggi al domani – uno dei soldati occupanti era mio padre.
Parlo anche a nome di deputati provenienti da paesi che hanno sofferto sotto la dittatura per molto tempo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il mio gruppo comprende un avvocato che difese le vittime del regime di Franco e un altro deputato che ne fu vittima, essendo stato torturato nelle prigioni sotterranee della polizia segreta. Alcuni dei miei colleghi del gruppo vengono dal Portogallo e dalla Grecia, uomini e donne che – come lei, signor Presidente della Commissione – nei loro anni giovanili esultarono nel vedere i dittatori espulsi dai propri paesi. Il mio gruppo comprende il mio amico Józef Pinior, che sarà il prossimo oratore a intervenire per il gruppo, torturato nelle prigioni comuniste perché sindacalista e socialdemocratico.
Per me è un privilegio poter parlare a nome di tutte queste persone, un privilegio che devo all’Unione europea. E’ qualcosa di cui tutti possiamo essere grati agli uomini e alle donne che hanno dovuto assumersi la responsabilità, dopo l’8 maggio 1945, per il lavoro di unificazione che hanno realizzato. Come ha detto il Presidente in carica del Consiglio, quel giorno, l’8 maggio 1945, c’era una lezione da imparare e ne abbiamo tratto i giusti insegnamenti. La storia dell’Unione europea, la storia dell’Europa dopo l’8 maggio 1945, è una storia di successo. E’ la storia della ferma determinazione emersa dalle rovine, la storia di un “mai più!” Questo “mai più!” non è rimasto inascoltato. Ha preso forma, le forme del lavoro che svolgiamo oggi, di cui beneficiamo attualmente, le forme che mi consentono di rappresentare deputati di religione ebraica, che rendono possibile la presenza nel mio gruppo di deputati musulmani, di deputati che hanno sofferto e che hanno imparato da coloro che hanno sofferto. In tal modo possiamo trovare un terreno comune affermando un’unica convinzione: la lezione dell’8 maggio deve essere che, perché questo “mai più!” sia permanente, dobbiamo lottare per affermarlo ogni giorno. Per la nostra democrazia, per la nostra Europa, la nostra lotta continua giorno dopo giorno.
Ricordiamo oggi le cause, il periodo precedente, segnato da un’unica idea. E’ un caso unico nella storia della razza umana che uno Stato si caratterizzi e definisca il suo scopo in termini di sterminio di altri popoli e razze. Né prima né dopo è mai esistito uno Stato che giustificasse la propria esistenza per sterminare gli ebrei, gli slavi, i rom, i sinti e gli handicappati. Si tratta di un caso unico nella storia della razza umana. Questo è l’aspetto straordinario del Terzo Reich; i nazisti volevano che non rimanesse traccia degli ebrei d’Europa.
Qualche settimana fa ero a Yad Vashem, il luogo della memoria a Gerusalemme. Sono sceso nei corridoi e nelle sale sotterranei in cui sono illustrate le sorti dei milioni di vittime. Il direttore di Yad Vashem, che mi guidava, mi disse: “Ogni giorno discendo in questo inferno e le vedo – le fotografie, solo quelle. E’ un inferno”. Poi risalii le scale e attraverso un corridoio giunsi al nuovo museo, che ha un’ampia vetrata e là, alla luce del sole, si può vedere la città di Gerusalemme. “Ogni giorno – disse il direttore di Yad Vashem – quando esco da quell’inferno e vedo questo panorama, so che non ci sono riusciti. Noi siamo vivi. Noi ce l’abbiamo fatta; i nazisti no”.
Ogni ricordo, ogni giorno dedicato alla memoria, ogni nome che leggiamo, è una vittoria sui criminali che volevano che non rimanesse nulla. Se noi li ricordiamo, il popolo ebreo rimane, come i rom e i sinti, come coloro che furono assassinati per ragioni politiche o perché disabili. Rimangono nel nostro ricordo e così sopravvivono.
(Applausi)
Tante vittime, tanti nomi! Anna Frank era una ragazza ebrea, il cui unico crimine era quello di essere una ragazza ebrea ad Amsterdam. In questo giorno, ricordiamo Anna Frank. Sophie Scholl era una giovane studentessa tedesca, il cui unico crimine era quello di essere una persona retta, e che fu decapitata all’età di 18 anni per aver distribuito volantini che denunciavano il regime nazista. Penso anche a Krzysztof Baczynski, un giovane poeta polacco, ucciso a Varsavia da un tiratore tedesco. Tre nomi su 55 milioni di vittime! Tre nomi, menzionati per rappresentare tutte le altre vittime. Lo ripeto: tre nomi che ricordiamo e che rappresentano tutti quelli che dovremmo ricordare.
Nelle scorse settimane, abbiamo spesso posto la questione dell’utilità di questa nostra Unione europea e ci è stato domandato quale ne sia lo scopo. La risposta è nei nostri discorsi di oggi. Il proseguimento fino a oggi di questo lavoro di unificazione, che sta ancora superando divisioni, che rifiuta ancora il razzismo, che esclude ancora dalla comunità democratica tutti gli antisemiti, i razzisti e i nazisti, che ancora disprezza questi criminali, che ne enumera ancora i crimini e che ancora li ricorda – questa è la base, il fondamento morale e intellettuale della nostra Unione europea, l’Unione costruita dai nostri padri e dai padri dei nostri padri.
Nel frattempo, l’Europa ha un’eredità; l’Unione europea non è più una novità. Ora ha 60 anni, essendo nata, in teoria, l’8 maggio 1945. Adesso, abbiamo un patrimonio da gestire, se vogliamo lasciarlo ai nostri eredi. Se ci interessa questo patrimonio, sapendo di avere il dovere di ricordare che il Terzo Reich rappresentò l’abisso morale della razza umana, dal quale abbiamo tratto le giuste conclusioni creando questa Unione, allora noi politici europei consentiremo ai giovani uomini e donne che siedono nelle tribune di quest’Aula di avere un più brillante futuro a cui guardare rispetto ai loro padri e ai loro avi in passato.
(Prolungati applausi)
Graham Watson, a nome del gruppo ALDE. – (EN) Signor Presidente, il poeta britannico John Donne osservò: “Nessun uomo è un’isola, intero per se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, parte della terra intera. E se una sola zolla vien portata via dall’onda del mare, qualcosa all’Europa viene a mancare”.
Questo scritto risale al 1624, ma per oltre 300 anni popoli e Stati hanno continuato a guerreggiare in tutto il nostro continente. Il tribalismo e l’odio sono il nefasto retaggio dell’Europa. Se non l’avessimo imparato prima, la “guerra per mettere fine a tutte le guerre” avrebbe dovuto mostrarci la futilità e il trauma della guerra organizzata. Il nostro risveglio da quell’incubo ha condotto alla Lega delle Nazioni, ma abbiamo continuato a distillare i frutti del progresso scientifico per creare armi di distruzione di massa. Quando finì la Seconda guerra mondiale in Europa, l’8 maggio 1945, avevano perso la vita oltre 40 milioni di persone.
Un cinico direbbe che gli europei del XX secolo sono stati lenti a imparare la lezione. Ci sono volute due guerre sanguinose e un continente in rovina per insegnarci che un’Europa unita vale più della somma delle sue parti.
Anche allora, non tutti siamo stati in grado di realizzare le nostre aspirazioni di pace e libertà. Mentre per la maggior parte degli europei il maggio 1945 segnò la liberazione dei loro paesi dalla tirannia nazista e l’inizio di un nuovo cammino verso la libertà e la ricostruzione, per coloro che si trovarono sul lato sbagliato della Cortina di ferro, una tirannia fu sostituita rapidamente da un’altra. Ad altre due generazioni fu negata la libertà di cui ora godiamo. Come studente all’Università Karl Marx di Lipsia nel 1976, ne sono stato testimone diretto.
Le nostre prospettive storiche sono inevitabilmente diverse. Questa però deve essere una discussione sul futuro, non sul passato. Rallegriamoci del fatto che l’Europa è unita nella pace e che possiamo sedere insieme nella stessa Aula parlamentare con un insieme di Istituzioni soprannazionali comuni di governo che decidono sulle questioni di reciproco interesse.
E’ stata l’imprescindibile necessità di interdipendenza che ha portato alla creazione dell’Unione europea e che ha visto crollare infine il blocco sovietico. Abbiamo cominciato con il carbone e l’acciaio, gli elementi basilari dell’Europa del dopoguerra; abbiamo costruito il mercato comune, la base di una prosperità insperata dai miei genitori; abbiamo realizzato la moneta unica per 300 milioni di europei all’alba di questo nuovo secolo.
Celebrando il sessantesimo anniversario di una pace durevole, vediamo che l’Europa ha fatto molta strada, con passi graduali per costruire la solidarietà tra i nostri popoli. Non c’è dubbio che l’Unione europea sia un successo: liberté, egalité, fraternité sono diventate parte del nostro comune tessuto legislativo e sociale. Non esiste, tuttavia, alcuna garanzia che sarà sempre così, e ora ci troviamo a un bivio, rappresentato dal Trattato costituzionale. Saremo in grado di procedere e di consolidare questa era senza precedenti di pace, stabilità e prosperità oppure tutto questo si dissolverà davanti ai nostri occhi, sostituito da una nuova rivalità nazionale e da una politica del rischio calcolato?
Un giornalista del Financial Time ci ha ricordato la settimana scorsa quanto è sottile la vernice di civiltà, quanto è debole la voce della coscienza umana quando è tentata di allontanarsi dal principio della legalità e dal rispetto per i nostri simili. Questa è la sfida che si pone agli Stati membri nel momento in cui sono chiamati a ratificare la Costituzione.
Un’Europa pacifica e prospera è sempre stata basata sulla premessa che la forza sta nella convergenza e nei mandati condivisi. La cooperazione è cresciuta, a partire dal commercio sino ad abbracciare la politica sociale, l’occupazione, l’immigrazione, la giustizia, la polizia e la politica estera. Le rivoluzioni nell’Europa centrale e orientale hanno tolto dalle nostre spalle il giogo di Yalta, ma ora dobbiamo affrontare nuove sfide. Ad esempio, la sfida di dare cibo, vestiti e case a una popolazione mondiale in crescita, mentre un numero crescente di persone è spinto alla migrazione dalla guerra, dalla fame o dalla vera e propria disperazione. La sfida di affrontare il problema del buco nello strato di ozono, dello scioglimento delle calotte di ghiaccio, dell’innalzamento dei livelli marini e dei mutamenti climatici. O la minaccia della criminalità organizzata internazionale, in cui alcune bande criminali sono più potenti di certi governi nazionali, causano sofferenze a molti con il traffico di droga e di armi di piccolo calibro e con la tratta di esseri umani e collaborano con il terrorismo. Nessuna di queste sfide può essere affrontata dai nostri paesi individualmente. Per offrire la sicurezza, la prosperità e le opportunità che i cittadini europei si aspettano dal governo, dobbiamo lavorare insieme. Dobbiamo collaborare anche con gli Stati Uniti e il Canada, ai cui popoli dobbiamo tanto e di cui condividiamo in linea di massima i valori, non solo per affrontare con loro le sfide comuni, ma per farli sentire più sicuri con un’Europa nuova e più potente.
L’Europa ha il potenziale per essere un faro di speranza, un modello di tolleranza, diversità e stabilità in un mondo in cui questi attributi sono ancora rari. Possiamo insistere su una carta dei diritti oppure possiamo vedere erosi i nostri diritti. Possiamo ratificare la Costituzione europea e accordare fiducia alla democrazia e a un governo responsabile oppure possiamo continuare a lasciare un potere eccessivo nelle mani di persone non elette. Possiamo tendere una mano amichevole ai diseredati o compiacerci in un rifugio illusorio di prosperità. Possiamo accogliere la Romania, la Bulgaria, la Turchia e i Balcani occidentali e accettare che l’Europa sia pluralistica ed eterogenea oppure possiamo continuare a trattarci reciprocamente con ostilità e sospetto. La convergenza non è solo un ideale, è una necessità economica e politica. E’ ora di superare gli interessi nazionali orientandoci verso una maggiore convergenza. La cooperazione è la via da seguire, che ci consentirà di affrontare insieme le sfide globali.
L’Europa ha un ruolo di guida da svolgere nell’era della governance globale. E’ una forza stabilizzante e un punto di riferimento per altri paesi e popoli. Il commercio e la cooperazione possono portare ad altri i frutti che hanno portato a noi e per tale ragione il mio gruppo è favorevole a maggiori contatti con la Russia e la Repubblica popolare cinese. La storia dovrebbe insegnarci a non diventare uno strumento di sostegno ai regimi autoritari. I Liberali e i Democratici vedono con preoccupazione la direzione presa da alcune politiche del Consiglio: battere gli americani in una sorta di asta olandese al ribasso degli standard in materia di diritti umani sarebbe un affronto alla dignità per la quale il popolo d’Europa ha lottato duramente.
Proprio come nessun uomo è un’isola, nessun paese è un’isola. Siamo uniti nel custodire un mondo fragile e nel servire i suoi abitanti. Facciamo in modo che l’Europa sia l’esempio della dignità della differenza e raccolga la sfida.
(Applausi)
Daniel Marc Cohn-Bendit, a nome del gruppo Verts/ALE. – (FR) Signor Presidente, sono nato un mese prima del 1945. I miei genitori lasciarono la Germania 72 anni fa. Nel 1933, mio padre era avvocato, difendeva il Soccorso rosso e avrebbe dovuto essere arrestato. Sono nato esattamente nove mesi dopo lo sbarco degli alleati in Normandia. Sono un figlio della liberazione, di un’invasione militare che ha liberato il suolo europeo e ha permesso ai miei genitori di avere un bambino, un “figlio della libertà”.
Perciò la nostra memoria, la mia memoria, è lastricata di orrori. Auschwitz, l’orrore, l’anus mundi che ha mostrato il peggio di cui l’essere umano è capace. Kolima, l’anus mundi che ha mostrato ciò che può fare l’ideologia politica più barbara. Oradour-sur-Glane, che ha mostrato ciò che può generare un’occupazione militare. Katyn, che ha mostrato che si può liberare e distruggere allo stesso tempo. Tutta l’élite polacca è stata massacrata dall’Armata Rossa per impedire che il popolo polacco potesse unirsi e creare uno Stato indipendente. Abbiamo continuato poi a commettere massacri incomparabili e tuttavia comparabilmente mortali e crudeli. Ci sono stati i massacri delle guerre coloniali, c’è stata Srebrenica esattamente dieci anni fa.
E’ in seguito a questi massacri che uomini e donne, che non appartengono al mio partito politico, ma dei quali riconosco la grandezza per essere riusciti – perché ci sono davvero riusciti – a costruire questa Europa: che si tratti di De Gaulle o di Adenauer, di Willy Brandt o di Helmut Kohl, di François Mittérand, poco importa, hanno fatto qualcosa di straordinario. E noi, che siamo nati dopo il 1945, siamo figli dell’Europa, ma siamo anche figli dell’antitotalitarismo. Questa Europa è stata creata per evitare per sempre il risorgere del totalitarismo, che sia di sinistra o di destra. Per riprendere una canzone conosciuta da qualcuno: non esiste un salvatore supremo, né Dio, né re, né tribuno, né comunismo, né neoliberismo. Non esiste alcuna ideologia liberatrice degli esseri umani. Esiste solamente una piccola cosa molto fragile che molti scherniscono e che si chiama semplicemente “democrazia”.
(DE) Cari amici, onorevoli colleghi, è sempre facile o difficile per un tedesco parlare sul tema “la guerra, sessant’anni dopo”. La Germania, tuttavia, ha sperimentato sia il nazionalsocialismo, con tutta la sua barbarie, sia il totalitarismo comunista. La Germania è quindi anche un simbolo dell’Europa e, se esiste un obbligo per la nostra generazione, è quello di dire la verità. La mia preoccupazione non è esporre all’Assemblea i compiti politici dell’Europa, perché possiamo farlo in ogni momento. La mia preoccupazione riguarda soltanto quanto seriamente prendiamo quest’obbligo di antitotalitarismo. Se agiamo davvero su questa base, non possiamo trascurare i diritti umani e il rispetto della dignità umana nell’interesse di nessuna Realpolitik.
(Applausi)
Dobbiamo parlare con i russi, ma dobbiamo anche parlare della Cecenia. Dobbiamo parlare dei crimini. Dobbiamo parlare con i cinesi, ma dobbiamo parlare dell’oppressione del popolo cinese. Non possiamo dire semplicemente “togliamo l’embargo” e passare al prossimo punto all’ordine del giorno. Così i cinesi avranno un po’ di armi. Così potranno comprare qualche Transrapid. Con una storia passata come quella dell’Europa, non possiamo agire così!
(Applausi)
Poiché siamo vincolati alla verità, poiché crediamo nell’Europa, tutti dobbiamo ricordare, nel dare forma e nell’organizzare l’Europa del futuro, ciò che è stata in passato l’Europa e quello che non deve più ripetersi.
In momenti come questi io – poiché sono tra coloro che pensano alla storia dell’Europa in questi termini – sono orgoglioso di partecipare alla campagna per una Costituzione che incarna l’eredità dell’Europa antitotalitaria. Sono convinto che vinceremo; questa Costituzione diverrà reale in Europa. Questo è quello che credo; è un obbligo che ci incombe nell’interesse dei nostri figli, che erediteranno ciò che i nostri genitori ci hanno lasciato da custodire.
(Applausi)
Francis Wurtz, a nome del gruppo GUE/NGL. – (FR) Signor Presidente, la bella dichiarazione del Presidente Junker e la particolare enfasi degli interventi successivi contrastano con il contenuto deludente e preoccupante del progetto di risoluzione che ci è presentato a nome della maggioranza dei gruppi in occasione del sessantesimo anniversario della capitolazione nazista. Sono convinto che nella maggior parte dei gruppi politici rappresentati in seno alla nostra Assemblea, uomini e donne proveranno un senso di disagio davanti a questo testo di stampo quasi revisionista.
Quando un’istituzione come la nostra rievoca questo avvenimento fondatore dell’Europa e del mondo di oggi che fu la vittoria di tutti gli alleati – statunitensi, britannici e sovietici – della coalizione contro Hitler, ogni parola ha il suo peso. In una dichiarazione di questo tipo molti si aspettavano di leggere una frase come questa: “L’8 maggio 1945 fu un giorno di liberazione per l’Europa”. Perché no, visto che è la verità? Fu un giorno in cui l’Armata sovietica contribuì in modo decisivo.
Senza ignorare in alcun modo l’oppressione stalinista, molti europei, di fronte a varie manifestazioni di nostalgici del Terzo Reich, avrebbero probabilmente voluto sentirci dichiarare che giustificare le atrocità naziste puntando il dito sui crimini stalinisti è inaccettabile da un punto di vista intellettuale e morale e – riguardo alla guerra della memoria che attualmente oppone le repubbliche baltiche alla Russia – che dovremmo tenere a mente la parte di responsabilità della Germania nazista nella tragedia degli Stati baltici.
Una precisazione, onorevoli colleghi: tutte le argomentazioni che ho appena menzionato sono tratte da un articolo pubblicato l’altro ieri sul quotidiano francese Le Figaro a firma di Michael Mertes, ex consigliere dell’ex cancelliere Helmut Kohl. E’ la vostra famiglia politica, onorevoli deputati del PPE! Grazie a Dio, abbiamo perso la guerra, conclude Mertes, aggiungendo una frase su cui vi propongo di meditare: il modo in cui consideriamo il passato ci insegna di più sui nostri atteggiamenti attuali che non sul passato stesso.
In un momento in cui l’Unione europea consulta i suoi cittadini su un progetto di Costituzione, come interpreteranno questi ultimi il concetto di un’Europa allargata che rimette in discussione la pietra angolare della visione dell’Europa e del mondo, nata l’8 maggio 1945, vale a dire che il nazismo non è stata una dittatura o una tirannide come qualsiasi altra, ma la rottura assoluta con qualsiasi civiltà?
Da parte nostra, siamo pronti a un dibattito senza tabù sui crimini dello stalinismo come sul patto tedesco-sovietico di sinistra memoria o ancora sulla storia dei paesi baltici. Ma niente, niente deve permetterci di banalizzare il nazismo, il cui scopo dichiarato – dobbiamo ricordarlo? – era quello di sterminare le razze inferiori e di allargare lo spazio vitale della razza superiore mediante la guerra totale. Per questa ragione avevamo il diritto di aspettarci dal Parlamento europeo un testo sull’8 maggio 1945 con un punto di vista completamente diverso. E forse non sarebbe stato superfluo rendere omaggio anche agli anonimi combattenti che, senza altra ambizione se non quella di vivere e di agire come uomini e donne retti, hanno partecipato alla resistenza mettendo a rischio la loro vita e sacrificandosi per la nostra libertà. Analogamente, non sarebbe stata di troppo una parola, una sola, sull’orrore di Hiroshima e Nagasaki e sulle loro decine di migliaia di morti in un paese sconfitto.
Questa volta il Parlamento europeo ha davvero perso un appuntamento con la storia. Perciò il mio gruppo rifiuta unanimemente di avallare questa risoluzione, ben lontana dall’idea dell’Europa a venticinque, a ventisette o a trenta.
Lascio l’ultima parola a un leader europeo che, vent’anni fa, aveva trovato le parole giuste per parlare dell’8 maggio 1945 nel paese in cui era più difficile pronunciarle apertamente. Sto parlando dell’ex Presidente tedesco Richard von Weizsaecker. Mi permetto di citarlo.
(DE) “Abbiamo la forza di guardare in faccia la verità come meglio possiamo, senza abbellimenti e senza distorsioni. [...]
Giorno dopo giorno, un concetto è diventato sempre più chiaro e questo deve essere affermato oggi a nome di tutti noi: l’8 maggio è stato un giorno di liberazione. Ci ha liberati tutti dalla disumanità e dalla tirannia dei nazisti.”
(Applausi)
Maciej Marian Giertych, a nome del gruppo IND/DEM. – (PL) Signor Presidente, onorevoli colleghi, la Seconda guerra mondiale è scoppiata nel settembre 1939, quando il mio paese, la Polonia, fu invaso e occupato dalla Germania e dall’Unione Sovietica. Questa spartizione della Polonia fu il risultato del Patto Molotov-Ribbentrop, che era stato firmato una settimana prima a Mosca. La Polonia non fu conquistata dalle squadre di combattimento del partito nazista o del partito comunista, ma dalle forze armate regolari dei paesi vicini, in altri termini dalla Wehrmacht, dalla Luftwaffe e dalla Kriegsmarine tedesche e dall’Armata Rossa. Va aggiunto che il partito nazionalsocialista, capeggiato dal Cancelliere Hitler, governava la Germania a quel tempo, dopo essere asceso al potere sulla base di una decisione democratica dall’elettorato tedesco. Stalin e il partito comunista governavano la Russia, portati al potere dalla rivoluzione.
Noi ora stiamo celebrando il sessantesimo anniversario della capitolazione della Germania, avvenuta l’8 maggio 1945 e divenuta simbolo della fine degli atti criminosi commessi dalla Germania nazista nei paesi occupati. Tuttavia, non significò la fine dei crimini cominciati con l’invasione della Polonia da parte dell’Unione Sovietica nel 1939. Abbiamo vinto la guerra contro la Germania, ma la perdemmo contro la Russia. Questo significò che ci vennero imposti un potere straniero, un sistema economico straniero e un’ideologia straniera.
Combattemmo su tutti i fronti nella Seconda guerra mondiale ed eravamo là quando furono sparati i primi e gli ultimi colpi. Dal 1941 tra i nostri alleati nella guerra contro la Germania c’era l’Unione Sovietica. Riconosciamo il ruolo svolto dalla Russia nella sconfitta della Germania nazista e l’enorme perdita di vite umane che il paese subì in tale circostanza. Tuttavia, questo non cambia il fatto che la Russia agì come se avesse conquistato la Polonia. Inoltre, i nostri alleati occidentali nella lotta contro la Germania erano anche alleati dell’Unione Sovietica e a Yalta diedero il loro beneplacito al nostro asservimento. Fummo costretti a liberarci a poco a poco, in primo luogo decollettivizzando l’agricoltura, poi liberando la Chiesa, poi ottenendo l’autorizzazione per piccole imprese private e infine ottenendo la libertà di costituire sindacati, oltre alla libertà di parola e alla libertà politica.
L’unico aiuto che abbiamo ricevuto dal resto del mondo in questo processo giunse mediante la corsa agli armamenti, che fu vinta con il tempo dagli Stati Uniti, e, in particolare, mediante il successo del programma di “guerre stellari” di Reagan, che indebolì l’Unione Sovietica. La presenza di truppe americane in Europa e l’esistenza della NATO hanno permesso all’Europa occidentale di godere della pace in questi sessant’anni. Ora anche i paesi dell’Europa centrale e orientale, che sono membri della NATO o hanno formato intese per la pace, stanno raccogliendo i benefici. Ciascuno di noi condivide un desiderio di pace e libertà e di un futuro plasmato secondo i nostri desideri.
Le persone della mia generazione, che vissero in prima persona la Seconda guerra mondiale, non saranno con noi ancora a lungo e dobbiamo assicurarci che le generazioni future ricorderanno la verità su questa guerra. Per noi Polacchi è fonte di grande angoscia il fatto che tanti mezzi di informazione occidentali continuino a usare frasi che troviamo ingiuriose, come “campi di concentramento polacchi” o persino “camere a gas e forni crematori polacchi”, come il Guardian britannico ha avuto la temerarietà di scrivere per riferirsi a tali orrori. In realtà, alcune di queste fabbriche di morte si trovavano in territorio polacco, ma resta il fatto che erano tedesche, non polacche. Non tutti i tedeschi sono responsabili per questi crimini e riconosciamo che la nazione tedesca ha preso le distanze dalla sua vergognosa eredità nazista, ma ci teniamo ad assicurare che le future generazioni non associno la Polonia ai crimini commessi dai nazisti, poiché la Polonia non era in alcun modo responsabile.
Allo stesso modo, il popolo russo non è responsabile per i crimini commessi durante il periodo di Stalin, vale a dire per le deportazioni, i gulag, il genocidio commesso a Katyn e l’assoggettamento dell’Europa centrale e orientale. Sono i leader comunisti dello Stato sovietico a essere responsabili per questi crimini e lo stesso popolo russo patì l’asservimento. Noi desideriamo riconciliarci con il popolo e lo Stato russo, ma ci aspettiamo che prendano inequivocabilmente le distanze dal loro retaggio comunista. Tuttavia, gli attuali leader della Germania e della Russia, ovvero dei paesi che hanno fatto scoppiare la Seconda guerra mondiale, hanno concesso un’intervista congiunta al giornale tedesco Bild in cui cercano di distogliere l’attenzione da qualsiasi argomento all’infuori delle loro reciproche relazioni e delle perdite subite.
Attualmente stiamo cercando di stabilire relazioni di buon vicinato con la Germania e la Russia. Già nel 1961 i vescovi polacchi inviarono una famosa lettera ai vescovi tedeschi, che conteneva la frase: “noi perdoniamo e chiediamo perdono”. Adottiamo lo stesso approccio per le nostre attuali relazioni con la Russia, ma perdono e riconciliazione non significano che dobbiamo dimenticare. Chiediamo quindi che non si ripetano mai più orrori come il genocidio, l’assoggettamento di una nazione ad opera di un’altra, l’aggressione e la guerra.
Wojciech Roszkowski, a nome del gruppo UEN. – (PL) Signor Presidente, le singole nazioni hanno vissuto esperienze molto diverse della Seconda guerra mondiale e la discussione odierna è quindi forse la più importante discussione sull’identità europea che sia stata svolta da anni. Se desideriamo sinceramente unirci per formare un’unica comunità spirituale europea, dobbiamo tutti sforzarci di giungere a una piena comprensione delle esperienze storiche delle nazioni d’Europa. A tal fine, dobbiamo parlare con franchezza di certe questioni.
La risoluzione per celebrare il sessantesimo anniversario della fine della guerra è il risultato di un compromesso raggiunto a fatica e nel complesso è un ritratto accurato delle conseguenze della guerra. Ciò che manca, tuttavia, è qualsiasi riferimento al collegamento che esiste tra l’inizio e la fine della guerra, o alle opinioni sulla guerra attualmente diffuse in Russia. Monaco e la partizione della Cecoslovacchia sono stati i primi atti di aggressione di Hitler, ma non si può negare che il Patto Molotov-Ribbentrop sia stato la vera dichiarazione di guerra. La Polonia cadde vittima della cooperazione tra il Terzo Reich e l’URSS nel settembre 1939 e a questo fatto seguirono le invasioni da parte della Germania della Norvegia, della Danimarca, del Belgio, dell’Olanda, del Lussemburgo, della Francia, della Jugoslavia e della Grecia, nonché le invasioni sovietiche della Finlandia, della Lituania, della Lettonia e dell’Estonia. Stalin non si unì agli Alleati di sua spontanea volontà nella loro lotta contro la Germania. Di fatto, è vero l’opposto, poiché rifiutò di cooperare con la Francia e la Gran Bretagna. Fu soltanto dopo l’attacco di Hitler all’Unione sovietica nel giugno 1941 che si assicurò l’assistenza degli inglesi e degli americani entrando in una nuova coalizione, che alla fine sconfisse il Terzo Reich.
Eppure, anche se fu l’Armata Rossa a reggere l’urto principale della guerra, il sistema sovietico non subì alcun cambiamento. L’arcipelago gulag continuò a espandersi e il numero di vite che ha mietuto è paragonabile al numero di cittadini sovietici caduti nella guerra. La cooperazione tra i Tre Grandi era quindi basata su una mera apparenza di valori comuni, motivo per cui si dimostrò impossibile da mantenere dopo la fine della guerra. Poco prima della sua morte, Roosevelt ammise che l’America non poté accordarsi con Stalin, poiché questi era venuto meno a tutte le promesse che aveva fatto. Tuttavia, questa ammissione giunse troppo tardi. L’Europa fu divisa e l’Europa orientale fu gettata nelle braccia del totalitarismo stalinista. Tra i paesi colpiti vi era anche la Polonia, che era stata la prima a opporre resistenza a Hitler, persino quando il suo alleato era Stalin. Le forze armate polacche costituivano un quarto delle forze alleate e in termini relativi il paese subì la maggiore perdita di vite umane durante la guerra.
Purtroppo la Russia è oggi restia a riconoscere il ruolo ambiguo svolto dall’URSS durante la guerra. Il Presidente Putin è tornato indietro a un’interpretazione stalinista della Seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze e ha affermato che il Patto Molotov-Ribbentrop era un normale trattato internazionale. La Russia ha negato ufficialmente che Stalin attaccò la Polonia nel 1939, che fu commesso un genocidio a Katyn e che l’URSS occupò gli Stati baltici. Ha persino affermato che la Conferenza di Yalta portò la democrazia in Polonia.
Viktor Yerofeyev, un noto scrittore russo, ha scritto di recente che la Russia è abbastanza illuminata da non fare distinzione tra il totalitarismo di Stalin e il regime di Hitler. Se la Russia fosse davvero illuminata, vi sarebbe ogni ragione per sperare che possa riconciliarsi con l’Europa. I segnali di una riabilitazione di Stalin però dovrebbero essere un monito per tutti noi.
Perché questo fatto è così importante al momento attuale? Il Presidente Putin ha detto che la riconciliazione tra la Russia e la Germania potrebbe dare un esempio all’Europa. Purtroppo, qualsiasi riconciliazione basata su un’interpretazione stalinista della storia fa invece scattare l’allarme, che risuona particolarmente forte a Varsavia, a Vilnius, a Riga e a Tallinn.
Sia il popolo polacco che le altre nazioni dell’Europa centrale credono che sarà impossibile realizzare la pace e la riconciliazione in Europa se le nazioni situate tra la Germania e la Russia sono escluse dall’equazione in questo modo. L’Assemblea deve capire che noi in Polonia e in Europa centrale ci sentiamo stretti in una morsa ogniqualvolta le superpotenze dell’Europa occidentale e la Russia si stringono la mano sopra le nostre teste.
PRESIDENZA DELL’ON. MAURO Vicepresidente
Philip Claeys (NI). – (NL) Signor Presidente, è davvero importante in questo momento commemorare la fine della Seconda guerra mondiale, avvenuta sessant’anni fa. E’ altresì positivo che in questa occasione si sottolinei ancora una volta che la libertà e la democrazia non dovrebbero essere date per scontate e devono essere difese attivamente. Le atrocità del nazionalsocialismo costituiscono una pagina nera nella storia d’Europa e gli oratori precedenti avevano ragione a sottolineare che c’è poco o nulla da aggiungere.
E’ deplorevole, tuttavia, che l’Europa occidentale stia prestando così poca attenzione al fatto storico che sessant’anni fa venne dato ufficialmente il consenso a consegnare i popoli dell’Europa orientale all’occupazione sovietica, ai regimi comunisti dittatoriali, che certamente non erano da meno dei nazisti in termini di orrore e di crimini. L’Armata Rossa era già a Varsavia nel 1944, aspettava semplicemente che i nazisti reprimessero la sollevazione. Sessant’anni fa in Occidente si esprimevano ovunque lodi e onore per Stalin, un tiranno che aveva già ucciso milioni di persone e che, con la connivenza dell’Occidente liberato, avrebbe continuato a ucciderne molti altri milioni, fuori e dentro la Russia.
E’ ora che la Russia segua la Germania nel mettere ordine nel suo passato. Ufficialmente, paesi come l’Estonia, la Lettonia e la Lituania furono liberati dall’Armata Rossa. La Presidente della Lettonia Vaira Vike-Freiberga ha sottolineato che il 1945 non ha portato agli Stati baltici alcun genere di liberazione, al contrario. Vorrei citare le sue parole: “Significò schiavitù, occupazione, sottomissione e terrore stalinista”.
I leader europei che qualche giorno fa erano a Mosca non si sono quasi per niente preoccupati di affrontare tale realtà né di mettere in rilievo che il momento che sessant’anni fa ha segnato la liberazione per gli europei occidentali, è stato un altro calvario per l’Europa orientale, con la differenza che le nuove dittature potevano contare sull’appoggio attivo e sulla comprensione di tanti politici, media, intellettuali e molti altri nell’Europa occidentale, alcuni dei quali infatti erano, a quanto pare, sul libro paga dei servizi segreti sovietici. Forse, sessant’anni dopo, è opportuno affrontare tali questioni. Forse l’Europa non sarà capace di lasciarsi completamente alle spalle il passato a meno che non si svolga una sorta di processo di Norimberga al comunismo, non per riaprire vecchie ferite, ma con l’intenzione di non dimenticare mai, pensando al futuro dei nostri figli e nipoti.
Sono sbalordito che un Commissario europeo inserisca nel suo sito web fotografie in cui dimostra la sua ammirazione per un personaggio come Fidel Castro. Sono scioccato quando gli intellettuali e i responsabili delle politiche continuano a negare o a minimizzare l’avvento dell’estremismo islamico. Jean-François Revel ha già parlato di tentation totalitaire – la tentazione totalitaria. Se c’è una lezione da imparare dalle atrocità della Seconda guerra mondiale, è che il totalitarismo non deve avere un’altra opportunità, ovunque possa emergere.
József Szájer (PPE-DE). – (HU) “Dal sangue versato dai nostri padri nelle battaglie fluisce la pace, attraverso il nostro ricordo e il nostro rispetto: mettere ordine nelle nostre questioni comuni, questo è il nostro dovere; e sarà un arduo compito”. Il grande poeta ungherese Attila József, nato un secolo fa, ci ricorda che noi, ovvero le nazioni europee, che abbiamo combattuto molte guerre l’uno contro l’altro, abbiamo molte questioni comuni da mettere in ordine.
Nella lettera che ha inviato a Vytautas Landsbergis e a me, il Commissario Frattini ha scritto di recente che la vostra storia è anche la nostra storia. Quando celebriamo la fine della guerra mondiale in Europa, non dobbiamo dimenticare che la fine della guerra portò qualcosa di diverso per ognuna delle nazioni europee. Nel caso delle nazioni più fortunate, segnò sessant’anni fa la fine di lunghe sofferenze e di incommensurabili distruzioni. Chiniamo il capo di fronte a tutti coloro che si sacrificarono per la pace. Tuttavia, un’altra nefasta dittatura attendeva l’altra metà dell’Europa, senza minor sofferenza e distruzione. Notte dopo notte senza luce del giorno, occupazione dopo occupazione senza indipendenza, dittatura disumana dopo dittatura disumana senza libertà.
Dietro di me siede qui fra noi una rappresentante slovacca, Zita Pleštinská, il cui padre ungherese, István Kányai, fu perseguitato ugualmente dai nazisti e dai fascisti e successivamente soffrì nove anni negli inferni dei campi di concentramento sovietici. Chi libera il prigioniero innocente da una prigione e lo chiude in un’altra è un carceriere, non un liberatore. E il prigioniero non lo vedrà come qualcuno che gli ha dato la libertà, ma come qualcuno che gliel’ha tolta. Per molte nazioni europee, la libertà tanto desiderata giunse cinquant’anni dopo l’8 maggio 1945. E l’ultimo passo è stato compiuto il 1° maggio 2004, che ha segnato la fine dell’ordine mondiale di Yalta. In realtà, la Seconda guerra mondiale è finita il 1° maggio 2004. La fine della guerra dovrebbe quindi essere celebrata più propriamente qui, nella capitale dell’Europa riunificata, invece che a Mosca.
Le nazioni dell’Europa guardavano i due lati dello stesso muro: il filo spinato ci ha divisi a metà per mezzo secolo. Abbiamo sopportato l’insopportabile, abbiamo resistito al sistema instaurato dall’Armata Rossa sovietica, che rimase dopo la liberazione, al genocidio, alla pulizia etnica e di classe, alle uccisioni, alle torture, alla deportazione e alla privazione dei diritti civili inflitta a persone innocenti impegnate nel nome dell’idea socialista progressista. Il sistema imposto alle nazioni dell’Europa centrale dal comunismo sovietico era una conseguenza diretta del piano di cui Stalin parlò il 19 agosto 1939 di fronte al Politbüro, dando una spiegazione per il Patto Molotov-Ribbentrop. Cito le sue parole: “L’esperienza degli ultimi vent’anni ha dimostrato che in tempo di pace è impossibile mantenere un movimento comunista in tutta Europa che sia abbastanza forte perché un partito bolscevico possa prendere il potere. La dittatura di tale partito diverrà possibile soltanto come risultato di una guerra di grandi proporzioni”.
Le nostre nazioni si sollevarono molte volte contro tale dittatura dei partiti bolscevichi: nel 1956 a Berlino, nell’ottobre 1956 in Ungheria e a Poznañ, nel 1968 in Cecoslovacchia e nel 1980 in Polonia. L’Occidente guardò con favore alle nostre rivoluzioni, simpatizzò con noi, poi tollerò quando l’Unione Sovietica represse e schiacciò sanguinosamente queste espressioni di desiderio di libertà. Onorevoli colleghi, la nostra storia è anche la vostra storia. Tuttavia, noi, le nazioni liberate un decennio fa dall’occupazione sovietica, non troviamo alcuna compassione esaminando la nostra storia recente. Dopo la guerra, l’Europa occidentale si rialzò orgogliosamente e cominciò a prosperare in pace. Anche se non per colpa nostra, noi siamo rimasti fuori da questo processo. Tale evoluzione ha originato la situazione attuale in cui vi sono persone dal lato più fortunato dell’Europa e addirittura qui in Parlamento che vogliono generare capitale per sé suscitando nella popolazione la paura nei confronti dei cittadini a basso costo dei nuovi Stati membri, di persone il cui paese è caduto in una crisi economica a causa dell’inefficace economia socialista che fu loro imposta.
Molti nell’Europa occidentale tuttavia non capiscono neppure perché la stella rossa a cinque punte, come la svastica, sia divenuta simbolo di odio e oppressione. La nostra storia è anche la vostra storia. Sessant’anni fa i poteri nazisti furono sconfitti congiuntamente dalle nazioni d’Europa. La classe politica screditata scomparve. Non ci sono piazze intitolate a Hitler, né monumenti per commemorare gli assassini nazisti. Mezzo secolo più tardi anche l’Unione Sovietica e il regime comunista sono crollati. Analogamente, il comunismo jugoslavo, che ha seguito la sua strada separata senza l’occupazione sovietica, ha subito una ignominiosa sconfitta. I successori del caduto sistema comunista sono eloquenti uomini d’affari che chiedono rispetto, politici responsabili, per così dire. In Russia, le statue di Stalin sono state di nuovo erette e ancora una volta si fa riferimento all’occupazione sovietica come alla liberazione. Sembra che vogliano sentire sempre meno parlare delle atrocità della dittatura comunista.
Onorevoli deputati, non dobbiamo pensare con due metri diversi. Auschwitz, il massacro della foresta di Katyn, il nazismo e l’occupazione sovietica degli Stati baltici in due tempi, dittature ingiuste che smembrano le sfere di interesse dell’Europa, confini tracciati con la forza e con i patti, la deportazione di interi popoli, assassinii, torture, mutilazioni, la negazione dei diritti civili, muri che dividono nazioni, il disprezzo dei diritti umani e delle minoranze: sono tutte gravi ingiustizie, a prescindere da chi le ha commesse.
Sessant’anni dopo la fine militare della guerra, è ora di affrontare questi problemi. L’enorme sacrificio dell’Armata sovietica esige rispetto e onore. L’esercito di occupazione, tuttavia, non merita il nostro rispetto; ha imposto la sua dittatura oppressiva su una parte degli Stati europei. Finché non saremo capaci di chiamare un’atrocità con il suo nome, di giudicare un assassinio come tale, finché misuriamo un peccato con un altro, la guerra continuerà nella nostra testa e le ferite non guariranno. Gesù dice che la verità ci farà liberi. La riunificazione dell’Europa ci dà l’opportunità di un nuovo inizio. Vincitori e vinti, oppressori e oppressi di un tempo, possiamo costruire insieme un’Europa comune, democratica, basata sulla virtù della dignità umana radicata nella tradizione cristiana, con la speranza di un avvenire più luminoso e di generazioni più felici in futuro. Diamo ascolto ad Attila József, ascoltiamo il poeta e mettiamo ordine nelle nostre questioni comuni!
Józef Pinior (PSE). – (PL) Onorevoli colleghi, oggi il Parlamento commemora il sessantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, la guerra più terribile della storia. E’ costata la vita a milioni di persone e ha condotto all’annientamento degli ebrei, oltre a precipitare l’Europa nell’abisso della ferocia, della devastazione economica e del decadimento morale. Dovremmo chinare il capo in memoria di quell’epoca e commemorare le vittime di questa guerra.
Onorevoli colleghi, anche se esistono alcuni momenti chiave nella nostra memoria collettiva che ci permettono di unirci nella costruzione di una comunità politica, ciascuna delle nazioni europee ricorda il XX secolo dal suo punto di vista. La ragione di questo è che i nostri Stati e i nostri popoli hanno vissuto eventi storici e politici diversi. C’è, comunque, un elemento che ci unisce, poiché noi tutti ricordiamo le vittime della guerra e la lotta per la libertà e la democrazia. E’ il ricordo di questi fatti che fornisce una base per la nostra identità comune europea. Oggi commemoriamo le vittime del terrore nazista nei paesi occupati dal Terzo Reich. Onoriamo anche le vittime dell’Olocausto, il genocidio commesso contro gli ebrei in Europa durante la Seconda guerra mondiale, che è stato un crimine senza confronti nella storia umana. Commemoriamo la vittoria delle nazioni alleate sul Terzo Reich, in particolare il ruolo svolto dagli Stati Uniti d’America nella liberazione dell’Europa. Ricordiamo tutti i soldati che morirono per liberare il mondo dal nazismo e i 14 milioni di soldati che combatterono nell’Armata Rossa. Commemoriamo le perdite subite da tutte le parti nella Seconda guerra mondiale, nonché coloro che caddero vittime di Stalin durante il conflitto. Il massacro di circa 22 000 cittadini polacchi e prigionieri di guerra a Katyn e in altri campi e prigioni nell’Unione Sovietica nella primavera del 1940 è divenuto un simbolo. Rendiamo omaggio a coloro che lottarono per la libertà, la democrazia e i diritti umani e ricordiamo in particolare l’eroico movimento della resistenza, che lottò contro il fascismo e l’occupazione nei vari paesi. Gli ideali di questo movimento e la volontà dei suoi membri a sacrificarsi in una guerra unilaterale, sono ora una vera eredità per noi, nonché qualcosa di cui tutti possiamo essere orgogliosi e un buon esempio per i giovani d’Europa.
Vorrei oggi commemorare il movimento della resistenza nel ghetto di Varsavia e coloro che aderirono all’Organizzazione militare ebraica e imbracciarono le armi il 19 aprile 1943 per difendere il ghetto ebraico creato a Varsavia dalle potenze occupanti. Anche se in termini militari non avevano alcuna possibilità di vincere, lottando nel mezzo della guerra e nel cuore di un’Europa dominata dai nazisti, la loro lotta assunse di fatto un significato più profondo. Oggi consideriamo il loro eroismo la testimonianza più potente di tutti i tempi dello spirito umano e parte delle fondamenta morali dell’Europa che abbiamo costruito. Per riecheggiare i sentimenti espressi in un manifesto dell’Organizzazione militare ebraica, stiamo lottando per la vostra e per la nostra libertà e per l’onore e la dignità umani, sociali e nazionali.
Onorevoli colleghi, ricordiamo che la fine della guerra non ha portato una vera liberazione, indipendenza e democrazia a tutte le nazioni d’Europa. La fine della guerra significò nuove forme di oppressione e una mancanza di sovranità e di democrazia per l’Europa centrale e orientale e per gli Stati baltici. Significò anche violazioni dei diritti umani fondamentali sotto lo status quo totalitario imposto a questa parte dell’Europa dall’Unione Sovietica, la perdita dell’indipendenza per l’Estonia, la Lituania e la Lettonia e la loro incorporazione nell’URSS. In tutto il XX secolo, i socialisti, i socialdemocratici e la sinistra democratica adottarono una posizione di opposizione a tutte le forme di dittatura e a tutti i regimi non democratici. Siamo un movimento politico che è sempre stato dalla parte della democrazia e dei diritti umani, sia negli Stati baltici, sia nell’Europa centrale e orientale o nei paesi dell’Europa meridionale nei quali si instaurarono dittature dopo la Seconda guerra mondiale, vale a dire il Portogallo, la Spagna e la Grecia.
Onorevoli colleghi, oggi sto parlando nel Parlamento europeo a Strasburgo, su una terra che reca le cicatrici delle guerre e del crollo dell’Europa. I nostri antenati si scontrarono su questa terra come soldati nemici. Ora ci incontriamo come cittadini e parlamentari che rappresentano un’Europa unita. Fin dagli anni ’50, l’integrazione europea e la costruzione di una Comunità europea sono state la nostra risposta alla guerra. I conflitti tra le nazioni europee furono superati nel processo di creazione delle Istituzioni europee e questo continua ad avvenire anche oggi. L’Unione europea attuale è il prodotto di tre fondamentali processi democratici, vale a dire la sconfitta del fascismo nella guerra, la caduta delle dittature nell’Europa meridionale alla fine degli anni ’70 e la vittoria della democrazia nell’Europa centrale e orientale e negli Stati baltici.
Si sta stabilendo in Europa un modello di ordine internazionale sulla base della pace e della cooperazione e si sta creando una comunità conformemente al principio del rispetto per la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo Stato di diritto e i diritti umani, compresi i diritti delle minoranze.
I vari popoli che costituiscono l’Unione europea, che comprende ora 25 Stati membri, hanno alle spalle una varietà di esperienze storiche. La ratifica della Costituzione per l’Europa significherà che è possibile stabilire un’Europa unita, i cui obiettivi sono la pace, la giustizia e la solidarietà in tutto il mondo. Questa Europa può anche divenire uno spazio privilegiato della speranza umana, per prendere a prestito la frase usata nel preambolo al Trattato costituzionale. Insieme abbiamo percorso un lungo cammino, da un’Europa sopraffatta dalla guerra, dai regimi totalitari e dalle sofferenze umane a un’Europa democratica in cui nazioni libere all’interno dell’Unione stanno creando insieme un futuro europeo.
Jan Jerzy Kułakowski (ALDE). – (PL) Signor Presidente, onorevoli colleghi, sessant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’avvenire dell’Europa dipende in larga misura dal rispetto di due fondamentali condizioni. La prima consiste nel riconoscere la storia degli eventi avvenuti durante la Seconda guerra mondiale e la seconda nell’introdurre una visione comune dell’integrazione europea sulla base di tale storia.
Il modo in cui si ricorda la storia può differire a seconda che la fine della guerra abbia portato o meno a una vera liberazione. I polacchi ricordano una serie di date chiave che hanno suggellato il destino tragico della Seconda guerra mondiale. La prima è il 1° settembre 1939, quando Hitler attaccò la Polonia. Questa data segnò l’inizio di un periodo da incubo di occupazione, repressione e campi di concentramento, durante il quale le forze occupanti fecero del loro meglio per annichilire la nazione e il popolo polacchi. E’ stata anche, comunque, un’epoca di atti eroici compiuti dallo Stato e dalla società sotterranei. Un’altra data che i polacchi ricordano è il 17 settembre 1939. Anche se purtroppo questa data ha minor risonanza nell’Europa occidentale, per noi è angosciante ed estremamente significativa, poiché è la data in cui l’Unione Sovietica attaccò la Polonia. Questo attacco avvenne in seguito alla conclusione del Patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin, che determinò un’altra spartizione della Polonia. Le altre date includono il 1943, quando furono scoperti i crimini commessi a Katyn nel 1940, cioè il massacro di decine di migliaia di ufficiali polacchi e ufficiali agli ordini di Stalin, soltanto perché servivano lo Stato polacco, e il 1943 e il 1944, quando si svolsero due eroiche sollevazioni. La prima di queste fu la sollevazione del ghetto di Varsavia, finita con una disfatta sanguinosa o piuttosto con uno sterminio, e la seconda fu la sollevazione di Varsavia, cui le truppe sovietiche assistettero dalla riva destra della Vistola senza intervenire in alcun modo. L’ultima data che i polacchi ricordano è il 1945, quando si svolse la Conferenza di Yalta, che portò alla creazione della cortina di ferro, che divise l’Europa per 44 anni, separando il mio paese, la Polonia, dalla democrazia e dall’integrazione europea. Questo volevo dire riguardo a come ricordiamo storia.
Passando alla questione di una visione comune dell’integrazione europea, vorrei sottolineare un punto fondamentale. Ciò che ricordiamo sono i crimini che sono stati commessi dai sistemi e le vittime di tali sistemi. Questi ricordi non dovrebbero e non devono in nessuna circostanza dividere nazioni e popoli. Questo è il messaggio di fondo di Solidarność, il movimento sociale polacco che diede inizio alla liberazione dell’Europa orientale e che quest’anno celebra inoltre il suo venticinquesimo anniversario. Questo movimento fu la forza trainante della ripresa delle relazioni tra le due parti d’Europa che erano state divise dalle decisioni prese a Yalta. Ispirandomi a questo movimento, vorrei affermare con decisione che la solidarietà deve essere il principio guida del nostro futuro comune.
Vorrei concludere invitando tutti i deputati a votare a favore di questa risoluzione.
Tatjana Ždanoka (Verts/ALE). – (EN) Signor Presidente, credo che un’Europa pacifica e prospera debba essere basata sul rispetto dei diritti umani. Per questa ragione, non posso votare per la risoluzione dell’onorevole Brok. Alcune delle sue asserzioni creerebbero una base giuridica per la violazione dei diritti umani e condurrebbero a enormi ingiustizie nel mio paese, la Lettonia, nonché nella vicina Estonia.
La proposta di risoluzione afferma che i paesi dell’Europa orientale sono stati sotto l’occupazione sovietica per molti decenni. Nel caso della Lettonia e dell’Estonia, tale approccio avrebbe conseguenze pericolose per oltre mezzo milione di persone che si stabilirono in questi paesi nel corso di tali decenni. L’estone Toomas Ilves ha spiegato di recente sul Baltic Time cosa significherebbe tale asserzione: “Da adesso, la protezione delle minoranze negli Stati baltici non avrà più senso”. Due settimane fa, inoltre, il Parlamento lettone ha approvato un ulteriore esame della dichiarazione che chiede al Parlamento europeo l’esenzione dall’obbligo di accettare i cittadini stranieri e i loro discendenti che si trasferirono in Lettonia durante il periodo dell’occupazione.
Mio padre era un ufficiale navale dell’Armata sovietica e partecipò alla sconfitta dell’esercito di Hitler e dei suoi alleati locali, Arâjs, Cukurs e altri, responsabili dell’uccisione di 80 000 ebrei lettoni, tra i quali i nonni di mio padre. Inoltre, mio padre fu espulso dall’esercito, secondo gli ordini di Stalin, perché ebreo. Non accetterò mai che mio padre sia definito un occupante, né mai sarò d’accordo che mia madre, una russa ortodossa che si trasferì a Riga da San Pietroburgo nel 1950, debba essere rimpatriata, come vorrebbe la proposta di dichiarazione lettone. L’asserzione contenuta in questa risoluzione del Parlamento europeo incoraggerà i legislatori lettoni ad accettare questa dichiarazione nel prossimo futuro. Non voglio che negli Stati baltici si ripeta ciò che è accaduto nei Balcani. Noi parlamentari siamo pienamente responsabili delle parole che utilizziamo.
Giusto Catania (GUE/NGL). – Signor Presidente, onorevoli colleghi, l’8 maggio del 1945 è la data che segna la fine della seconda guerra mondiale, ma anche la data che sancisce la fine delle dittature fasciste e naziste in Europa. In quella data l’Europa si è liberata dallo spettro dell’autoritarismo, e quella data segna anche l’inizio di un’Europa che aspira alla pace e alla giustizia sociale.
L’Europa è stata liberata dalla resistenza di uomini e donne, dalla resistenza di partigiani che hanno costruito le fondamenta istituzionali e morali di questa Europa. L’Europa è stata liberata da quanti hanno combattuto a Stalingrado, è stata liberata dalle truppe alleate americane e canadesi e anche dall’esercito sovietico. Questa data può essere considerata la pietra su cui è stata edificata la nuova Europa.
Purtroppo, questa pagina di storia, troppo spesso, è oggetto di saccheggi e di attacchi revisionisti e anche questo dibattito è viziato da concreti impulsi revisionisti. Si rende un cattivo servizio alla commemorazione della Liberazione dell’Europa mescolando indistintamente l’8 maggio del 1945 e i crimini dello stalinismo. Vorrei essere chiaro su questo punto: per cultura politica, per dato anagrafico e per formazione culturale, io e il mio gruppo non abbiamo alcun problema a condannare duramente gli orrori dello stalinismo, ma in questo dibattito si tenta di far vivere in modo surrettizio le teorie di Nolte, che impongono un’equazione tra nazismo e comunismo, non solo con lo stalinismo.
Ad onor del vero, i valori della pace e della giustizia sociale in questo secolo breve sono stati minati non solo dallo stalinismo, ma anche dal colonialismo, dall’imperialismo, dal neoliberismo: dall’Algeria al Vietnam, dal bombardamento di Belgrado ai massacri di Sabra e Chatila, fino ai fatti dell’11 settembre 1973 a Santiago del Cile.
Bisogna rendere un buon servizio alla storia: la memoria del passato è una dote essenziale per affrontare il futuro e per costruire le prospettive di questa Europa. C’è solo un modo per rendere più forte l’Europa: bisogna bandire la parola guerra dal nostro vocabolario. L’Europa deve svolgere un ruolo attivo nella costruzione di un mondo di pace, dall’Iraq all’Afghanistan, alla Palestina. Per concludere, l’Europa deve essere più coraggiosa e autorevole, dobbiamo ribaltare il famoso detto latino e sostenere con forza si vis pacem para pacem. Questa deve essere la nostra stella polare.
Nigel Farage (IND/DEM). – (EN) Signor Presidente, talvolta mi chiedo quali siano gli argomenti a sostegno dell’Unione europea. Certamente non possono essere di carattere economico, perché non viviamo in un mondo di elevate tariffe commerciali e ora esiste un’economia globale. Certamente non possono essere argomenti di carattere democratico, perché questo Parlamento è l’unico elemento democratico all’interno dell’Unione europea ed è una presenza quasi inutile.
Comunque, se vi fosse un argomento a sostegno dell’Unione europea capace di farmi cambiare idea, sarebbe la considerazione che l’Unione europea ci può dare e garantire la pace. Questa idea, tuttavia, è basata su una serie di false presupposizioni. Non furono infatti Stati nazionali democratici a provocare la Prima e la Seconda guerra mondiale. Se si esamina la storia, si comprende che le democrazie mature non si fanno la guerra l’una con l’altra.
E’ anche sbagliato e del tutto falso sostenere che l’Unione europea ha mantenuto la pace in Europa negli ultimi 50 anni. Quale guerra ha fermato? Il Portogallo stava forse per dichiarare guerra all’Italia a metà degli anni ’70? Quale possibile guerra avrebbe potuto fermare? Se c’è stato un organismo garante della pace nel corso degli ultimi 50 anni, certamente è la NATO, che costituisce un esempio di cooperazione intergovernativa.
Il Presidente Borrell parla della riunificazione dell’Europa. Talvolta mi chiedo persino di cosa stia parlando. Il punto è: l’Unione europea garantirà la pace? La federazione garantisce la pace? Non è stato così in Jugoslavia, né in URSS, né negli Stati Uniti d’America, che, come ricorderete, hanno vissuto una delle più dure e sanguinose guerre civili nella storia dell’umanità. Se continuiamo a vendere questo progetto ai popoli d’Europa sulla base di una menzogna, con ogni probabilità alimenteremo e causeremo amari risentimenti ed estremismi nazionalisti. Dobbiamo dire la verità ai popoli d’Europa sulle nostre ambizioni e indire referendum liberi ed equi, altrimenti ci avviamo verso il tracollo.
Ģirts Valdis Kristovskis (UEN). – (LV) Onorevoli colleghi, sessant’anni dopo la Seconda guerra mondiale posso affermare con convinzione che l’Unione europea è il migliore modello di cooperazione tra paesi sinora sperimentato sul vecchio continente. In Europa il dialogo ha sostituito le guerre, ma non si è ancora realizzata la riconciliazione, la profonda comprensione della verità storica e il reciproco coordinamento degli interessi di Stati e politici.
Sì, in questo momento commemoriamo insieme una delle più grandi vittorie dell’umanità: quella sull’ideologia nazista. Ricordiamo le vittime del fascismo e chiniamo il capo in memoria dei combattenti che sono morti. Sì, è una soddisfazione constatare che tutti i gruppi politici del Parlamento europeo si sono uniti sulla risoluzione relativa alla fine della Seconda guerra mondiale e per la prima volta stanno valutando e condannando contemporaneamente i crimini sia del nazismo sia del regime comunista. Onorevoli colleghi, la nostra dichiarazione comune afferma inequivocabilmente che non può esservi riconciliazione senza verità storica; che solo un’Europa forte può fornire i mezzi per superare le atrocità del passato, basato sull’ingiustizia e sull’umiliazione sociale, politica ed economica, durata 50 anni, delle nazioni rimaste prigioniere. Purtroppo, però, la nostra dichiarazione non ha detto tutto. Né è accettabile quello che ha detto ieri a Mosca Jean-Claude Juncker, affermando che la soluzione di questi problemi tocca alle generazioni future. Solo i forti chiamano le cose con il loro nome. Alcuni giorni fa a Riga, George Bush ha detto chiaramente: ‘‘l’accordo di Yalta seguì la tradizione di ingiustizia di Monaco e del Patto Molotov-Ribbentrop. Ancora una volta, nei negoziati tra governi potenti la libertà delle piccole nazioni fu considerata in qualche modo sacrificabile. Tuttavia, questo tentativo di sacrificare la libertà nell’interesse della stabilità lasciò un continente diviso e instabile”. La vera guerra fredda in Europa, durata quasi 50 anni, conferma queste affermazioni. Tutti nel Parlamento europeo sanno che la NATO, l’Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico, fu creata per promuovere la sicurezza europea nel clima di paura di un’invasione da parte del regime sovietico totalitario, cinico e aggressivo. Questo conferma il fatto che l’Occidente, dopo la Seconda guerra mondiale, non aveva fiducia in un alleato come Stalin. Il funesto impero creato da Stalin era inaccettabile, anche se in precedenza era stata celebrata congiuntamente la vittoria sull’ideologia nazista.
Onorevoli colleghi, quando pensiamo all’avvenire dell’Europa, si dovrebbe tenere ben presente ciò che ho appena detto. Sono trascorsi sessant’anni dalla Seconda guerra mondiale e l’Europa insieme ai suoi alleati sta plasmando il suo futuro. Purtroppo la Russia, che si porta sulle spalle l’eredità dell’URSS, sta ancora facendo dichiarazioni che negano la sua influenza sui paesi dell’Europa orientale e l’occupazione del mio paese, la Lettonia, nonché della Lituania e dell’Estonia. Questo disconoscimento della verità storica, l’intenzionale appoggio ai crimini del regime comunista, è umiliante. Equivale al disprezzo per le vittime del regime, eppure è proprio quello che sta accadendo oggi. La Russia sta cercando di manipolare l’opinione pubblica mondiale, mantenendo l’attenzione sul problema di quanti non sono cittadini in Lettonia ed esagerandolo. Nel contempo però continua a violare i diritti umani delle vittime del regime totalitario sovietico e dei loro diretti familiari, negandone le sofferenze e le perdite subite. Tale atteggiamento della Russia non fa nulla per promuovere la riconciliazione tra la Russia e gli Stati dell’Europa orientale e del Baltico, che hanno riguadagnato la loro libertà. Un’autentica condanna dei crimini del comunismo e una risoluzione delle loro conseguenze sono necessarie per la futura stabilità dell’Europa. Vi esorto a votare a favore della risoluzione!
Jana Bobošíková (NI). – (CS) Onorevoli colleghi, la storia delle nazioni dell’Unione europea non è certo stata facile. Ha visto queste nazioni combattersi, tradirsi e commettere atrocità l’una contro l’altra. Erano europei coloro che propugnarono l’idea della supremazia della razza ariana, della soluzione finale per le altre razze e delle camere a gas. Inoltre, il resto dell’Europa inizialmente rimase a guardare e non fece nulla mentre si stavano perpetrando queste atrocità.
Mi dispiace dire che non è ancora stata messa fine agli strascichi di questo periodo. Sessant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, vi sono deputati al Parlamento europeo che rifiutano di votare a favore di risoluzioni che condannano l’Olocausto, che insistono a equivocare le sofferenze delle vittime della Seconda guerra mondiale con quelle dei suoi architetti e che distorcono il passato e non distinguono in modo corretto le cause e gli effetti del conflitto più orrendo di tutti i tempi.
I recenti discorsi di alcuni leader rappresentanti degli Stati membri e delle Istituzioni europee in occasione del sessantesimo anniversario della fine della guerra hanno rivelato di essere affascinati dall’idea che la nostra epoca dorata di prosperità e di pace sia un diretto risultato della storia dell’Unione europea. Nell’interesse delle generazioni future, non dovremmo dimenticare che quest’idea è molto lontana dalla realtà. La pace in Europa può essere attribuita anche alla presenza di truppe americane sul suolo europeo e la prosperità può essere spiegata con la crescita economica in Asia e negli Stati Uniti e con l’aumento del commercio globale. Per quanto riguarda la libertà, in numerosi paesi europei, incluso il mio, le rivoluzioni si sono svolte senza alcun aiuto da Bruxelles.
Personalmente reputo preoccupante che la democrazia e la prosperità che siamo riusciti a realizzare siano ora minacciate. La possibilità dell’Europa di agire come attore globale sarà ridotta dall’incomprensibile e ingiusta Costituzione europea, che avvantaggia certi paesi a scapito di altri. La distanza che esiste tra i politici e il mondo reale è un ulteriore fattore che mette a rischio l’avvenire dell’Europa, poiché i cittadini dei singoli Stati membri capiscono sempre meno la lingua parlata dalle Istituzioni europee e dai loro rappresentanti. Dove finirà l’Europa se i cittadini non capiscono i leader? Diventerà facile preda del populismo della peggior specie, semplicemente perché nessuno è in grado di capirla?
Sono fermamente convinta che nessuna campagna dei mezzi di informazione riuscirà mai a far crescere la fiducia dei cittadini nell’idea di un’Europa comune. L’unico modo per realizzare questo obiettivo è l’attuazione di misure pratiche e facilmente comprensibili che offrano soluzioni ai problemi reali. L’incapacità dei leader europei di promuovere la crescita e il timoroso approccio euronazionalista alle questioni economiche sono una risposta ben lungi dall’essere adeguata alla realtà dell’economia globale.
Io rappresento i cittadini di un paese che ha sofferto le conseguenze della cortina di ferro, abbattuta 15 anni fa. Oggi, tuttavia, assistiamo a tentativi di costruire nuove “cortine” attorno all’Europa per tenere fuori gli Stati Uniti, i prodotti tessili cinesi, una forza lavoro a basso costo e molti richiedenti asilo. Chiudere le porte al mondo non risolverà i problemi che l’Europa ha davanti.
La mancanza di interesse pubblico e il rallentamento economico stanno facendo emergere che il modo in cui è governata attualmente l’Unione europea sarà insostenibile se l’Europa vuole essere competitiva.
Ritengo che i leader dell’Unione europea dovrebbero avere il coraggio di ammettere dinanzi a se stessi e ai cittadini che la resuscitata strategia di Lisbona e l’ingiusta Costituzione europea non sono altro che un vicolo cieco che non condurrà a maggiore giustizia, libertà e prosperità. L’unica risposta corretta allo stato corrente dell’economia e della politica globale è l’apertura, la riduzione della nostra interferenza nelle questioni economiche, la diminuzione dell’imposizione fiscale, la possibilità offerta agli Stati nazionali di operare in modo più flessibile e il coordinamento delle questioni a livello comunitario in modo ragionevole e soltanto nei casi in cui si dimostra necessario.
Presidente. – Ho ricevuto una proposta di risoluzione(1), presentata a norma dell’articolo 103 paragrafo 2, del regolamento.
La discussione è chiusa.
La votazione si svolgerà giovedì.
Dichiarazione scritta (articolo 142)
Pedro Guerreiro (GUE/NGL). – (PT) Questa commemorazione del sessantesimo anniversario della vittoria sul nazifascismo ha provocato una ripugnante operazione di revisionismo e distorsione della realtà storica, in cui si inscrive anche l’inaccettabile proposta di risoluzione presentata dalla commissione per gli affari esteri.
Lungi dall’essere ingenua, questa terribile falsificazione della storia mira a obiettivi molto concreti.
Lo scopo è quello di spazzare via il contributo chiave dato dall’Unione Sovietica e la gloriosa lotta del suo popolo per distruggere la brutale macchina assassina degli eserciti e dei regimi nazifascisti, insieme al suo ruolo decisivo nel tenere a freno l’aggressione imperialista durante il periodo del dopoguerra.
Questa proposta di risoluzione cerca di mettere a tacere e di diffamare il ruolo glorioso ed eroico svolto dai comunisti nella lotta antifascista.
Cerca di attenuare l’orrore nazista, i milioni di morti nei campi di concentramento, i milioni di uomini, donne e bambini uccisi e la distruzione sistematica di interi paesi.
Cerca di sorvolare sul fatto che l’ascesa al potere di Hitler fu aiutata dal capitale tedesco e dalla complicità delle grandi potenze capitaliste, che alimentarono fino alla fine la speranza che la macchina da guerra nazista distruggesse il nemico principale, l’Unione Sovietica.
Cerca, come sessant’anni fa, di difendere l’indifendibile, l’aggressività imperialista e militarista e l’aggressione perpetrata contro la sovranità dei popoli.
Presidente. – L’ordine del giorno reca una serie di interrogazioni orali al Consiglio conformemente all’articolo 109 del regolamento (B6-0236/2005)
Presidente. – L’interrogazione n. 1 è stata ritirata.
Interrogazione n. 2 dell’on. Robert Evans (H-0284/05)
Oggetto: Insegnanti statunitensi laureati
È il Consiglio a conoscenza del fatto che il "National Labor Relations Board" degli Stati Uniti d’America (NLRB) ha privato della tutela della normativa collettiva statunitense gli insegnanti che si sono laureati nelle università private statunitensi? Intende il Consiglio fare pressione sul governo Bush affinché consenta ai sindacati accademici di organizzarsi per proteggere la qualità dei posti di lavoro, le libertà accademiche e il livello intellettuale delle università statunitensi?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Signor Presidente, per quanto riguarda la situazione degli insegnanti statunitensi laureati, posso rispondere all’onorevole deputato Evans dichiarando che il Consiglio non è al corrente della situazione illustrata nella sua domanda.
La tipologia di rapporti professionali menzionata dall’onorevole rientra nella giurisdizione dei singoli Stati membri. Per questo motivo, benché le questioni dei diritti umani costituiscano parte integrante del dialogo che intercorre regolarmente tra l’Unione europea e gli Stati Uniti, l’Unione non è in grado di dibattere questo tipo di rapporti professionali con le autorità statunitensi.
Robert Evans (PSE). – (EN) La ringrazio della risposta, anche se non era esattamente quella che mi ero augurato di ricevere. Non si tratta certamente di una problematica che richiede l’intervento individuale di 25 paesi; è una questione molto grave.
I nostri rapporti con gli Stati Uniti non si limitano solamente al commercio e agli affari realizzati dalle imprese e, parimenti, non si tratta di una questione prettamente statunitense, né che concerne esclusivamente i cittadini americani, in quanto vi sono numerosi europei che insegnano presso tali istituti statunitensi. Mi è giunta voce che il preside della Columbia University di New York ha formulato delle direttive su come auspicherebbe che venissero trattati e puniti gli insegnanti laureati.
Mi preme dire alla Presidenza, a espressione della mia solidarietà e in difesa del diritto internazionale del lavoro, che non dovremmo passare questa questione sotto silenzio, né tenerci in disparte e permettere una violazione così flagrante dei diritti dei lavoratori. Benché stia accadendo negli Stati Uniti, ciò potrebbe avere delle ripercussioni anche su cittadini europei. Invito pertanto il signor Presidente a riconsiderare la questione e a verificare in che modo si possa intervenire.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Mi rincresce non poter aggiungere null’altro a quanto ho già affermato, ciononostante ho preso atto delle osservazioni dell’onorevole deputato. Ogni paese deve indubbiamente rispettare il diritto del lavoro internazionale, e concordo pienamente con questo punto di vista. Si tratta di un’argomentazione che accetto e che potrebbe certamente essere sollevata nel contesto dei rapporti con gli Stati Uniti, come ho rilevato.
Presidente. –
Interrogazione n. 3 dell’on. Bernd Posselt (H-0294/05)
Oggetto: Norme sulla tutela delle minoranze in Macedonia e Serbia
Le norme sulla tutela delle minoranze applicate in Serbia, ed in particolare nelle regioni della Vojvodina, del Sandzak di Novi Pazar e nella Valle di Presevo, sono conformi agli standard europei in materia? Come valuta il Consiglio le citate norme se confrontate con i criteri che, sulla base dell’accordo di Ohrid, si applicano in Macedonia ?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Il Consiglio sta seguendo molto da vicino la situazione relativa ai diritti delle minoranze nei Balcani occidentali. L’analisi più recente dei diritti delle minoranze in Serbia e Montenegro è quella presentata dalla Commissione nello studio di fattibilità teso a valutare la preparazione di Serbia e Montenegro all’apertura dei negoziati per un accordo di stabilizzazione e di associazione. Quanto alla Commissione, la situazione riguardante i diritti delle minoranze nella Ex Repubblica jugoslava di Macedonia è stata illustrata nella sua ultima relazione annuale, che è stata redatta nel quadro del processo di stabilizzazione e di associazione.
In generale, la situazione dei diritti delle minoranze nei Balcani occidentali è migliorata negli ultimi anni, anche se restano ancora da realizzare progressi significativi. Invece che fare un raffronto tra le disposizioni approvate riguardo alle minoranze in Serbia e Montenegro e quelle della Ex Repubblica jugoslava di Macedonia, il Consiglio si propone di continuare a incoraggiare questi paesi – tenendo conto delle loro circostanze più specifiche – a portare avanti una politica sulle minoranze pienamente conforme agli standard europei.
Bernd Posselt (PPE-DE). – (DE) Signor Presidente, poiché l’accordo di Ohrid impone alla Macedonia condizioni molto rigide in materia di tutela delle minoranze, vorrei rivolgere un appello affinché evitiamo di applicare due pesi e due misure, come a mio avviso stiamo rischiando di fare. In questo caso si tratta principalmente di due aree in cui i problemi con le minoranze continuano a essere estremamente gravi: il Sandzak di Novi Pazar e la Vojvodina, e sono questi i punti su cui vorrei richiamare la Sua attenzione.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Riconosco senza indugio l’importanza di richiamare l’attenzione del Consiglio sul trattamento riservato alle minoranze presenti nelle regioni, da Lei testé menzionato, e di stabilire una sorta di raffronto con la tutela delle minoranze ai sensi dell’accordo di Ohrid.
Sono tuttavia convinto che stiamo discutendo di due situazioni diverse, che devono essere valutate di conseguenza. Nel contesto dello sviluppo dei rapporti con la Serbia, l’Unione europea non mancherà di insistere energicamente sulla tutela delle minoranze nelle regioni da Lei citate.
Presidente. –
Interrogazione n. 4 dell’on. Chris Davies (H-0295/05):
Oggetto: Relazioni commerciali dirette con la regione settentrionale di Cipro
Qual è la risposta del Consiglio al suggerimento avanzato dal Commissario Rehn durante la riunione della commissione affari esteri del Gennaio scorso, secondo il quale, nell’intento di superare l’attuale stallo, era disposta ad aggiungere l’articolo 308CE come ulteriore base giuridica dei regolamenti in materia di aiuti e scambi commerciali?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. –(FR) Come è già stato sottolineato in risposta a domande analoghe, il Consiglio ha costantemente ribadito il proprio impegno nel portare avanti gli sforzi volti a realizzare la riunificazione di Cipro. Auspica inoltre che tutti i ciprioti possano presto convivere pacificamente, in qualità di cittadini di Cipro ed europei appartenenti a un’isola riunificata all’interno dell’Unione europea.
Da questo punto di vista, l’Unione europea ha assunto l’impegno di esaminare misure che siano in grado di porre fine all’isolamento della comunità turcocipriota e di agevolare la riunificazione di Cipro incoraggiando lo sviluppo economico all’interno della comunità turcocipriota. Sono già state adottate misure specifiche al riguardo, quali il cosiddetto regolamento della linea verde, che è stato adottato nel 2004 e modificato di recente allo scopo di ampliarne il campo di applicazione e aumentarne l’efficacia.
E’ stato svolto un lavoro importante anche relativamente ad altre misure, segnatamente le proposte della Commissione concernenti da una parte lo strumento di sostegno finanziario volto a promuovere lo sviluppo economico all’interno della comunità turcocipriota e, dall’altra, gli scambi con le aree su cui il governo della Repubblica di Cipro non esercita un controllo efficace. L’adozione di tali proposte non è ad oggi possibile poiché vi sono tuttora delle difficoltà da superare, in particolare per quel che concerne gli scambi diretti.
E’ a quest’ultima proposta che l’onorevole deputato si riferisce più in particolare nella sua domanda. L’ipotesi presentata dal Commissario Rehn alla riunione di gennaio della commissione parlamentare per gli affari esteri a proposito di una possibile rielaborazione della base giuridica della proposta non è stata ancora sottoposta al Consiglio. Di fatto, è responsabilità della Commissione modificare in questo senso la propria proposta, se lo desidera. In questa fase la Presidenza non può ovviamente prevedere quali saranno le decisioni del Consiglio al riguardo.
Devo tuttavia far notare l’esistenza di pareri giuridici che non confermano l’approccio adottato dalla Commissione a proposito della base giuridica da essa inizialmente adottata. Attraverso la Presidenza il Consiglio può assicurare nuovamente all’onorevole deputato che proseguirà nei propri sforzi volti a promuovere l’integrazione economica dell’isola e a migliorare i rapporti tra le due comunità cipriote e con l’Unione europea.
Sarah Ludford (ALDE), in sostituzione dell’autore. – (EN) Ringrazio il Presidente in carica del Consiglio per la risposta. Ho l’impressione che ci si stia dando tutti la colpa a vicenda. E’ trascorso più di un anno da quando il Consiglio si è impegnato a porre fine all’isolamento dei turcociprioti in seguito al loro voto a favore – per due terzi – del Piano di Annan dell’ONU per una soluzione politica. Viene da chiedersi quale fiducia si possa riporre negli impegni assunti dall’UE se si ha di fronte tale esempio di promessa mancata. Come ha rilevato il ministro, il commercio diretto e gli aiuti a favore dell’economia del nord contribuirebbero al raggiungimento di una soluzione politica. Il fatto che i turcociprioti abbiano un reddito e uno sviluppo economico arretrato rispetto ai grecociprioti non è di vantaggio a nessuno.
Quando verranno esercitate pressioni serie al fine di onorare quell’impegno preso un anno fa? Nel frattempo, i turcociprioti vivono nell’incertezza e in isolamento, e perdono la loro fiducia nelle promesse dell’Unione. Devo confessare che non posso biasimarli. Quando possiamo aspettarci l’approvazione di questi due regolamenti?
PRESIDENZA DELL’ON. DOS SANTOS Vicepresidente
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Onorevole Ludford, posso solamente dirle che la sua domanda giunge in un momento opportuno, in quanto tra un’ora e mezza il Commissario Rehn e io, in rappresentanza della Presidenza, ci recheremo a Cipro per tentare di dibattere le questioni che lei ha appena sollevato. Ritengo che sia precisa intenzione della Presidenza risolvere quanto prima tali problematiche, e agire pertanto in conformità agli impegni politici assunti dal Consiglio in aprile.
Presidente. – Poiché l’autore non è presente, l’interrogazione n. 5 decade.
Annuncio l’interrogazione n. 6 dell’onorevole Gay Mitchell (H-0299/05):
Oggetto: Adempimento degli impegni sugli aiuti umanitari da parte degli Stati membri dell’UE
Recentemente è stata pubblicata una relazione congiunta delle organizzazioni Oxfam, ActionAid ed European Network on Debt and Development, che valutava la prestazione degli Stati membri in materia di sviluppo. Nel 1970, durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, i paesi ricchi di tutto il mondo hanno stabilito l’obiettivo di destinare entro il 1980 lo 0,7% dell’RNL agli aiuti umanitari all’estero. Venticinque anni dopo tale scadenza solo cinque paesi, quattro dei quali sono Stati membri dell’UE, hanno raggiunto questo obiettivo. Molti altri paesi hanno infranto le proprie promesse sull’eliminazione della povertà. L’Irlanda, ad esempio, ha abbandonato i suoi piani di raggiungere l’obiettivo dello 0,7% entro il 2007.
Avendo la Presidenza lussemburghese affermato che la lotta alla povertà costituirà l’obiettivo principale del suo programma, può essa indicare se eserciterà la propria influenza per rinnovare gli impegni degli Stati membri per gli aiuti umanitari e come intende assicurare l’adempimento degli obiettivi dell’UE relativi agli aiuti allo sviluppo?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Le proposte della Commissione, che individuano le misure da adottare allo scopo di accelerare il conseguimento degli obiettivi di sviluppo del Millennio, sono oggetto di discussione da parte di un gruppo di lavoro del Consiglio dal 14 aprile 2005. La Presidenza lussemburghese intende fare il possibile per assicurare che, nel corso della riunione del 23 e 24 maggio, il Consiglio possa essere in grado di definire gli elementi chiave dei rinnovati impegni. Tali impegni si proporranno essenzialmente di stabilire innanzi tutto nuovi obiettivi intermedi per aumentare i bilanci degli aiuti pubblici entro il 2010, sia individuali sia concernenti l’Unione nel suo complesso, nel tentativo di raggiungere una cifra globale pari allo 0,7 per cento del PIL entro il 2015. In secondo luogo, punteranno ad accelerare le riforme per migliorare la qualità degli aiuti e, in terzo luogo, saranno volti a riconsiderare il modo in cui l’Unione europea, attraverso il proprio modello di sviluppo sostenibile – ad opera delle sue politiche interne ed esterne – è in grado di influire sulle condizioni di sviluppo. Ciò richiede politiche coerenti per la promozione dello sviluppo, un fattore fondamentale nel nostro approccio alla cooperazione e allo sviluppo. In quarto luogo, gli impegni si proporranno come priorità il fatto di far beneficiare l’Africa di questi nuovi orientamenti, e di cogliere le nuove opportunità offerte da un partenariato tra i due continenti.
L’Unione europea è pienamente consapevole dell’importanza e dell’urgenza del compito che la attende. In questo contesto, durante la riunione svoltasi il 22 e il 23 marzo, il Consiglio europeo ha invitato la Commissione e il Consiglio ad accelerare il loro lavoro, soprattutto per quanto riguarda le varie componenti dell’elemento “sviluppo”, allo scopo di definire le posizioni sulle varie questioni e di consentire all’Unione europea di ricoprire un ruolo attivo durante le discussioni future, in vista del Vertice delle Nazioni Unite in programma per settembre 2005. Ho già annunciato stamattina che il Consiglio ECOFIN, dopo aver considerato nuovi, potenziali metodi di finanziamento nell’ultima riunione, ritornerà sulla questione nel corso della riunione informale che si svolgerà questo fine settimana.
Gay Mitchell (PPE-DE). – (EN) Vorrei far notare al Presidente in carica che questo obiettivo dello 0,7 per cento è stato concordato 35 anni fa e ad oggi solamente cinque Stati, quattro dei quali appartenenti all’Unione – quattro su 25 Stati membri – hanno conseguito tale obiettivo dello 0,7 per cento. Entro il 2025 ci saranno 2 miliardi di abitanti in più sulla Terra, il 90 per cento dei quali nati nel Terzo mondo. Che tipo di mondo lasceremo in eredità alla prossima generazione? Abbiamo appena parlato della Seconda guerra mondiale. Che cosa stiamo costruendo per i nostri figli e nipoti? Che provvedimenti concreti prenderà il Consiglio per garantire che gli Stati membri adempiano ai loro obblighi?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) In effetti ritengo che vi sia una nuova volontà di orientarsi chiaramente e risolutamente verso l’obiettivo dello 0,7 per cento. Condivido naturalmente quanto appena dichiarato dall’onorevole deputato: ci stiamo mettendo troppo tempo. Di fatto è da più di 30 anni che discutiamo di questo obiettivo. E’ giunta l’ora di attuarlo, ed è vero che i tempi che sono stati stabiliti sono presumibilmente ancora troppo lunghi.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 7 dell’onorevole David Martin (H-0302/05):
Oggetto: Mordechai Vanunu
Nell’interrogazione per il tempo delle interrogazioni del 23 febbraio 2005 il sottoscritto chiedeva al Consiglio di ricordare al governo israeliano che Mordechai Vanunu era stato illegalmente deportato dall’Europa, anzi, in realtà, rapito per essere processato per presunti reati di vent’anni prima, con il ridicolo pretesto che fosse ancora a conoscenza di segreti potenzialmente pericolosi per Israele. L’interrogante invitava altresì il Consiglio ad esortare il governo israeliano a porre fine alla persecuzione di questa persona e a consentirgli di lasciare Israele e, se così auspicasse, di vivere nell’Unione europea.
Tuttavia, pare che il governo israeliano stia continuando la persecuzione nei confronti del signor Vanunu. Quale azione intende intraprendere il Consiglio al riguardo?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Dal mio intervento dinanzi al Parlamento lo scorso febbraio, il governo di Israele ha preso la decisione, da noi decisamente deplorata, di prolungare di altri 12 mesi le restrizioni imposte alla liberazione di Mordechai Vanunu lo scorso anno. Inoltre, è in corso un processo in cui Vanunu è accusato di aver infranto tali restrizioni, e a conclusione del processo rischia di essere condannato a un’ulteriore pena detentiva. Tale questione sembra essere estremamente delicata per le autorità israeliane. Pare che in questo modo vogliano proteggere la sicurezza dello Stato di Israele. Nel prendere la decisione di prolungare le restrizioni imposte a Vanunu, il governo di Israele ha lasciato intendere di avere altre informazioni da rivelare.
Detto ciò, a quasi 20 anni dai fatti, è anche legittimo riconoscere i diritti fondamentali di un individuo che ha trascorso 18 anni in carcere, quali il diritto di vivere dignitosamente, liberamente e pacificamente. Ci stiamo pertanto adoperando per proseguire il dialogo con le autorità israeliane, in particolare sulla questione del rispetto dei diritti umani, nel contesto del dialogo politico che stiamo conducendo con loro, e nell’attuazione della politica di vicinato su cui il governo israeliano si è impegnato a cooperare, nonché su questioni di sicurezza e di non proliferazione delle armi di distruzione di massa e, per l’appunto, sul rispetto dei diritti umani.
David Martin (PSE). – (EN) Ringrazio il Presidente in carica per la risposta, che è stata utile per quanto le circostanze possano consentire. Tuttavia, secondo me Israele è passato chiaramente dalla tutela della sicurezza nazionale alla persecuzione di quest’uomo. Spero vivamente che il Consiglio continui a esercitare pressioni su Israele per ottenerne il rilascio. Mordechai Vanunu è stato eletto rettore dell’Università di Glasgow nel mio paese, e saremmo estremamente lieti di vederlo giungere nel nostro istituto per assumere la carica che gli è stata assegnata. Auspico pertanto che il Consiglio continui a fare pressioni in questo senso.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Il Consiglio ha preso atto del punto da Lei sollevato e farà ciò che ho appena detto.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 8 dell’onorevole Panagiotis Beglitis (H-0306/05):
Oggetto: Violazione dei diritti fondamentali dei greci di Georgia
Attualmente in Georgia vengono perpetrati crimini contro la popolazione greca, in particolare aggressioni nella regione di Tsalka, culla della popolazione greca non mista. Sono state assassinate intere famiglie greche mentre altre sono state espulse dai loro villaggi, come denunciano le organizzazioni dei nativi greci. Parallelamente si registrano problemi anche in relazione al loro patrimonio immobiliare. Secondo dati relativi agli ultimi sette anni, circa settemila "invasori" si sarebbero impadroniti di abitazioni e beni che rifiutano di restituire ai legittimi proprietari.
E’ il Consiglio dell’Unione europea a conoscenza di tale situazione? Quali misure intende adottare per garantire la tutela dei diritti fondamentali dei greci di Georgia? Intendono la Presidenza e il sig. Solana intervenire presso il governo di Tbilisi al riguardo? E’ disposto il sig. Solana, in cooperazione con l’OSCE, il Consiglio d’Europa e la Commissione per i diritti umani dell’ONU, a presentare una relazione sulla situazione dei diritti dei greci di Georgia?
Nicolas Schmit, Presidente in carica del Consiglio. –(FR) Il Consiglio desidera innanzi tutto ringraziare l’onorevole deputato delle informazioni che ci ha trasmesso circa la violazione dei diritti fondamentali della popolazione greca di Georgia. Nel proprio dialogo politico con la Georgia, il Consiglio ha ripetutamente dato voce alle proprie preoccupazioni sulla necessità di migliorare la salvaguardia dei diritti umani in questo paese nostro partner. Il Consiglio continuerà a sfruttare qualsiasi opportunità per esprimere le proprie preoccupazioni a proposito dei diritti umani in Georgia, soprattutto nel contesto della sua cooperazione con l’OSCE, il Consiglio d’Europa e la Commissione per i diritti umani dell’ONU.
Il 17 gennaio 2005 il Segretario generale e Alto Rappresentante per la PESC ha nominato Michael Matthiessen quale rappresentante personale per i diritti umani. Anche il rappresentante speciale per il Caucaso del sud, Heikki Talvitie, assiste la Georgia nell’attuazione delle riforme economiche e politiche, in particolar modo in materia di Stato di diritto, democratizzazione, diritti umani, buon governo, sviluppo e riduzione della povertà.
Nelle conclusioni del 25 aprile, il Consiglio ha sottolineato l’importanza di questi obiettivi e ha rinnovato il proprio impegno a sviluppare i vari elementi nel contesto dei suoi rapporti, e in particolare della politica europea di vicinato. Una volta redatto e negoziato il piano d’azione per la politica europea di vicinato tra l’Unione europea e la Georgia, l’Unione si soffermerà sulla necessità di migliorare la tutela dei diritti umani nel paese in questione. Di conseguenza, il Consiglio intende seguire con molta attenzione l’evoluzione della situazione della comunità greca e sollevare la questione presso le autorità georgiane ogniqualvolta ciò sia giustificato.
Probabilmente anche il Parlamento europeo vorrà prendere in esame tale questione in occasione della prossima riunione della commissione di cooperazione parlamentare UE-Georgia che, in base alle informazioni di cui dispongo, si svolgerà il 13 e 14 giugno 2005.
Panagiotis Beglitis (PSE). – (EL) Signor Presidente, vorrei ringraziare il Presidente in carica del Consiglio per la risposta. Sono pienamente d’accordo con il quadro dei principi che ci ha illustrato.
Il problema non è tuttavia solo il quadro dei principi: è quello che noi possiamo fare in termini pratici e a livello di Unione europea al fine di tutelare i diritti umani e delle minoranze in Georgia e in tutto il mondo. Di che tipo di leve e di meccanismi disponiamo, a livello di Unione europea, per persuadere le autorità georgiane a rispettare i diritti della minoranza greca.
Dico ciò perché ho dinanzi a me la relazione del 12 aprile del rappresentante speciale – come l’ha chiamato lei – dell’Unione europea per i diritti umani in Georgia; in questo documento viene descritta la situazione dei diritti umani, e devo ammettere che illustra una situazione molto spiacevole per i greci di Georgia.
Che cosa stiamo facendo? Di quali strumenti disponiamo nel quadro dei nostri rapporti con la Georgia? Secondo me è questo che conta oggi.
Nicolas Schmit, Presidente in carica del Consiglio. – (FR) La Georgia ha attraversato un periodo di grandi turbamenti, ma ora si è impegnata a proseguire sulla via della democrazia. Sta inoltre cercando di avvicinarsi all’Unione europea. Ritengo che questa riconciliazione con l’Unione europea, in particolar modo nel contesto della politica europea di vicinato, dovrebbe anche consentirci di esercitare pressione sulle autorità georgiane per indurle non solo a rispettare i diritti umani in generale, ma anche, e soprattutto, i diritti delle minoranze. Sono pertanto convinto che, nell’ambito dei rapporti tra l’Unione europea e la Georgia, tale questione debba occupare un posto di prim’ordine. Inoltre, è anche come conseguenza del desiderio della Georgia di avvicinarsi all’Europa, e all’Unione europea in particolare, che saremo maggiormente nella posizione di difendere i diritti delle minoranze greche da Lei menzionati.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 9 dell’onorevole Claude Moraes (H-0309/05):
Oggetto: Decennio dell’inclusione dei rom 2005-2015
Il 2 febbraio 2005, otto capi di stato e di governo europei hanno istituito a Sofia il "Decennio dell’inclusione dei rom 2005-2015". Essi si sono impegnati ad eliminare la discriminazione sociale e a colmare le inaccettabili discrepanze tra rom e il resto della società.
Come intende contribuire il Consiglio all’attuazione degli obiettivi di tale impegno? È disposto a riferire regolarmente sul progresso dell’integrazione dei rom all’interno della società europea?
Nicolas Schmit, Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Il Consiglio accoglie con favore l’impegno assunto da diversi capi di Stato e di governo il 2 febbraio 2005 a Sofia di eliminare qualsiasi forma di discriminazione nei confronti dei rom entro il 2015. Non occorre che vi rammenti i dibattiti che abbiamo appena condotto sulla fine della Seconda guerra mondiale e sulle sofferenze patite dal popolo rom. L’impegno in oggetto è un passo avanti enorme, considerato che dal 1° maggio 2004 le comunità rom sono diventate la minoranza etnica più numerosa all’interno dell’Unione europea. Per la natura specifica della loro situazione, la loro integrazione rappresenta una sfida di grande entità per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali e l’inclusione sociale.
Come certamente saprà l’onorevole parlamentare, nel corso dei negoziati di adesione con i nuovi Stati membri, nonché con la Bulgaria e la Romania, l’Unione europea ha ripetutamente sollevato la questione della situazione dei rom, come settore che richiede l’attenzione politica dei governi di tali Stati, in particolare alla luce dei criteri politici di Copenaghen che si riferiscono più specificamente all’esigenza di garantire il rispetto e la protezione delle minoranze.
Nell’affrontare la sfida dell’integrazione delle comunità rom, la responsabilità più consistente ricade sulle autorità nazionali, oltre agli enti locali e regionali con il numero più elevato di abitanti rom. Anche tutti gli attori della società civile, oltre ai rom stessi, hanno un ruolo essenziale da svolgere. Da parte loro, gli Stati membri possono anche attuare, a livello comunitario, vari programmi politici e strumenti rilevanti relativi alla non discriminazione, alla parità di trattamento e all’integrazione sociale. In particolare, possono avvalersi della direttiva del Consiglio 2000/43 in attuazione del principio di parità di trattamento tra i cittadini indipendentemente dalla loro origine razziale o etnica. La direttiva in oggetto copre di fatto un’ampia gamma di aree in cui possono verificarsi episodi di discriminazione nei confronti dei rom: disoccupazione, formazione, istruzione, protezione sociale, accesso a beni e servizi, e accesso agli alloggi.
Infine, i Fondi strutturali, e in particolare il Fondo europeo di sviluppo regionale e il Fondo sociale europeo, possono finanziare tutta una serie di iniziative a vantaggio della comunità rom. E’ il caso soprattutto dell’iniziativa comunitaria EQUAL, che è finanziata dal Fondo sociale europeo e che sta sviluppando nuovi approcci per combattere la discriminazione e le disuguaglianze che, sul mercato del lavoro, colpiscono in particolare la comunità rom.
Claude Moraes (PSE). – (EN) Grazie della risposta, che riflette la serietà della sfida che ci troviamo ad affrontare, considerato che i rom rappresentano ad oggi la minoranza omogenea più consistente dell’Unione europea allargata.
Siamo consapevoli dell’inattività degli Stati membri e – per esempio – della loro mancata attuazione della direttiva in materia di parità di trattamento e dell’articolo 13 della direttiva sull’uguaglianza delle razze, su cui la Commissione sta intervenendo per garantirne l’applicazione? Ci rendiamo conto che gli Stati membri sono terribilmente in ritardo sull’attuazione delle leggi esistenti che tutelerebbero la comunità rom, in particolare per l’occupazione? E’ un problema grave. La questione dei rom, data la sua entità, può trovare riscontro nelle dichiarazioni finali della Presidenza lussemburghese, per garantire che la Presidenza britannica che seguirà prenda altrettanto seriamente tale questione?
David Martin (PSE). – (EN) Vorrei insistere con il Presidente in carica sul punto finale sollevato dal mio collega. Se la questione venisse sollevata a livello di capi di Stato e di governo e il comunicato finale ne facesse menzione, ciò trasmetterebbe un segnale molto positivo. I rom si sentono trascurati all’interno di quest’Unione europea. Ciò invierebbe loro un segnale positivo e costituirebbe forse un buon esempio che potrebbe incoraggiare gli Stati membri ad adottare misure appropriate.
Nicolas Schmit, Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Dirò innanzi tutto che il diritto comunitario deve essere applicato da tutti gli Stati membri. Ritengo che si tratti di un dovere condiviso da tutti i paesi dal momento in cui diventano membri dell’Unione europea.
Vorrei aggiungere che il programma d’azione comunitario contro la discriminazione è volto a promuovere misure per contrastare la discriminazione basata sull’origine razziale o etnica. Una delle aree prioritarie individuate nel programma di lavoro del 2004 riguardava specificamente l’integrazione dei rom nel mercato del lavoro. Tutti gli Stati membri all’interno dei cui confini vivono minoranze rom devono includere tali minoranze nei programmi d’azione nazionali relativi al mercato del lavoro. A mio parere occorre utilizzare gli strumenti comunitari che ho menzionato in precedenza per incoraggiare e indurre gli Stati membri a trattare in questo modo l’integrazione sociale delle minoranze rom.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 10 dell’onorevole Esko Seppänen (H-0311/05):
Oggetto: Pacchetto energia nucleare
La Commissione ha presentato le nuove proposte di direttiva sulla sicurezza delle centrali nucleari e sullo stoccaggio definitivo delle scorie. L’esame della questione al Consiglio non ha registrato progressi rilevanti durante la Presidenza di turno attuale. È possibile sapere quale è la posizione dello Stato membro che detiene la Presidenza quanto al mancato avanzamento della questione e quando si possono prevedere dei progressi?
Nicolas Schmit, Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Come il Consiglio ha già indicato nella risposta all’interrogazione n. 1778 dell’onorevole Rübig, il processo di esame delle proposte della Commissione ha indotto il Consiglio, il 28 giugno, ad adottare conclusioni sulla sicurezza nucleare e sulla sicurezza della gestione del combustibile irradiato e delle scorie radioattive.
Tali conclusioni ribadiscono l’impegno assunto dalla Comunità e dagli Stati membri di mantenere un livello elevato di sicurezza nucleare. Allo stesso tempo, si tratta– e cito tali conclusioni – di agevolare la scelta di uno o più strumenti, nel quadro del Trattato EURATOM, che possano contribuire più efficacemente al raggiungimento della sicurezza nucleare e della gestione sicura del combustibile irradiato e delle scorie radioattive, senza escludere nessuno strumento e in linea con i principi di miglioramento della legislazione.
In conformità di tali conclusioni, nella seconda metà del 2004 è stato messo a punto un piano d’azione che si basa su tre aree: la sicurezza degli impianti nucleari; la sicurezza della gestione del combustibile irradiato e delle scorie radioattive; il finanziamento dello smantellamento degli impianti nucleari e della gestione sicura del combustibile irradiato e delle scorie radioattive.
In questo contesto, la Presidenza lussemburghese ha elaborato un programma di lavoro che definisce i compiti da portare a termine, e ha nominato tre gruppi di esperti responsabili delle diverse aree del piano d’azione. Sulla base di questo programma e considerato il calendario delle varie autorità internazionali la cui attività attiene ai compiti da realizzare, è in programma una relazione complessiva per la fine del 2006.
Vi posso assicurare che la Presidenza lussemburghese attribuisce un’importanza cruciale a tale questione. Va tuttavia precisato che vi sono minoranze che fanno ostruzionismo impedendoci di avanzare più rapidamente lungo questa strada.
Jonas Sjöstedt (GUE/NGL), in sostituzione dell’autore. – (SV) Signor Presidente, vorrei ringraziare il Consiglio per la risposta alla domanda dell’onorevole Seppänen. Ho due domande complementari. Come prima domanda vorrei chiedere se il Consiglio ritiene che lo stoccaggio definitivo delle scorie radioattive sia una questione di interesse comune, visto che spetterebbe all’UE tentare di ottenere soluzioni comuni per Stati membri diversi per quanto riguarda, ad esempio, il modo e il luogo in cui deve avvenire lo stoccaggio definitivo delle loro scorie. La mia seconda domanda riguarda il Trattato EURATOM. Uno dei punti di discussione correlato ai negoziati concernenti la nuova Costituzione si riferiva ovviamente all’opportunità di mantenere in vigore il Trattato EURATOM, come sancito dalla nuova Costituzione. Il Consiglio ritiene che sarebbe stato più difficile attuare una politica sovranazionale in quest’area se non fosse esistita la base giuridica del Trattato EURATOM?
Nicolas Schmit, Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Iniziamo dal Trattato EURATOM. A margine della Convenzione ci sono state iniziative che auspicavano per l’appunto una riforma del Trattato EURATOM. Di fatto, reputo che sarebbe ora di attuare una riforma radicale di questo Trattato. Sappiamo tuttavia che tale riforma rappresenta una sfida molto impegnativa, poiché non tutti gli Stati membri condividono il medesimo approccio riguardo allo sviluppo del settore nucleare. Alcuni di essi ritengono poi che il settore nucleare non andrebbe sviluppato tout court. E’ in parte per questa ragione che siamo in una situazione di stallo.
Sulla questione dello stoccaggio, vi ho già ricordato che sono in corso consultazioni tra gli esperti per individuare metodi migliori per la sicurezza dello stoccaggio delle scorie nucleari. Vi posso assicurare che, nel contesto del lavoro attualmente in corso, la Presidenza farà il possibile per far progredire questa questione, tenendo debito conto della sicurezza e della massima protezione dell’ambiente, nonché dei cittadini.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 11 dell’onorevole Rodi Kratsa-Tsagaropoulou (H-0312/05):
Oggetto: Proroga della data di entrata in vigore del nuovo Codice Penale in Turchia
Il Primo Ministro turco, Tayip Erdoğan, ha recentemente annunciato la decisione del suo governo di prorogare la data di entrata in vigore del Nuovo Codice Penale riveduto, inizialmente prevista per il corrente mese.
Poiché la revisione e l’applicazione del Codice Penale erano una delle condizioni imperative imposte dalle Istituzioni comunitarie affinché la Turchia operasse la convergenza con l’acquis comunitario, come giudica il Consiglio questa proroga? È stato ufficialmente informato dal governo turco delle ragioni della proroga, ma anche della data definitiva di entrata in vigore del Nuovo Codice Penale? In caso affermativo, che risposta ha dato al governo turco? Ritiene che la mancata applicazione possa influire sull’avvio dei negoziati con il paese candidato, il 3 ottobre 2005?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Il codice penale è uno dei sei testi legislativi specifici indicati dalla Commissione nella sua raccomandazione dell’ottobre 2004, che, secondo le conclusioni del Consiglio europeo del 16 e 17 dicembre 2004, devono entrare in vigore prima dell’avvio dei negoziati di adesione.
L’Unione è informata della decisione adottata dal governo turco di prorogare la data di entrata in vigore del codice. Le autorità turche hanno indicato che l’entrata in vigore del nuovo codice penale è ora prevista per il 1° giugno 2005, anziché il 1° aprile 2005. La Turchia ha annunciato la sua intenzione di cogliere tale occasione per introdurre modifiche nel testo, in particolare al fine di migliorare le disposizioni relative alla libertà di espressione e alla libertà di stampa.
In occasione della recente riunione del consiglio di associazione con la Turchia, l’Unione europea ha menzionato questo importante tema e ha incoraggiato la Turchia a rivedere le sue disposizioni al fine di rispondere alle preoccupazioni dell’Unione in materia e di conformarsi ai principi e ai criteri di Copenaghen.
Rodi Κratsa-Τsagaropoulou (PPE-DE). – (EL) Signor Presidente, più specificamente, vorrei sapere se state verificando i progressi nella riforma del codice penale, la direzione che sta prendendo e il calendario per l’applicazione. Quali richieste specifiche avete? Avete fissato un calendario? Sarà una questione importante per voi, prima del 3 ottobre, quando esaminerete i criteri e gli obblighi della Turchia?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Sono sinceramente convinto che la Commissione e il Consiglio seguano con grande attenzione gli sviluppi di questa questione di cruciale importanza. In questa fase, non ho motivo di dubitare della ferma intenzione delle autorità turche di adottare ed attuare un codice penale giustamente rivisto per le ragioni che ho indicato. Ritengo quindi che non vi sia motivo di dubitare delle decisioni adottate dal Consiglio europeo.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 12 dell’onorevole Dimitrios Papadimoulis (H-0317/05):
Oggetto: Pena di morte
Considerato che Saddam Hussein probabilmente sarà condannato a morte e che l’UE ha un atteggiamento decisamente favorevole all’abolizione o alla non esecuzione della pena capitale nonché propugna il diritto a un giusto processo; considerato altresì che il Presidente dell’Iraq in una sua dichiarazione ha sottolineato che sottoscrivere l’esecuzione di Saddam significherebbe per lui il venir meno alle sue convinzioni in materia di diritti dell’uomo, di cui è un difensore, e ai suoi principi a favore dell’abolizione della pena di morte, può il Consiglio far sapere quali azioni intende prendere per sottolineare ancora una volta e con chiarezza che l’UE è contraria alla pena di morte?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) La posizione favorevole all’abolizione della pena di morte dell’Unione europea è ben nota ed è difesa attivamente dall’Unione nelle sue relazioni con i paesi terzi e a livello multilaterale, conformemente alla posizione dell’Unione europea sulla pena capitale.
Nel luglio 2004 il Consiglio ha reagito alla reintroduzione della pena di morte in Iraq, sollevando la questione con le autorità irachene in diverse occasioni e continuerà a farlo in futuro.
Adamos Adamou (GUE/NGL), in sostituzione dell’autore. – (EL) La ringrazio, signor Ministro, per la sua risposta all’interrogazione dell’onorevole Papadimoulis. Non ho osservazioni da fare.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 13 dell’onorevole Doris Pack (H-0319/05):
Oggetto: Garanzia di poter partecipare alle elezioni e pari opportunità per i partiti della minoranza nazionale ungherese in Romania
Le condizioni per la partecipazione alle elezioni dei partiti delle minoranze etniche in Romania sono definite per legge: adesione di almeno il 15% della minoranza etnica; rispettivamente più di 300 sottoscrizioni in 15 delle regioni romene. Il Congresso del Consiglio d’Europa del 16.7.2004 ha appurato che tali requisiti non sono stati applicati a nessuno dei partiti esistenti. La Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa ha rilevato il 6.12.2004 che le condizioni perché le minoranze etniche nazionali presentino i loro candidati alle elezioni sono proibitive e che è quindi impossibile rispettarle (parere della Commissione n. 300/2004). Nella sua relazione sui paesi candidati la Commissione ha constatato che la partecipazione alle elezioni di partiti delle minoranze etniche nazionali è notevolmente ostacolata da problemi di ordine amministrativo.
Di quali ulteriori informazioni dispone il Consiglio per quanto concerne questa situazione in Romania? Quali azioni ha avviato per rimediarvi? Quali misure intende adottare, in considerazione della prossima adesione della Romania, per modificare questa situazione e consentire alle minoranze etniche nazionali della Romania di godere del diritto alla rappresentanza democratica conformemente agli standard europei?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Come la Commissione e il Parlamento, durante l’intero processo di allargamento il Consiglio ha sottolineato la particolare importanza della tutela delle minoranze, nonché delle pari opportunità di rappresentanza politica di tali minoranze.
Più specificamente, all’ultima riunione del consiglio di associazione UE-Romania, quindi prima della firma del trattato di adesione, l’Unione ha rilevato che il pluralismo politico è un principio essenziale di ogni democrazia ed è legato in modo fondamentale al rispetto dei criteri politici di Copenaghen. L’Unione ha esortato la Romania a modificare tutte le sue disposizioni legislative restrittive riguardanti i partiti politici e l’organizzazione delle elezioni amministrative che, in passato, hanno impedito ad alcuni partiti di partecipare alle elezioni.
Il Consiglio è consapevole dei problemi incontrati da alcuni nuovi partiti politici, che rappresentano le minoranze etniche in Romania, per registrarsi e presentarsi alle elezioni. Gli sviluppi in materia continueranno ad essere seguiti alla luce dei criteri politici di Copenaghen, nel monitoraggio rafforzato dei preparativi della Romania in vista dell’adesione.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 14 dell’onorevole Diana Wallis (H-0322/05):
Oggetto: Ratifica della Convenzione dell’Aia del 19.10.1996 sulla giurisdizione, il diritto applicabile, il riconoscimento, l’applicazione e la cooperazione relativamente alle responsabilità dei genitori e alle misure di protezione dell’infanzia
Gli Stati membri hanno convenuto due strumenti internazionali fondamentali di protezione dell’infanzia e delle famiglie. Uno è il regolamento del Consiglio (CE) n. 1347/2000(1) concernente la giurisdizione, il riconoscimento e l’applicazione delle sentenze in materia matrimoniale e in materia di responsabilità dei genitori. Il secondo è la Convenzione dell’Aia del 1996 sulla responsabilità dei genitori nelle relazioni tra Stati UE e paesi terzi. Essendo strumenti complementari era inteso che entrambi entrassero in vigore più o meno allo stesso tempo.
Gli Stati membri dovevano presentare i loro strumenti di ratifica prima dell’1 gennaio 2005. Il Consiglio può confermare che Regno Unito e Spagna hanno bloccato detto iter relativamente all’applicazione della Convenzione a Gibilterra? La Presidenza vorrà descrivere i passi che intende effettuare per affrontare il problema e offrire un quadro giuridico ai casi di sottrazione di minori tra UE e paesi terzi?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Il Consiglio desidera ricordare all’onorevole deputato che ritiene che la Convenzione sulla giurisdizione, il diritto applicabile, il riconoscimento, l’applicazione e la cooperazione relativamente alle responsabilità dei genitori e alle misure di protezione dell’infanzia conclusa all’Aia il 19 ottobre 1996 apporti un prezioso contributo alla tutela dei minori a livello internazionale e che sia pertanto auspicabile che tali disposizioni vengano applicate senza indugi. Questo è il motivo per cui il 19 dicembre 2002 il Consiglio ha deciso di invitare gli Stati membri a firmare tale Convenzione nell’interesse della Comunità.
Per quanto attiene alla ratifica del documento, il Consiglio desidera informare l’onorevole deputato che è opinione diffusa e concorde che sia opportuno ratificare la Convenzione e che sussiste un ultimo problema che riguarda Gibilterra. Il Consiglio auspica che i due Stati membri interessati compiano tutti i passi necessari onde pervenire a una soluzione in merito a tale punto, affinché gli Stati membri possano ratificare la Convenzione nell’interesse della Comunità, se possibile entro la fine del 2005.
Diana Wallis (ALDE). – (EN) Ringrazio il Presidente in carica del Consiglio per le sue affermazioni, tuttavia pensavo che la ratifica dovesse avvenire nel mese di marzo. Lettere della Conferenza dell’Aia sono rimaste senza risposta, e tale comportamento lancia un segnale tutt’altro che rassicurante ai genitori e a tutti coloro che vorrebbero beneficiare di questa Convenzione, sia nell’ambito della Comunità che nei paesi terzi. Invia inoltre al mondo un messaggio intriso di meschinità. Mi auguro che quanto da lei dichiarato, ossia che il documento entrerà in vigore entro la fine dell’anno, si riveli una previsione corretta.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 15 dell’onorevole Ryszard Czarnecki (H-0323/05):
Oggetto: Bilancio per il periodo 2004-2007
Se durante la Presidenza lussemburghese non verrà raggiunto un compromesso sul bilancio per il periodo 2004-2007, non ritiene il Consiglio che la questione potrebbe protrarsi fino agli inizi del 2006? Non sussiste la possibilità che la Presidenza inglese non sia disposta ad adottare una posizione definitiva al riguardo?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Per rispondere a questa domanda e agli interrogativi che pone, non posso che ribadire che la Presidenza lussemburghese resta fermamente determinata a concludere un accordo politico sulle prospettive finanziarie nel mese di giugno dell’anno in corso. Si tratta, peraltro, di una posizione in linea con quella assunta dalla grande maggioranza dei deputati di quest’Assemblea. Non si deve delineare pertanto alcuno scenario diverso e l’attuale Presidenza non nutre il benché minimo dubbio sul fatto che, a prescindere dal risultato raggiunto, le prossime Presidenze si assumeranno con estrema serietà le responsabilità che incombono loro.
Ryszard Czarnecki (NI). – (PL) Signor Presidente, desidero ringraziare il rappresentante del Consiglio per averci comunicato che è ferma intenzione della Presidenza raggiungere un accordo. Mi sembra un segno molto incoraggiante. Tuttavia, mi turbano in qualche modo le recenti relazioni presentateci riguardo a questo compromesso, dal momento che le condizioni illustrate sarebbero estremamente svantaggiose per i nuovi Stati membri, come la Polonia, e forse in particolare per la Repubblica ceca e l’Ungheria. Ritengo che sia assolutamente necessario pervenire a un compromesso durante la Presidenza lussemburghese, o, per dirla in altri termini, nel corso del primo semestre di quest’anno. Mi auguro, nell’interesse della Presidenza, e in realtà nell’interesse di tutti noi, che si raggiunga tale compromesso, ma a mio avviso è fondamentale che esso goda del favore dei cittadini dei nostri paesi.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) La Presidenza lussemburghese conta sul fermo e risoluto sostegno da parte del Parlamento per riuscire a pervenire a un accordo. Un traguardo che, peraltro, mi auguro si possa raggiungere grazie alla buona volontà di tutti i governi.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 16 dell’onorevole Lidia Joanna Geringer de Oedenberg (H-0327/05):
Oggetto: Gruppo europeo di cooperazione transfrontaliera (EGCC)
In riferimento all’attuale dibattito sui principi che sottendono il funzionamento, il finanziamento e il controllo di uno strumento del tutto nuovo, il cosiddetto Gruppo europeo di cooperazione transfrontaliera, qual è la posizione iniziale del Consiglio? Secondo quali linee direttrici si sta svolgendo la discussione sull’eventuale introduzione di tale strumento e sulle prospettive del futuro processo di sviluppo?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Il Gruppo europeo di cooperazione transfrontaliera è oggetto di una proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio presentata dalla Commissione il 14 luglio 2004. La proposta di regolamento in questione è al momento all’esame di uno dei gruppi di lavoro del Consiglio che si occupa in particolare di azioni strutturali. A seguito delle discussioni svoltesi in seno al gruppo a partire dall’estate scorsa, il 19 aprile la Presidenza ha presentato un testo di compromesso, accessibile al pubblico, di cui il gruppo incaricato delle azioni strutturali può avvalersi quale base per la propria attività. In questa fase è pertanto impossibile dire quale sarà la posizione del Consiglio nel momento in cui la discussione sarà giunta al termine. Dal momento che si tratta di un regolamento la cui adozione è oggetto della procedura di codecisione, è sottinteso che il Parlamento è parte essenziale di tale iter.
Lidia Joanna Geringer de Oedenberg (PSE). – (PL) Vi ringrazio, signor Presidente, Presidente in carica del Consiglio. Ovviamente conosco la proposta di regolamento cui si fa riferimento, ma vi sono alcune questioni che vorrei portare all’attenzione del Consiglio onde conoscerne l’opinione al riguardo. L’articolo 159, terzo comma, del Trattato che istituisce la Comunità europea dispone l’adozione di azioni specifiche al di fuori dei Fondi al fine del conseguimento degli obiettivi di coesione economica e sociale stabiliti nel Trattato. Desidero pertanto sapere di quale genere di azioni si tratta, al di fuori di quali fondi vengono adottate e se sono eventualmente previsti piani intesi all’introduzione di nuovi strumenti finanziari al riguardo. Inoltre, i riferimenti alla cooperazione transnazionale, interregionale e transfrontaliera sono innanzi tutto presenti nella motivazione della proposta di regolamento. Negli articoli successivi si pone in rilievo solo la cooperazione transfrontaliera. Vorrei sapere se questo implica una restrizione di quest’ultima oppure se continueremo a disporre delle opportunità di cooperazione di cui abbiamo goduto finora a titolo di INTERREG IIIA.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Onorevole deputato, lei ha in effetti citato l’articolo 159, terzo comma, del Trattato, secondo cui le azioni specifiche che si rivelassero necessarie per conseguire l’obiettivo della coesione sociale ed economica prevista dal Trattato stesso possono essere adottate al di fuori dei Fondi di cui al primo comma. Possono essere misure di cooperazione transfrontaliera o altre azioni strutturali.
Non sono in grado di fornire ulteriori informazioni, in quanto la missione del gruppo di lavoro consiste proprio nel definire le altre azioni strutturali che possono essere oggetto delle misure menzionate all’articolo 159, terzo comma.
Presidente. – Poiché l’autore non è presente, l’interrogazione n. 17 decade.
Annuncio l’interrogazione n. 18 dell’onorevole Johan Van Hecke (H-0332/05):
Oggetto: Sostegno al processo elettorale in Burundi
In una dichiarazione l’Unione europea ha espresso il suo compiacimento per il corretto svolgimento del referendum su una nuova costituzione in Burundi spronando, nel contempo, il governo di tale paese a compiere i restanti passi concordati negli accordi di pace per porre in atto quanto prima possibile il processo elettorale.
Quali iniziative concrete hanno promosso il Consiglio e gli Stati membri per appoggiare il processo elettorale nel Burundi ma anche per contribuire a garantire una duratura stabilità nel paese dopo le elezioni?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) L’Unione europea segue da vicino e appoggia il processo di pace in Burundi. In questo contesto, essa esprime la propria soddisfazione per il corretto svolgimento del referendum relativo all’adozione di una nuova costituzione organizzato in Burundi il 28 febbraio di quest’anno. L’adozione della costituzione ha rappresentato una tappa fondamentale del processo volto a ripristinare la pace e la stabilità nel paese e nelle regioni dei Grandi Laghi nel complesso.
Nel corso di tutti i negoziati intesi a concordare un cessate il fuoco e durante il periodo di transizione di tre anni, l’Unione si è tenuta in stretto contatto con le parti in loco, grazie sia all’operato di Aldo Ajello, rappresentante speciale dell’Unione europea, sia ad alcune visite da parte dei vari Presidenti che si sono succeduti alla guida dell’Unione europea. Abbiamo dimostrato il nostro sostegno attraverso numerose dichiarazioni e azioni intraprese non solo nello stesso Burundi, ma anche nei paesi limitrofi e in Sudafrica. Proprio il Sudafrica si è fatto promotore del ciclo di negoziati volti a pervenire a un cessate il fuoco, inizialmente sotto l’egida del Presidente Mandela e successivamente del vicepresidente Jacob Zuma.
L’Unione europea ha contribuito a finanziare il dispiegamento di truppe africane in Burundi fino a quando è stata successivamente sostituita dall’Unione africana, ed è disposta a partecipare all’attuale missione delle Nazioni Unite nel paese. L’Unione europea ha promesso 4,4 milioni di euro per l’organizzazione delle elezioni e, in cooperazione con l’iniziativa regionale, insiste affinché si definisca un calendario elettorale prima della scadenza del periodo di transizione prorogato di recente fino al 26 agosto.
Il contributo finanziario dell’Unione europea copre un terzo del bilancio globale previsto per il confronto elettorale e stiamo anche preparando una missione di osservatori che sarà presente in Burundi per le elezioni politiche che si terranno il 4 luglio. Il programma indicativo nazionale sottoscritto nell’agosto 2003 a titolo del 9° FES stanzia 172 milioni di euro a favore del Burundi, destinati in particolare ai settori dello sviluppo rurale, all’assistenza in materia di bilancio e della sana gestione degli affari pubblici. Tali settori, se beneficiano si un sostegno, dovrebbero contribuire a mantenere una stabilità duratura nel paese dopo lo svolgimento delle elezioni.
Johan Van Hecke (ALDE). – (FR) Signor Presidente, desidero semplicemente ringraziare il Ministro Schmit per la risposta di estrema chiarezza fornitaci.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 19 dell’onorevole Hans-Peter Martin (H-0334/05):
Oggetto: Nuovo Statuto dei deputati
Lo Statuto degli eurodeputati ritorna di attualità. Non si tratta solo di introdurre un sistema di remunerazione comune, bensì anche di rendere trasparenti e smantellare gli attuali privilegi dei parlamentari UE, quali diarie esorbitanti, indennità forfettarie di segreteria senza obbligo di documentazione dei costi effettivamente sostenuti, favolosi rimborsi di spese sanitarie a carico del bilancio del Parlamento e un’assicurazione gratuita sulla vita.
In che modo conta il Consiglio di influenzare il Parlamento europeo in questa operazione di trasparenza e limitazione di privilegi?
E’ il Consiglio disposto a rendere a pubblicare integralmente il testo del 26 aprile 2005 della sua posizione sullo Statuto dei deputati che ha costituito la sua piattaforma negoziale?
Come pensa il Consiglio di impedire che nuovi privilegi vengano reintrodotti per così dire dalla porta di servizio – ad es. attraverso decisioni del Collegio dei questori – e quali possibilità ha il Consiglio di sollecitare o imporre un uso economo ed efficiente delle risorse di bilancio assegnate per il Parlamento europeo da parte dello stesso Parlamento?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) La questione dello statuto dei deputati sollevata nell’interrogazione posta dall’onorevole deputato e, in particolare, i principi da applicare per il rimborso delle spese sostenute dai membri del Parlamento europeo sono attualmente oggetto di consultazioni e di dibattiti tra quest’Assemblea e il Consiglio. Al momento non posso anticipare alcunché al riguardo, in quanto le discussioni non sono ancora concluse, e pertanto oggi sarebbe prematuro formulare commenti più approfonditi in merito.
Hans-Peter Martin (NI). – (DE) Signor Presidente, le interrogazioni che pongo sono molto concrete e quindi gradirei che mi venisse data una risposta al riguardo.
Che cosa impedisce di rendere pubblico il testo della posizione? Questa è la posizione su cui verte la mia domanda, e lei fa riferimento alla parte introduttiva dell’interrogazione. Se si procede in questo modo, devo dire al Consiglio che il Tempo delle interrogazioni non ha il benché minimo senso. Pertanto, cosa ne è stato del documento di posizione del 26 aprile 2005? Perché non possiamo esaminarlo? Per noi si tratta di una questione di estrema importanza. Le leggerei le interrogazioni, ma i 30 secondi a mia disposizione sono trascorsi. La invito quindi a rispondere!
Piia-Noora Kauppi (PPE-DE). – (EN) Ci è stato comunicato che il Coreper ha dibattuto oggi in merito a questo tema, che se ne occuperanno i servizi giuridici del Consiglio e del Parlamento e che la relativa adozione è fissata per il 23 maggio in sede di riunione del Consiglio. E’ in grado di garantirci che dopo la decisione finale del Consiglio potremo accedere alla documentazione completa prima che il Parlamento debba adottare la propria decisione finale? Può prometterci che riceveremo tutte le informazioni in materia, nonché confermarci questo calendario di scadenze?
Anna Hedh (PSE). – (SV) Signor Presidente, desidero associarmi a quanto dichiarato dall’onorevole Martin, ossia che vi sono numerosi privilegi cui noi europarlamentari possiamo rinunciare. Per quanto riguarda le indennità di viaggio, gradirei sentire in ogni caso il parere del Consiglio. Posso affermare che noi socialdemocratici rimborsiamo tutte i costi sostenuti oltre alle spese di viaggio effettive. Nel mio caso, l’importo era pari a 6 300 euro distribuiti su un arco di soli sei mesi. Potremmo impiegare questo denaro per fare molto di più per l’Unione europea.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Innanzi tutto devo correggere l’affermazione dell’onorevole Kauppi, in quanto oggi il Coreper non si è riunito, e pertanto non ha avuto la benché minima possibilità di discutere alcuna proposta in merito allo statuto.
Posso solo confermare che è in corso un dibattito su alcuni aspetti dello statuto, che per di più riguardano principalmente i fondamenti delle proposte che il Parlamento ha presentato al Consiglio quasi due anni fa. Vorrei sottolineare, per inciso, che è responsabilità del Parlamento europeo elaborare lo statuto solo previa approvazione da parte del Consiglio. Desidero aggiungere che il Consiglio ha un particolare interesse a che si adotti tale statuto, che riveste un’importanza pari almeno a quella dello statuto di questa Istituzione. Ritengo che non appena si perverrà a un accordo lo statuto potrà entrare in vigore, se quest’Assemblea lo desidera.
Tutti questi aspetti riguardano decisioni che deve adottare il Parlamento stesso, secondo quanto previsto dal regolamento. Posso altresì assicurarle, onorevole Martin, che il Consiglio attribuisce molta importanza alla trasparenza delle spese. Non è da solo nella sua battaglia, perché il Consiglio insiste su questo punto esattamente come lei.
Presidente. – Annuncio l’
interrogazione n. 20 dell’onorevole Paulo Casaca (H-0340/05):
Oggetto: Utilizzazione di norme generali per fini specifici
Una delle due imprese di raffinazione di zucchero in Portogallo – sostenuta dalla Commissione – ha inoltrato un ricorso pregiudiziale contro lo stabilimento delle Azzorre al fine di proibire le spedizioni di zucchero delle Azzorre invocando il motivo che le spedizioni tradizionali dell’impresa dovevano essere calcolate nella media di tre anni in cui non sono avvenute, ossia 1989, 1990 e 1991.
La magistratura portoghese ha posto la questione pregiudiziale alla Corte di giustizia della Comunità europee, la quale (C-0282/00) si è espressa in un senso per cui poi la giustizia portoghese ha respinto il procedimento sostenuto dalla Commissione e attualmente tale decisione forma oggetto di un ricorso.
La Commissione, che non si è attenuta alla sentenza, ha tentato in tutti i modi di eluderla. Uno dei mezzi utilizzati è stato modificare le condizioni stabilite dal regolamento (CEE) n. 1600/1992(2), sulla cui base la Corte non ha finora dato ragione alla Commissione, rettificando il regolamento in modo che le spedizioni tradizionali delle Azzorre siano calcolate sulla base della media degli anni 1989, 1990 e 1991, il che significa proibirle.
La modifica proposta dalla Commissione (COM(2004)0687 def.) all’articolo 4 del regolamento è una modifica di una norma generale all’unico scopo di eliminare la concorrenza della produzione delle Azzorre.
Non ritiene il Consiglio illegittimo alterare norme generali a fini particolari? Non ritiene il Consiglio che l’utilizzazione del potere di iniziativa per vincere con la legislazione quello che si è perso dinanzi alla Corte di giustizia del Lussemburgo configuri un abuso di potere?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) La questione sollevata nell’interrogazione in parola è oggetto di una proposta di regolamento presentata dalla Commissione il 24 ottobre 2004 e che prevede misure specifiche nel settore agricolo a favore delle regioni ultraperiferiche dell’Unione europea. Uno dei gruppi di lavoro del Consiglio ha sviluppato un dibattito in termini generali al riguardo. La Presidenza lussemburghese convocherà a breve una nuova riunione del gruppo al fine di accelerare i lavori – nella prospettiva di pervenire a un accordo a livello di Consiglio – non appena al Consiglio verrà comunicato il parere del Parlamento europeo in merito alla proposta di regolamento in questione. Per quanto attiene al modo in cui la Commissione europea esercita il diritto d’iniziativa conferitole dai Trattati, non spetta al Consiglio esprimere alcuna opinione.
Paulo Casaca (PSE). – (PT) Signor Presidente, mi permetta innanzi tutto, dal momento che è la prima volta che intervengo da quando lei ha assunto l’incarico, di esprimerle le mie congratulazioni e i miei migliori auguri.
Desidero altresì ringraziare, se mi è concesso, la Presidenza del Consiglio per l’attenzione con cui ha affrontato un argomento che non è da considerare meno importante solo perché riguarda una parte minoritaria e periferica dell’Unione europea. Vorrei sapere, signor Presidente, se è intenzione della Presidenza lussemburghese continuare, da oggi fino alla decisione finale, a riservare lo stesso interesse e a dedicarsi con la stessa cura finora dimostrati nei confronti di questa problematica e se pertanto non diminuirà l’impegno finora profugo.
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) La ringrazio per gli auguri di buon lavoro.
Posso garantirle che la Presidenza lussemburghese attribuisce particolare importanza ai problemi che affliggono le regioni ultraperiferiche delle regioni remote e, se necessario, agli aspetti dell’agricoltura in tali regioni ultraperiferiche. Speriamo di pervenire a una conclusione positiva in materia, in linea con quanto da lei auspicato.
Presidente. – L’interrogazione n. 21 è stata ritirata. Poiché gli autori non sono presenti, le interrogazioni nn. 22 e 23 decadono.
Annuncio l’interrogazione n. 24 dell’onorevole Seán Ó Neachtain (H-0347/05):
Oggetto: Palestina
Secondo il Consiglio, assistere l’autorità palestinese nel compito cruciale di assumere la responsabilità dell’ordine pubblico e di migliorare la sua polizia civile e la capacità di applicazione della legge è e continuerà ad essere una priorità dell’UE.
In questo contesto l’UE ha di recente istituito l’Ufficio di coordinamento dell’UE per il sostegno alla polizia palestinese, con sede a Ramallah.
Intende il Presidente in carica indicare quale sarà l’esatto mandato di tale "Ufficio" e segnalare quali strumenti finanziari saranno messi a sua disposizione per consentirgli di svolgere efficacemente le sue funzioni?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) L’Ufficio di coordinamento dell’Unione europea per il sostegno alla polizia palestinese coadiuva il rappresentante speciale dell’Unione europea per il processo di pace in Medio Oriente. Il suo mandato consiste nel coordinare l’assistenza fornita dagli Stati membri dell’Unione europea e, se necessario, quella prestata da donatori internazionali alla polizia civile palestinese. Il rappresentante speciale opera in collaborazione con l’Autorità palestinese. Un’attività strutturata in questi termini gli consente di dare consigli pratici sia alla polizia civile palestinese che a quanti sono incaricati di occuparsi di questioni di polizia in seno all’Autorità palestinese. Sotto il profilo strategico, il rappresentante speciale ha la responsabilità di mantenere i legami con altri soggetti interessati e controlla il processo di riforma della polizia. L’unità è composta da quattro consulenti principali dell’Unione in materia di polizia e un capo dell’Ufficio locale ed è in corso l’assunzione di due consulenti aggiuntivi.
In conformità di un memorandum d’intesa concluso tra il rappresentante speciale dell’Unione europea, Marc Otte, e il dipartimento di sviluppo internazionale del governo britannico, il Regno Unito ha coperto i costi di avviamento e di funzionamento del primo anno di attività con un finanziamento di 390 000 euro. Il Regno Unito ha inoltre concesso un importo addizionale di 220 000 euro a titolo di un regime di aiuti a sostegno di piccoli investimenti della cui gestione è responsabile l’Ufficio di coordinamento dell’Unione europea.
La funzione dell’Ufficio di coordinamento dell’Unione europea consiste nell’individuare, proporre e coadiuvare la gestione di una serie di progetti di assistenza bilaterale specifica, alcuni dei quali sono già stati avviati. Tali progetti si propongono in particolare di rinnovare il centro di formazione della polizia di Gerico, garantire la formazione e fornire gli strumenti atti a mantenere l’ordine pubblico, nonché effettuare un esame delle infrastrutture e delle dotazioni del settore delle comunicazioni.
Questi progetti, finanziati e realizzati dagli Stati membri dell’Unione europea e da altri donatori, rappresentano la parte essenziale del rilevante importo di aiuti finanziari, materiali e tecnici concessi alla polizia civile palestinese. E’ l’Ufficio di coordinamento dell’Unione europea a fornire il meccanismo adeguato e indispensabile all’attuazione, nonché il relativo quadro strategico.
Le retribuzioni e le spese di alloggiamento dei consulenti principali in materia di polizia sono sostenute degli Stati membri, che si fanno pertanto carico della relativa erogazione, e sono da considerare quali contributi aggiuntivi. Anche l’unità di polizia situata a Bruxelles presta un sostegno amministrativo.
La struttura inizialmente adottata per l’istituzione dell’Ufficio di coordinamento dell’Unione europea offre il vantaggio di essere snella e flessibile da un punto di vista amministrativo, il che consente all’Unione europea di rispondere con rapidità ed efficacia, in un contesto adeguato, alle esigenze della polizia civile palestinese, individuate in conformità degli orientamenti politici indicati dal Consiglio e menzionati nell’interrogazione in questione.
Seán Ó Neachtain (UEN). – (EN) Ringrazio il Presidente in carica del Consiglio per la risposta estremamente esaustiva. Una collaborazione di tale natura è molto incoraggiante. Potrebbe indicare se proseguirà, con ulteriore responsabilità collettiva, in futuro? Al momento questo genere di cooperazione è di vitale importanza.
Paul Rübig (PPE-DE). – (DE) Signor Presidente, signor Presidente in carica del Consiglio, l’interrogazione da me presentata riguarda l’Ufficio di coordinamento di Ramallah, area in cui uno dei problemi più gravi è la disoccupazione. Ritiene possibile che questo Ufficio di coordinamento si occupi anche di attività economiche che coinvolgano l’Europa e lo Stato palestinese?
Nicolas Schmit,Presidente in carica del Consiglio. – (FR) Innanzi tutto, per quanto riguarda gli aspetti legati alla sicurezza, posso semplicemente affermare che, tenuto conto dell’evoluzione che sembra al momento delinearsi, nonché delle elezioni svoltesi nei territori palestinesi, l’Unione europea dovrà intensificare non poco il proprio impegno nel prestare aiuto all’attuazione di tutte le disposizioni di sicurezza che consentiranno al processo di pace di non arrestarsi e conseguire quindi l’obiettivo di creare uno Stato palestinese.
Per la questione della cooperazione economica, occorrerà condurre uno studio per verificare in quale misura l’Unione europea, tramite il cospicuo aiuto finanziario che concede ai territori palestinesi, contribuisce a sostenere l’Ufficio in questione.
E’ ormai noto che il signor Wolfesohn rappresenterà la Banca mondiale nei territori palestinesi al fine di coordinare le azioni in materia di assistenza economica: abbiamo affrontato l’argomento questa mattina. Si dovrà lavorare in stretta collaborazione con l’ufficio del signor Wolfesohn e sarà necessario valutare se l’Ufficio europeo offre il quadro adeguato per mettere effettivamente in atto tale cooperazione e realizzarla nel modo più efficace possibile.
Presidente. – Essendo scaduto il tempo assegnato alle interrogazioni, le interrogazioni dal n. 25 al n. 28 riceveranno risposta per iscritto(3).
Con questo si conclude il Tempo delle interrogazioni.
Brian Crowley (UEN). – (EN) Su una mozione di procedura, chiedo scusa al Presidente in carica del Consiglio e a lei, signor Presidente, per non essere stato presente per sottoporre la mia interrogazione. Ero a un’altra riunione presso l’edificio Winston Churchill e quando sono tornato qui, l’interrogazione era decaduta.
Presidente. – Ne è stato preso nota, onorevole Crowley. In ogni caso, ribadisco quanto ho affermato poc’anzi: dichiaro concluso il Tempo delle interrogazioni.
(La seduta, sospesa alle 18.20, riprende alla 21.05)
Presidente. – L’ordine del giorno reca la presentazione da parte della Commissione del progetto preliminare di bilancio generale – esercizio 2006.
Dalia Grybauskaitė, Membro della Commissione. – (EN) Signor Presidente, la Commissione desidera presentare il progetto preliminare di bilancio adottato il 27 aprile. Si tratta dell’ultimo esercizio di bilancio nel quadro delle prospettive finanziarie attuali. In questo progetto la Commissione si concentra sui principali obiettivi politici concordati con il Parlamento a proposito di quattro aree politiche centrali: il rilancio dell’agenda di Lisbona, la sicurezza e la solidarietà, l’allargamento e le relazioni esterne. Mi esprimerò in merito a questi quattro ambiti politici.
La priorità centrale del bilancio è il rilancio dell’agenda di Lisbona, che mira a rafforzare la crescita economica e a creare occupazione. Il bilancio europeo contribuisce a tale obiettivo con tre politiche: le azioni di politica interna, lo sviluppo agricolo e le politiche strutturali.
In ordine alle politiche interne, si prevede un aumento del 2 per cento. La ricerca e lo sviluppo, che contribuiscono direttamente agli obiettivi di Lisbona, registreranno un aumento del 4,7 per cento.
La politica agricola comune mostra altrettanto chiaramente un addentellato con le finalità della strategia di Lisbona. Il 2006 sarà il primo anno in cui i fondi saranno trasferiti dagli aiuti diretti alla spesa per lo sviluppo rurale, che registrerà un rialzo del 13,6 per cento.
I Fondi strutturali europei, nell’insieme, aumenteranno del 5 per cento e arriveranno a 44,6 miliardi di euro. La loro vocazione precipua è promuovere il potenziale di crescita delle regioni in ritardo di sviluppo e aumentare le opportunità di occupazione. In toto, tutte queste azioni contribuiscono agli obiettivi della strategia di Lisbona e rappresentano almeno un terzo del bilancio.
Per tornare agli altri obiettivi principali del bilancio, la solidarietà e la sicurezza, la proposta della Commissione prevede misure per migliorare la sicurezza sociale e ambientale, tutelare i diritti fondamentali e promuovere la cittadinanza attiva, specialmente per i giovani. La lotta al terrorismo, il miglioramento della sicurezza alimentare e dei trasporti, la sicurezza dell’approvvigionamento energetico sono altrettante misure prioritarie per le quali il progetto preliminare di bilancio propone un aumento del 5 per cento.
Per concludere sulle politiche interne, vorrei sottolineare che la proposta della Commissione lascia abbastanza margine alle autorità di bilancio, e in particolare al Parlamento, per aumentare il bilancio dei programmi che reputa necessari. Tali incrementi, tuttavia, dovranno essere discussi con il Consiglio. La Commissione, ovviamente, è pronta ad aiutare e a sostenere l’iniziativa.
La prossima priorità è il successo dell’allargamento. Tutte le voci della rubrica “Politiche interne” del bilancio riflettono l’ulteriore integrazione progressiva dei nuovi Stati membri, con aumenti particolarmente rilevanti a titolo delle politiche strutturali (fino al 30 per cento) e di sviluppo rurale (fino al 9 per cento). Sul versante amministrativo, questa graduale integrazione si riflette anche nella richiesta di 700 nuovi posti.
Per i paesi candidati, la Commissione propone di iscrivere a bilancio soltanto gli importi che sono già stati avallati per le rispettive strategie di preadesione. Per supportare tali strategie di preadesione la Commissione richiede altresì 100 nuove unità di personale esterno.
Nell’ambito delle relazioni esterne, non è possibile conciliare entro il massimale predeterminato le nuove priorità per il 2006 con la continuità dei programmi di cooperazione in corso. Ecco perché la Commissione propone di ricorrere allo strumento di flessibilità per la maggior parte dell’aiuto per la ricostruzione in Asia. Vorremmo rilevare che, per la quinta volta in sette anni, il massimale fissato a Berlino non sarà sufficiente.
Passo ora alle cifre complessive del bilancio per l’esercizio 2006. La proposta della Commissione prevede 112,6 miliardi di euro per i pagamenti e 121,3 miliardi di euro per gli impegni. Il tasso di aumento è rispettivamente del 6 per cento e del 4 per cento, il che corrisponde all’1,02 per cento dell’RNL dell’Unione, in termini di pagamenti, e all’1,09 per cento in termini d’impegni.
Tenendo presente i negoziati in corso sulle future prospettive finanziarie, vorrei porre in evidenza che la Commissione chiede quanto è necessario e sufficiente in questa fase per finanziare le politiche dell’Unione nel 2006. Occorre tenere presente che oggi stiamo discutendo del bilancio annuale. Questo progetto preliminare di bilancio per il 2006, che rappresenta già l’1,02 per cento dell’RNL dell’UE in termini di pagamenti, non tiene conto del fabbisogno per il futuro allargamento a Bulgaria e Romania, o per la completa integrazione dei nuovi Stati membri, in particolare riguardo alle politiche agricole e di coesione, che sono già state decise, né considera peraltro il maggiore investimento per la crescita e l’occupazione, come richiesto dal rilancio dell’agenda di Lisbona.
Confido che si tratterà di un anno importante per noi tutti e posso rassicurarvi che la Commissione si adopererà per coadiuvare le autorità di bilancio al fine di raggiungere un buon accordo sul bilancio per il 2006, per l’Unione e i suoi cittadini.
Giovanni Pittella (PSE), relatore. – Signor Presidente, onorevoli colleghi, il mio auspicio è che il confronto che seguirà alla presentazione di questa sera possa cogliere al fine un risultato favorevole. Auspico che questo sia un anno positivo, tuttavia, sinceramente, le premesse iniziali sono solo parzialmente incoraggianti.
Do atto con piacere al Commissario Dalia Grybauskaitė che nel progetto di bilancio vi sono risposte positive ad alcune questioni che stanno a cuore al Parlamento e che figurano nelle sue linee guida. Mi riferisco alla modulazione delle spese agricole a favore dello sviluppo rurale, all’incremento della rubrica 2 per la politica regionale, alla lievitazione delle spese per i giovani e la cultura e delle spese per le agenzie.
Non posso dire la stessa cosa per la rubrica 4 per le azioni esterne e per gli interventi destinati alle PMI. Il Commissario Grybauskaitė ci ha detto che gli interventi diretti alla strategia di Lisbona coprono più di un terzo del progetto di bilancio. Verificheremo voce per voce, ma ad un primo esame a me pare che gli importi siano insufficienti. Tuttavia, anche se questa valutazione fosse errata, certo è insoddisfacente il richiamo all’accordo sullo sviluppo sostenibile raggiunto in occasione del Consiglio europeo di Göteborg: non esiste crescita competitiva che non sia anche crescita sostenibile.
Inoltre, appare deludente la proposta sulle azioni esterne. Sicuramente si tratta di un punto dolens non nuovo, di una piaga dolorosa che si apre ad ogni procedura di bilancio, ma un approccio più coraggioso avrebbe messo il Consiglio davanti alle sue responsabilità e avrebbe ottenuto il pieno appoggio del Parlamento.
In generale ci saremmo attesi uno slancio maggiore, ma comunque il nostro atteggiamento sarà costruttivo. Non vogliamo fare la lista della spesa, vogliamo difendere le prerogative del Parlamento e dell’Unione europea.
Janusz Lewandowski (PPE-DE), presidente della commissione per i bilanci. – (PL) Signor Presidente, signora Commissario, si direbbe che i molti deputati assenti considerino la presentazione odierna una mera procedura di routine. Eppure non è così per il sottoscritto né per la signora Commissario, che addirittura mi capisce, anche se parlo in polacco.
Che cos’ha di così speciale il 2006? Innanzi tutto, è l’ultimo esercizio nel quadro delle attuali prospettive finanziarie, il che significa che sono emersi nuovi e costosi compiti, che non figuravano nei nostri piani passati, e quindi il finanziamento sarà tirato, soprattutto per le rubriche 3 e 4. Si renderà inevitabilmente necessario concludere accordi supplementari con la Presidenza, che a quel punto sarà britannica.
In secondo luogo, il 2006 sarà un anno di transizione verso le nuove prospettive finanziarie. Come tale ci pone un problema concernente il livello dei pagamenti, che è circa di 7 miliardi inferiore al massimale per i pagamenti, espresso in percentuale dell’RNL fissato nelle prospettive finanziarie, e inferiore al livello dell’1,03 per cento dell’esercizio 2005. Occorre valutare seriamente se ciò potrà soddisfare il nostro fabbisogno reale nel 2006.
Per quanto alcuni tratti caratterizzanti il bilancio 2006 siano familiari rispetto agli esercizi precedenti, esistono alcune nuove priorità, tra cui il tentativo di rilanciare la strategia di Lisbona tramite una nuova iniezione di fondi. Secondo la signora Commissario, i fondi a favore della strategia aumenteranno dell’8 per cento, il che comporta tagli in altri ambiti di spesa della rubrica 3. Vorrei aggiungere che un aumento delle risorse finanziarie non può sostituirsi alle riforme vere e proprie che, invece, sono il fulcro della strategia di Lisbona. Un’altra nuova priorità riguarda alcune sfide in materia di politica estera che sostanzialmente attengono alla ricostruzione dei paesi devastati dallo tsunami e alla fornitura di sostegno da parte dell’UE a favore del risveglio della democrazia e della società civile al di là dalle nostre frontiere orientali. E’ fuor di dubbio che tale priorità richiederà il ricorso allo strumento di flessibilità. Un’altra priorità aggiunta dal nostro relatore è la gioventù, e questa sarà la caratteristica precipua della strategia di bilancio del Parlamento per il 2006.
Ho già sottolineato la forte connessione che esiste tra i negoziati sul bilancio annuale e quelli sulle prospettive finanziarie pluriennali. Va da sé che sarà più facile per noi negoziare il bilancio 2006 con la Presidenza britannica e che tali negoziati si svolgeranno in un clima più amichevole se la Presidenza lussemburghese riuscirà a condurre in porto i negoziati sulle prospettive finanziarie. Non ho idea se si tratti di un obiettivo realistico, ma sono convinto che noi tutti dovremmo condividerlo.
Presidente. – Mi risulta che il testo del progetto preliminare di bilancio è depositato presso il segretariato della commissione, ma che altre copie saranno disponibili nel corso della settimana.
La discussione è chiusa.
19. Stato di previsione del Parlamento europeo per il 2006
Presidente. – L’ordine del giorno reca la relazione (A6-0106/2005), presentata dall’onorevole Valdis Dombrovskis a nome della commissione per i bilanci, sullo stato di previsione delle entrate e delle spese del Parlamento per l’esercizio 2006 [2005/2012(BUD)].
Valdis Dombrovskis (PPE-DE), relatore. – (LV) Signora Commissario, onorevoli parlamentari, nello stato di previsione delle entrate e delle spese del Parlamento europeo per l’esercizio finanziario 2006 sono state presentate le priorità che vado ad illustrare.
Primo, perfezionare il consolidamento dell’ondata dell’allargamento compiutasi nel 2004, integrando pienamente i rappresentanti dei nuovi Stati membri dell’UE nelle Istituzioni europee, nonché realizzare i preparativi in vista del prossimo allargamento del 2007, quando la Romania e la Bulgaria aderiranno all’Unione europea. La situazione attuale è preoccupante: nonostante sia già passato oltre un anno dall’allargamento, molti posti permanenti creati per i nuovi Stati membri rimangono vacanti. Si prevede che entro il 2005 soltanto il 78 per cento dei posti permanenti destinati ai nuovi Stati membri sarà coperto. Il Segretario generale del Parlamento europeo, pertanto, è invitato a presentare una relazione sui motivi di tale ritardo e a formulare proposte per porre rimedio alla situazione. Uno dei problemi che è necessario porre in evidenza in tale contesto concerne gli eccessi burocratici e la lungaggine delle procedure di assunzione.
La seconda priorità riguarda l’utilizzo efficace e altamente mirato delle risorse di bilancio del Parlamento europeo. Tale priorità ingloba le seguenti questioni: concentrare la spesa istituzionale dell’UE sui compiti fondamentali; sostenere le richieste di nuovi posti permanenti a titolo del bilancio soltanto dopo aver valutato la possibilità di riassegnare le risorse e ridistribuire il personale nel quadro del bilancio corrente; sostenere nuove iniziative solo a seguito di un’analisi del loro impatto sul bilancio e partecipare alla cooperazione interistituzionale allo scopo di ottenere un utilizzo razionale ed efficace delle risorse finanziarie.
Certamente, la questione degli oltre 200 milioni di euro spesi ogni anno, soprattutto per assicurare al Parlamento europeo una sede a Strasburgo, continua a essere di grande attualità. Il problema principale investe la manutenzione parallela di due edifici del Parlamento europeo, a Bruxelles e a Strasburgo. Occorre ammettere che ciò rientra nella giurisdizione del Consiglio europeo.
La terza priorità è migliorare la nomenclatura di bilancio dell’UE, per renderla più completa e trasparente al fine di mostrare ai contribuenti con maggiore chiarezza come sono utilizzate le risorse. Occorrerà migliorare la bozza di nomenclatura proposta affinché soddisfi meglio tali requisiti.
Parlando del bilancio del Parlamento europeo, vorrei rilevare che sarà fissato un massimale di spesa totale per il bilancio, conformemente all’accurata valutazione di esigenze debitamente motivate. Raggiungere un massimale del 20 per cento per le spese amministrative non è un fine in se stesso. La proposta del Segretario generale del Parlamento europeo fissa il livello del bilancio per l’esercizio 2006 a 1 341,6 miliardi di euro. Accogliamo favorevolmente il sostegno espresso dalla commissione per i bilanci alla proposta del relatore di decurtare tale importo di 20 milioni di euro. L’esperienza degli esercizi precedenti, in cui sono state ridistribuite ingenti risorse e alcuni fondi non sono stati per nulla utilizzati, dimostra che abbiamo un’opportunità di spendere il denaro del contribuente europeo in modo più prudente. Il massimale di spesa definitivo per il bilancio del Parlamento europeo sarà fissato al termine della prima lettura. Tra gli aspetti salienti del lavoro parlamentare del 2006, vorrei innanzi tutto evidenziare una migliore spiegazione ai cittadini europei di come lavora il Parlamento europeo, ponendo particolare enfasi, da questo punto di vista, sul ruolo degli uffici di informazione del Parlamento europeo negli Stati membri dell’UE, e in secondo luogo, i preparativi compiuti dal Parlamento europeo per svolgere un ruolo maggiore sul piano legislativo, come previsto dal Trattato costituzionale dell’UE.
Infine vorrei far notare che il 2006 sarà l’ultimo anno delle attuali prospettive finanziarie. In questo senso, la questione dell’ammontare degli stanziamenti di pagamento rispetto alla totalità del bilancio europeo per il 2006 è particolarmente attuale. E’ importante che l’importo complessivo degli stanziamenti di pagamento e d’impegno iscritti in bilancio per il 2006 corrisponda agli impegni che l’UE ha assunto, anche in relazione all’allargamento.
Vorrei invitare il Consiglio dell’UE a riconsiderare l’atteggiamento adottato sul bilancio per il 2006, per il quale ha bloccato artificialmente il volume degli stanziamenti di pagamento. Se vogliamo considerare l’UE come un partner affidabile, è importante che l’Unione mantenga i propri impegni, inclusi quelli assunti relativamente all’allargamento. E’ cruciale che nelle prospettive finanziarie gli impegni previsti si riflettano conseguentemente nel bilancio per l’esercizio finanziario 2006.
Markus Ferber,a nome del gruppo PPE-DE. – (DE) Signor Presidente, signora Commissario, signor Segretario generale, onorevoli colleghi, desidero innanzi tutto ringraziare sentitamente il nostro relatore, onorevole Dombrovskis, per essersi prestato – e per il suo rinnovato impegno – all’immane fatica di seguire il bilancio per il Parlamento, un compito per il quale può aspettarsi più che le semplici lodi e i rallegramenti dei colleghi. Egli vi si dedica con grande passione, e per questo motivo merita, innanzi tutto, un sincero ringraziamento da parte del gruppo del Partito popolare europeo (Democratici cristiani) e dei Democratici europei.
Desidero soffermarmi su un unico tema, che mi sta particolarmente a cuore, il seguente: di quanto denaro ha bisogno il Parlamento europeo? Il 20 per cento delle spese amministrative è la cifra di cui si vocifera nei corridoi di questo Parlamento e cui si guarda come fosse una verità incontrovertibile. Soltanto nel corso del presente esercizio, il 2005, signor Segretario generale, risulterà un avanzo di 50 milioni di euro, semplicemente perché dobbiamo rispettare questa magica cifra del 20 per cento, anche se non abbiamo spese cui destinarla.
E tutto questo si perpetuerà nell’esercizio 2006. Già nel suo progetto preliminare di bilancio, che l’Ufficio di Presidenza ha approvato, è previsto un importo inutilizzato di 90 milioni di euro. Mi chiedo davvero che senso abbia. Veramente dobbiamo prelevare il denaro dalle tasche dei cittadini europei per farlo confluire in un bilancio gonfiato, ben sapendo che non saremo assolutamente in grado di impiegarlo? A questo punto mi chiedo se questa possa essere alla lunga la strategia corretta.
La mia raccomandazione sarebbe di non iscrivere neanche in bilancio le somme di cui non abbiamo bisogno e di cui, secondo le previsioni odierne, non avremo bisogno nel prossimo esercizio.
Mi avrebbe fatto piacere che oggi fosse stato presente il collega Onesta, che ha presentato emendamenti al riguardo, perché avrebbe potuto assumersi la responsabilità delle proposte che ha formulato. Esiste però un motivo per cui questi fondi non sono impegnati né destinati ad altri scopi: la ragione è che sappiamo benissimo che, nel caso entrasse in vigore lo statuto, ci servirebbero importi di quest’ordine di grandezza. Io chiedo invece di redigere per il Parlamento un bilancio parsimonioso!
Louis Grech, a nome del PSE. – (EN) Signor Presidente, desidero innanzi tutto ringraziare il relatore per il testo elaborato. In termini generali concordiamo con l’impianto delle sue argomentazioni. Naturalmente condividiamo il suo parere secondo il quale occorre fare di più per migliorare la razionalizzazione, la responsabilità e la disciplina e il rigore del bilancio.
Un ambito apparentemente problematico è l’assunzione del personale. Immagino si possa partire dal presupposto che le richieste di personale si basino su esigenze reali e giustificate. Di conseguenza, è molto difficile comprendere o giustificare i ritardi nei concorsi e nelle assunzioni relative all’allargamento. Occorre intervenire per rettificare la situazione e affrontare quest’urgente problema. Fatta tale premessa, non sono d’accordo che la soluzione provvisoria, raffazzonata, di impiegare agenti temporanei possa essere considerata un’opzione fattibile o un’alternativa. Pur comprendendo il ragionamento sotteso a tale argomentazione, temo che questo tipo di compromesso, se fosse accettato, potrebbe condurre a un malcostume ricorrente nei nostri futuri bilanci.
Il relatore, inoltre, ha sottoposto alla nostra considerazione una riduzione del margine della riserva per gli imprevisti. In linea di principio, concordiamo che gli stanziamenti devono riguardare attività specifiche e che si dovrebbe evitarne la cancellazione alla fine dell’esercizio finanziario.
Tuttavia, occorre tenere presenti le sfide che ci aspettano nel prossimo futuro e le incertezze ancora evidenti, soprattutto per quanto riguarda i servizi multilinguistici, gli investimenti immobiliari, lo statuto dei deputati, nonché l’adozione dello statuto degli assistenti dei deputati, che appoggiamo e sosteniamo pienamente.
In considerazione di ciò, sarebbe prudente approvare l’emendamento che propone che la decisione definitiva su questo punto sia presa in una fase più avanzata. In effetti, penso che il relatore abbia fatto bene a posticipare la decisione finale sull’accordo informale relativo al 20 per cento della rubrica 5. Sono d’accordo che tale livello non è legato ad una legge fissa assoluta e immutabile e che non dovremmo temere di sfidare e rivedere quest’accordo, se siamo convinti che sia necessario. In ogni modo, non credo che sia così e sarebbe inopportuno abolire ora queste linee guida.
Ironia della sorte, se questi fondi fossero utilizzati in modo efficace, la stabilità della linea guida del 20 per cento garantirebbe la solidità del rigore e dell’efficienza di bilancio. Naturalmente sosteniamo l’argomentazione secondo cui, per raggiungere l’efficienza di bilancio, occorre analizzare con senso critico tutte le forme di spesa, utilizzare in modo più efficiente le risorse ed evitare sprechi e raddoppiamento delle funzioni.
Dovremmo continuare a concentrarci sui nostri servizi e sulle nostre attività centrali, il che mi porta a un altro punto importante. Ancora, per quanto sia in parte giustificato, non abbiamo sperimentato l’impatto complessivo dell’esercizio “Alzare il tiro”. Mi pare che a tutt’oggi siano stati raggiunti soltanto alcuni obiettivi. Posto che le strutture necessarie esistono, sarebbe realistico aspettarsi che nel prossimo esercizio di bilancio si consegua la maggior parte degli obiettivi e si attui una riforma per eliminare le strozzature palesi e nascoste.
Da un altro punto di vista, accogliamo molto favorevolmente il miglioramento proposto per il servizio visitatori. Sulla base della mia breve e limitata esperienza al Parlamento europeo, credo che questi programmi costituiscano uno strumento pratico e diretto per migliorare la percezione dell’UE. Inoltre, hanno un effetto moltiplicatore che non va sottostimato.
Accolgo altrettanto di buon grado la proposta di perfezionare la strategia di comunicazione e informazione. Nel corso degli anni non abbiamo affrontato la questione in modo adeguato. Sappiamo che esiste una barriera, reale o immaginaria, tra l’UE e i suoi cittadini. Si può e si deve fare di più su questo importante aspetto. Se davvero vogliamo che i nostri cittadini sentano che il Parlamento europeo è il loro parlamento e che rappresenta le loro aspirazioni, dobbiamo attuare rapidamente una strategia di informazione e di comunicazione efficace. Questa dovrebbe essere una delle nostre priorità principali. Se falliamo su questa linea, mancheremo un obiettivo davvero fondamentale e reale.
Infine, mi congratulo ancora una volta con l’onorevole Dombrovskis, non soltanto per la sua relazione, ma perché, da nuovo deputato che viene da un nuovo Stato membro, ci ha fornito un esempio che dimostra che questo processo d’integrazione può essere produttivo ed efficiente.
Kyösti Tapio Virrankoski,a nome del gruppo ALDE. – (FI) Signor Presidente, innanzi tutto desidero esprimere un ringraziamento al relatore, onorevole Dombrovskis, e congratularmi con lui per l’eccellente relazione. Il bilancio del Parlamento è un bilancio amministrativo complesso che richiede grande familiarità con i metodi di lavoro e le procedure parlamentari. Il relatore ci è riuscito bene e ciò si riflette, ad esempio, nel numero limitato di emendamenti. Gli porgo i migliori auguri anche per il futuro.
Il bilancio del Parlamento è ancora caratterizzato dai limiti dovuti all’allargamento. Sebbene i nuovi Stati membri siano con noi da oltre un anno ormai, un numero considerevole di posti creati per loro ancora non è coperto. I dipartimenti amministrativi del Parlamento stimano addirittura che, forse, entro la fine dell’anno, ne saranno occupati poco meno dell’80 per cento. La situazione appare specialmente problematica nel settore linguistico. Poiché per funzionare democraticamente il Parlamento europeo ha bisogno del multilinguismo e di servizi linguistici di qualità, occorre prestare la debita attenzione alla buona gestione e al funzionamento efficace del servizio linguistico.
Il relatore richiama giustamente l’attenzione sulla presentazione del bilancio, che richiede una continua evoluzione. Analogamente a quello della Commissione, anche il bilancio del Parlamento deve evolvere nel senso di un bilancio basato sulle attività, che chiarisce e convalida la responsabilità personale. Il grado d’efficienza raggiunto dovrebbe essere chiaramente deducibile dalla presentazione. In futuro avremo altresì bisogno di stabilire vari indicatori per fornire una base d’analisi per l’azione intrapresa.
E’ particolarmente importante focalizzare l’attenzione sull’efficacia con cui il Parlamento lavora. La riforma dell’amministrazione nota come “Alzare il tiro” riveste particolare importanza per tutti i deputati del Parlamento che sono chiamati ad adottare decisioni su materie vieppiù complicate. Per tale motivo sarà necessario attribuire ulteriore sostegno all’attività legislativa.
Il bilancio del Parlamento è stato tradizionalmente mantenuto a un livello corrispondente al 20 per cento della spesa amministrativa. Poiché è stato possibile mantenere il rigore nella spesa parlamentare, particolarmente grazie a una valida politica immobiliare, sembrerebbe esistere un buon margine di manovra per il momento, addirittura a concorrenza di 90 milioni di euro. A fronte dell’avanzo di bilancio riferito allo scorso esercizio, è impossibile prevedere in questa fase quale sarà il fabbisogno reale. Pertanto, la decisione finale sulla riserva per imprevisti va rinviata all’autunno. Non sarà necessario aumentare il bilancio del Parlamento, salvo che non vi siano motivi validi per farlo. Un limite del 20 per cento non è un obiettivo da prefiggersi, ma un massimale autoimposto. La relazione in esame offrirà un’ottima base per il seguito da dare.
Sergej Kozlík (NI). – (SK) Signor Presidente, signora Commissario, onorevoli colleghi, dall’ultimo sondaggio sull’atteggiamento dei cittadini slovacchi nei confronti dell’Unione europea è emersa una risposta netta. A un anno dall’adesione all’Unione europea, l’83 per cento dell’opinione pubblica slovacca nutre un parere positivo su tale mossa e oggi il Parlamento slovacco ha ratificato il progetto di Costituzione per l’Europa. D’altro canto, i cittadini slovacchi stanno diventando estremamente sensibili alle questioni relative ai limiti imposti all’esercizio del mandato parlamentare, particolarmente per i deputati che rappresentano i nuovi Stati membri. Tali vincoli sono dovuti alla lungaggine dei processi amministrativi interni al Parlamento europeo per fornire supporto linguistico, capacità di traduzione adeguate e disponibilità dei servizi di interpretazione nelle commissioni parlamentari e nei gruppi politici.
Il progetto di risoluzione sul bilancio del Parlamento europeo presentato dall’onorevole Dombrovskis – e colgo l’occasione per ringraziarlo dell’ottimo lavoro – risponde adeguatamente a tale situazione. E’ motivo di grave rammarico, però, che il testo originario del progetto di risoluzione, che definiva inaccettabile il ritardo nell’assunzione di nuovo personale, sia stato sostituito, nella versione attuale, da un aggettivo meno forte: “deplorevole”. L’assistenza linguistica inadeguata mina il principio delle pari opportunità e condiziona l’esercizio del mandato parlamentare, soprattutto per i deputati dei nuovi Stati membri. Ciò implica, sostanzialmente, una discriminazione, il che è contrario allo spirito di un’Europa unita, un’Europa alla quale abbiamo aderito come nuovi membri, ed è autenticamente inaccettabile.
Sarebbe indubbiamente deplorevole e inopportuno se il tasso di approvazione nei confronti di un’Europa unita dovesse diminuire nei nuovi Stati membri a causa delle mancanze dell’amministrazione del Parlamento europeo piuttosto che dei vincoli di bilancio.
Laima Liucija Andrikienė (PPE-DE). – (EN) Signor Presidente, desidero concentrarmi su tre questioni: il livello globale del bilancio per il Parlamento, la politica del personale e la politica d’informazione.
In quanto al livello complessivo del bilancio del Parlamento, la proposta del Segretario generale lo fissava al 20 per cento della rubrica 5, equivalente a 1 340 milioni di euro. Sono fortemente a favore della proposta del relatore di ridurre di 30 milioni di euro gli stanziamenti a titolo della riserva per imprevisti e di iscrivere alla riserva per gli immobili un importo di 10 milioni di euro. La relazione sottolinea inoltre che il livello del bilancio del Parlamento dovrebbe essere determinato sulla base di esigenze giustificate e ci ricorda che sarebbe opportuno evitare la cancellazione degli stanziamenti.
La politica del personale del Parlamento europeo è suscettibile di miglioramenti che dovrebbero essere realizzati per accelerare le procedure di assunzione al fine di coprire i 750 posti vacanti nell’amministrazione del Parlamento europeo e di creare un sistema di promozioni realmente basato sul merito.
La relazione sottolinea altresì la preoccupazione in merito al passaggio accelerato dal ricorso ad agenti ausiliari all’uso di agenti a contratto e chiede informazioni particolareggiate al riguardo. Suggerisco che il Parlamento europeo inviti il Segretario generale a esaminare il modo di mitigare gli effetti dell’abolizione dello status di agente ausiliario presso i gruppi politici in attesa che si completino le procedure di assunzione. Bisognerebbe esortare il Segretario generale a presentare all’Ufficio di Presidenza una proposta per modificare le regole interne sulle assunzioni adottate dall’Ufficio di Presidenza il 3 maggio 2004, per consentire ai gruppi politici di beneficiare, in materia di assunzioni, delle stesse disposizioni che si applicano all’amministrazione del Parlamento.
L’ultimo punto, ma non per questo meno importante, è la politica d’informazione. Il relatore è favorevole al miglioramento del servizio visitatori e al rafforzamento del ruolo degli uffici esterni. Si sottolinea che, per arrivare ai cittadini, la politica di comunicazione degli Stati membri dovrebbe tenere conto delle differenze nazionali.
Infine, desidero ringraziare l’onorevole Dombrovskis per l’eccellente relazione.
Hans-Peter Martin (NI). – (DE) Signor Presidente, la relazione in esame è due volte scandalosa, in quanto rispecchia amaramente l’opinione maggioritaria del Parlamento e illustra gli artifici con cui si lavora in quest’Assemblea. Tramite l’approvazione di alcuni emendamenti orali alla relazione, che era redatta in termini assai generali, si è deciso di iscrivere alla riserva 60 dei 90 milioni di euro dell’avanzo previsto nel bilancio del Parlamento – e sappiamo che è imprevedibile la fine che potrebbero fare nel corso della procedura di bilancio – e di destinare altri 10 milioni agli immobili, sebbene il Segretario generale, che oggi è presente in Aula, e altri abbiano sempre affermato che non ve ne è alcuna necessità.
Anziché restituire semplicemente questo denaro al contribuente europeo, anziché fare qualcosa per la reputazione di questo Parlamento e dimostrare che abbiamo colto il messaggio e che possiamo andare avanti con meno risorse, si è ricorsi – nota bene – al sotterfugio degli emendamenti orali. Perché utilizzo il termine sotterfugio? Perché il sottoscritto, in qualità di membro della commissione e avente diritto di voto, si era opposto agli emendamenti orali in questione e la mia opposizione era stata bellamente ignorata. Alle obiezioni che avevo rivolto all’Ufficio di presidenza e al Presidente del Parlamento finora non è stata data risposta. Secondo una lettera non datata, non vi è stato nulla di intenzionale. Questo è opinabile.
Intendo esperire tutti i mezzi legali a mia disposizione. La risoluzione e la relazione in esame non sono state approvate conformemente alle regole e domani non si può procedere alla votazione. Nell’interesse del contribuente europeo invito i pochi colleghi presenti in Aula a votare contro la relazione, e in particolare contro i paragrafi incriminati. Vi sarà una votazione per appello nominale.
Presidente. – (EN) Può cortesemente confermare se ha ricevuto la lettera del Presidente del Parlamento in risposta alle sue lamentele? In caso contrario le invio un usciere con una copia.
Hans-Peter Martin (NI). – (DE) Signor Presidente, all’ora di pranzo ho ricevuto via fax una lettera in inglese non datata. Immagino si tratti dello scritto cui lei fa riferimento. Vorrei aggiungere che altri colleghi, nel giro di tre giorni, hanno ricevuto risposte molto prolisse, che però, nonostante i molteplici moniti, su questo punto hanno tergiversato. Aggiungo che ho già risposto a questa lettera e respinto le spiegazioni. Ritengo che la procedura utilizzata sia irregolare e illegale.
Hynek Fajmon (PPE-DE). – (CS) Signor Presidente, signora Commissario, onorevoli colleghi, il bilancio del Parlamento per il 2006 dovrebbe riflettere alcune delle priorità chiave fissate nella relazione Dombrovskis.
In qualità di deputato europeo di un nuovo Stato membro, vorrei mettere in guardia l’Aula rispetto a svariati problemi pratici che sono direttamente collegati al fatto che certi aspetti del modo di lavorare del Parlamento non sono cambiati in seguito all’allargamento dell’anno scorso. La mia principale preoccupazione è che alle lingue ufficiali non è ancora stato accordato uno status eguale, anche se è passato un anno dall’allargamento, e in molte riunioni di commissione e delegazione l’interpretazione non è disponibile nelle lingue di tutti i presenti. Si registrano inoltre sensibili ritardi nella distribuzione dei documenti nelle lingue ufficiali dei deputati.
Tali problemi sono la diretta conseguenza della lentezza delle procedure di assunzione dei funzionari dai nuovi Stati membri nell’amministrazione del Parlamento, e non ne sono colpiti soltanto i servizi di interpretazione e traduzione. Il numero di persone provenienti dai nuovi Stati membri che lavorano per il Parlamento continua a essere molto basso e siamo ancora molto lontani da occupare tutti i posti per i quali era prevista una copertura nel bilancio.
Tali ritardi, peraltro assai sensibili, sono assolutamente ingiustificabili. Secondo la relazione Dombrovskis è probabile che soltanto il 78 per cento dei posti già creati sarà coperto entro la fine dell’anno in corso. Dal mio punto di vista occorre intraprendere passi urgenti per correggere tale stato di cose e garantire che i cittadini dei nuovi Stati membri siano rappresentati equamente nell’amministrazione del Parlamento.
Reputo altrettanto intollerabile che la segnaletica negli edifici del Parlamento non sia in tutte le lingue dell’UE. E’ stato il primo gruppo di visitatori dalla Repubblica ceca, nel novembre 2004, ad attirare la mia attenzione su tale fatto e, nonostante i richiami che ho inviato al Questore, non se ne è ancora fatto nulla.
I servizi offerti ai visitatori del Parlamento, invece, funzionano relativamente bene. Ho già invitato due gruppi di cittadini a Strasburgo e le loro reazioni mi inducono a ritenere che tali visite siano estremamente importanti. Tuttavia, esiste un margine di miglioramento per la nostra strategia di comunicazione con il pubblico. Mi dispiace affermare che non esiste materiale in ceco né in alcuna altra lingua dei nuovi Stati membri, e non sono disponibili copie della Costituzione per i visitatori dei nuovi Stati membri. Credo che si debba intervenire al riguardo prossimamente.
Zbigniew Krzysztof Kuźmiuk (PPE-DE). – (PL) Signor Presidente, signora Commissario, onorevoli colleghi, intervengo sullo stato di previsione del bilancio del Parlamento per il 2006 e sulla relazione Dombrovskis su tale argomento. Il progetto di bilancio generale dell’Unione europea è stato appena presentato all’Aula e dunque desidero cominciare con tre commenti su tale progetto.
Primo, in qualità di rappresentante della Polonia, che è un nuovo Stato membro, mi preoccupa il livello estremamente basso dei pagamenti previsto a bilancio, cioè l’1,02 per cento dell’RNL dell’UE. Si noti che le attuali prospettive finanziarie prevedono un massimale per i pagamenti per il 2006 dell’1,08 per cento dell’RNL, in altri termini 7 miliardi in più, in termini assoluti.
In secondo luogo, è stata la Commissione europea a proporre tale livello di pagamenti, anche se solo poco tempo fa questa stessa Istituzione invocava una media annuale per i pagamenti dell’1,14 per cento dell’RNL per le prospettive finanziarie 2007-2013. A mio parere, non sarà facile spiegare ai cittadini europei come si potrà finanziare la totalità della spesa dell’UE con un totale di 112 miliardi di euro, quando il livello di pagamenti è stimato a circa 130 miliardi di euro nel 2007.
Terzo, mi lascia perplesso che questo bilancio offra un aumento significativo, o più precisamente, un aumento del 6,2 per cento, per la spesa amministrativa, mentre la spesa per le azioni esterne è diminuita del 2 per cento e la spesa per la strategia di preadesione è ridotta di addirittura il 4 per cento rispetto al 2005.
Ricollegandomi al punto precedente vorrei passare alla questione della spesa del Parlamento per l’esercizio 2006, stimata al 20 per cento della spesa amministrativa totale, in altre parole 1 342 milioni di euro. Ciò rappresenta un aumento del 5,5 per cento rispetto al 2005. Occorre sottolineare che il principale motivo di tale aumento è garantire che siano disponibili fondi per completare l’allargamento ai 10 nuovi Stati membri e per consentire di organizzare i preparativi e di stanziare le risorse necessarie per l’adesione di Bulgaria e Romania nel gennaio 2007. Desidero cogliere l’occasione per rilevare che soltanto il 78 per cento dei posti collegati all’allargamento previsti nei bilanci 2004 e 2005 sarà occupato entro la fine del 2005, fatto estremamente allarmante.
Concludendo, desidero ringraziare l’onorevole Dombrovskis per aver redatto una relazione completa sulla spesa del Parlamento per l’esercizio finanziario 2006. In questo documento il collega non ha affrontato solo questioni relative all’allargamento, bensì anche alla qualità e all’efficienza del lavoro parlamentare, in particolare quello svolto dai deputati sui documenti redatti nelle loro lingue. Ha descritto inoltre nel dettaglio i problemi con cui siamo confrontati nel riavvicinare il Parlamento e i frutti del suo lavoro ai cittadini.
Paul Rübig (PPE-DE). – (DE) Signor Presidente, desidero ringraziare in particolare il collega Dombrovskis e gli altri che hanno partecipato alla stesura della relazione. Non credo esista al mondo un altro Parlamento in cui per il bene del contribuente si risparmi nel corso di un esercizio un importo milionario a due cifre. Questa parsimonia è davvero lodevole. Come sappiamo, stiamo insistendo sull’adozione dello statuto che, sgravando massicciamente i bilanci nazionali, comporterà una spesa aggiuntiva a carico del Parlamento europeo. Se sommiamo il costo medio di un funzionario, oltre a quanto il nuovo statuto ci garantirà, questa misura preventiva è particolarmente degna di nota e di merito.
Sarà nostro compito, in futuro, spiegare questa nostra Europa ancora meglio di quanto sia stato mai fatto. Dobbiamo sensibilizzare la popolazione alle attività del Parlamento europeo. Una delle principali critiche espresse durante la campagna elettorale è stata che la gente sente parlare troppo poco del lavoro politico del Parlamento europeo. Desidero invitare i nostri responsabili a adoperarsi a favore della politica d’informazione in modo più impegnato di quanto non sia accaduto fino ad oggi.
Janusz Lewandowski (PPE-DE),presidente della commissione per i bilanci. – (EN) Signor Presidente, rispondo alle riserve espresse dall’onorevole Martin riguardo agli aspetti legali, non sul merito della questione.
Il gruppo di emendamenti orali cui egli ha fatto riferimento è stato presentato il giorno precedente la votazione in sede di commissione per i bilanci ai suoi membri e non sono state sollevate obiezioni riguardo a tali emendamenti. Dopo averne votati diversi, l’onorevole Martin ha cominciato ad eccepire, ma senza spiegare su quale articolo del Regolamento basasse le sue obiezioni. Pertanto ho proseguito la votazione, con il sostegno unanime della commissione per i bilanci. Questa voleva essere la mia puntualizzazione.
(Applausi)
Hans-Peter Martin (NI). – (DE) Signor Presidente, desidero formulare una dichiarazione ai sensi dell’articolo 145 del Regolamento. Le affermazioni del presidente Lewandowski sono alquanto imprecise. La prassi invalsa in questo Parlamento, in plenaria come in commissione, è la seguente: gli emendamenti presentati oralmente non possono essere posti in votazione se contro di essi è presentata un’opposizione conformemente al quorum, chein commissione è di un membro, in Aula di 37. La prassi e la norma in oggetto, signor presidente della commissione per i bilanci, non sono vincolate al momento in cui sono presentati gli emendamenti orali. Sappiamo tutti che gli emendamenti scritti generalmente sono più dettagliati.
Ancora lunedì, in seno alla commissione per il controllo dei bilanci, si è verificato esattamente quanto ho descritto: il presidente di commissione – anche in questa circostanza di un nuovo Stato membro – ha chiesto ogni volta espressamente se qualcuno si opponeva all’emendamento orale ed era chiaro che in tal caso non si sarebbe votato.
Qui si sta cercando in tutti i modi di fare a scarica barile, di non ammettere che si è agito in maniera irregolare. Ribadisco che, quanto al merito mi è stato accordato questo tempo di parola, ne ho diritto conformemente al Regolamento ho di fatto invocato l’articolo 150, che precisamente...
(Il Presidente interrompe l’oratore)
Presidente. – Il Commissario per la prossima discussione all’ordine del giorno non è ancora arrivato, altrimenti non avrei consentito questo scambio di battute.
Il Presidente del Parlamento ha scritto all’onorevole Martin. La lettera afferma che le obiezioni dell’onorevole Martin non riguardavano questioni linguistiche, bensì il merito di ciascun emendamento. Alla luce di ciò, il Presidente ritiene che la decisione del presidente di commissione di procedere alla votazione sia conforme al Regolamento e alla prassi invalsa.
Poiché l’onorevole Martin ha indicato di voler nuovamente sollevare la questione domani, gli suggerisco di procedere in tal senso. Non intendo proseguire il dibattito ora.
Mi preme aggiungere, onorevole Martin, che spero di non averla sentita accusare il presidente della commissione di aver riferito i fatti in modo volutamente non corretto. Deve fare molta attenzione alle sue affermazioni. Se ho capito bene, lei ha insinuato che il presidente ha mentito. Non deve dire una cosa del genere.
Il Segretario generale ha ascoltato con la massima attenzione gli interventi di tutti i colleghi. Vi sono molto grato.
La discussione è chiusa.
La votazione si svolgerà domani, alle 12.00.
20. Servizio europeo di azione esterna
Presidente. – L’ordine del giorno reca l’interrogazione orale (B6-0233/2005) dell’onorevole Jo Leinen, a nome della commissione per gli affari costituzionali, alla Commissione, sugli aspetti istituzionali del Servizio europeo di azione esterna.
Bastiaan Belder, a nome del gruppo IND/DEM. – (NL) Signor Presidente, ritengo che noi, in qualità di membri di questo Parlamento, abbiamo il dovere di informarci sull’orario esatto di inizio dei dibattiti. Non ci sono scuse che giustifichino l’assenza. Abbiamo tutti gli strumenti che ci occorrono per riuscire a sapere quando dobbiamo partecipare a un dibattito in quest’Aula. Inoltre, vorrei aggiungere in tutta franchezza che, visto che la Commissione risponde soltanto in rari casi alle mie domande pertinenti, non sono granché interessato alla sua posizione. Sia detto per inciso.
Il tono nervoso con cui il presidente della commissione, onorevole Leinen, ha posto la domanda mi ha sorpreso e divertito al tempo stesso. Tradisce il timore, da parte di uno dei più fervidi sostenitori della Costituzione, che una delle sue più straordinarie innovazioni, ossia la nomina di un ministro degli Esteri europeo, possa rivelarsi il cavallo di Troia intergovernativo. Pare che questo ministro e il suo apparato amministrativo, il Servizio europeo di azione esterna, stiano insinuando il dubbio anche nelle menti di chi li ha sostenuti. Ma è decisamente troppo tardi. Sul Die Welt di venerdì 6 maggio, Henry Kissinger ha affermato chiaramente che l’istituzione di un numero telefonico non ovvierà alla mancanza di una politica esterna comune. Vi raccomando la lettura dell’articolo. Ciò che conta, dopo tutto, è quello che sarà detto quando suonerà il telefono.
Anche in questo caso, l’Unione europea commette il classico errore di tamponare la mancanza di accordo politico con misure puramente istituzionali. Un’analisi onesta di queste misure rivela che l’istituzione della doppia funzione – ampiamente decantata, ma molto infelice – perturba l’equilibrio istituzionale a livello comunitario. La designazione di un ministro degli Esteri europeo si oppone all’importante precetto secondo cui le Istituzioni operano indipendentemente le une dalle altre. In effetti, il paragrafo 7 dell’articolo I-26 stipula che i membri della Commissione non devono ricevere istruzioni da nessun governo, Istituzione o organismo. Sembra che questa disposizione non si applichi al futuro Vicepresidente della Commissione. Sfido tutti i sostenitori di questo nuovo ruolo a contraddirmi.
Il ministro, ma anche il Servizio europeo di azione esterna, rappresenterebbero una fonte costante di tensione interistituzionale, senza parlare del finanziamento dei funzionari assunti in tale Servizio e delle relazioni con la diplomazia nazionale, cui abbiamo dedicato un’altra interessante audizione, che si è conclusa con numerosi punti interrogativi. Tuttavia, la spaccata dell’onorevole Leinen è ben poca cosa rispetto alle acrobazie che dovrà compiere il futuro ministro, responsabile del Servizio di azione esterna.
In quanto strenuo oppositore del Trattato costituzionale, spero che la Francia lo respinga, proprio come farà il mio paese. Se ciò non dovesse accadere, dovremo continuare a controllare da vicino questa pericolosa avventura chiamata Unione europea.
Jo Leinen (PSE), relatore. – (DE) Signor Presidente, sono appena tornato da una riunione pubblica sulla Costituzione europea che si è tenuta in Lorena, dove la maggior parte dei partecipanti era favorevole alla creazione di un ministro degli Esteri europeo con un Servizio di azione esterna alle sue dipendenze. Sono sicuro che la maggioranza dei cittadini europei condivida questa stessa visione delle cose: l’Eurobarometro, per esempio, riecheggia costantemente il desiderio diffuso di un’Europa che parli al mondo con una sola voce. E’ per questo motivo che la Costituzione europea prevede una disposizione a tal fine.
Un ministro degli Esteri conferirebbe un volto ai valori europei e difenderebbe gli interessi dell’Europa nel mondo. Per svolgere queste funzioni dovrà, ovviamente, potersi avvalere del Servizio di azione esterna di cui abbiamo parlato. Il suo duplice ruolo rende questa costruzione piuttosto complessa, ed è a tale complessità che dobbiamo ovviare. Ritengo che lo si debba fare nello spirito della Costituzione, e cosa prevede lo spirito della Costituzione? Prevede che ciò che precedentemente costituiva il secondo pilastro, con il suo approccio tendenzialmente intergovernativo, sia integrato nel metodo comunitario. I dibattiti della Convenzione e della Conferenza intergovernativa erano essenzialmente finalizzati a integrare quello che era il secondo pilastro in un’Unione europea dotata di personalità giuridica e destinata ad agire come un’entità unica, sia sul piano interno che su quello esterno.
L’articolo 296 della Costituzione prevede che il Servizio di azione esterna sia costituito tramite una risoluzione del Consiglio, previa consultazione del Parlamento e con il consenso della Commissione. E’ questo il punto che stiamo trattando oggi. La Commissione ha un ruolo da svolgere nella formulazione del Servizio di azione esterna. Noi europarlamentari temevamo che il Consiglio si fosse spinto molto oltre in quest’ambito, che avesse già iniziato ad avanzare con un piano definitivo in testa, di fronte a una Commissione eccessivamente esitante e con un approccio troppo riservato sulla questione. Per questo motivo oggi abbiamo chiesto come la Commissione intenda assicurare che il metodo comunitario sia ulteriormente sviluppato e garantito nel contesto della relazioni esterne, come vada organizzato il Servizio in termini amministrativi e finanziari, e come sarà possibile per il Parlamento monitorare quello che viene fatto.
Dovremmo adoperare tutti i mezzi disponibili per prevenire la nascita di una terza burocrazia, che si aggiungerebbe a quella della Commissione e del Consiglio. Questo sarebbe lo scenario peggiore. Ci si deve pertanto chiedere se il Servizio di azione esterna faccia parte del Consiglio o della Commissione. E’ in questo contesto che bisogna considerare che esistono tuttora, in molti paesi, delegazioni che potrebbero diventare ambasciate dell’Unione europea. Ritengo che sarebbe giusto e opportuno che questo Servizio facesse parte della Commissione, piuttosto che del Consiglio, per quanto attiene agli aspetti organizzativi e al bilancio.
Il ruolo essenziale del Consiglio sarebbe comunque garantito, poiché è evidente che il Servizio sarebbe istituito per attuare le decisioni approvate dal Consiglio in quanto entità politica. Ci sono esempi di dualità di questo tipo in molti paesi, inclusa la Germania, dove, a certi livelli amministrativi, determinate cariche sono al servizio sia delle autorità locali che dello Stato. Non è certo qualcosa di inedito e potrebbe funzionare anche in questo caso.
Occorre decidere ciò che il Servizio europeo di azione esterna deve o non deve fare. Non penso che abbia senso creare un’autorità mastodontica con competenze per ogni portafoglio, dal commercio del Commissario Mandelson alla politica di sviluppo del Commissario Michel. Si deve operare una distinzione tra gli affari esteri tradizionali, di competenza del ministro degli Esteri, e le altre Direzioni generali e gli altri Commissari, con i rispettivi mandati. Il duplice ruolo di ministro degli Esteri e di Vicepresidente della Commissione comporterebbe, evidentemente, una concentrazione di attribuzioni e di responsabilità in un’unica persona, garantendo così la coerenza in questo settore.
Attendiamo con impazienza di sentire quanto ha da dirci la Commissione, sperando che ciò che si farà in questo importante contesto sia fedele allo spirito della Costituzione e ne incarni la sostanza.
Margot Wallström,Vicepresidente della Commissione. – (EN) Signor Presidente, le nuove disposizioni previste dal Trattato costituzionale nel settore delle relazioni esterne offrono all’Unione europea la possibilità di rafforzare l’efficienza e la coerenza della sua azione esterna. Questa è una delle ragioni per cui si dovrebbe ratificare la Costituzione, come mi auguro.
In particolare, dobbiamo far convergere il più possibile i due pilastri dell’azione esterna dell’Unione europea: le relazioni esterne e la politica estera e di sicurezza comune. Questo rafforzerà la nostra influenza e la nostra voce, contribuendo altresì a promuovere i valori e gli interessi europei nel mondo. Per questo motivo, la Commissione sostiene l’istituzione della figura di un ministro degli Esteri europeo con una duplice funzione. In effetti, è stata la Commissione a proporre quest’idea alla Convenzione, poiché rappresenta un miglioramento logico e necessario della struttura creata dai Trattati di Maastricht e di Amsterdam.
Il futuro ministro, facendo tesoro della sua esperienza di Alto rappresentante, sarà anche Vicepresidente della Commissione. In quanto membro del Collegio, avrà accesso alle competenze comunitarie e agli strumenti del metodo comunitario, che saranno essenziali per lo svolgimento del suo mandato. Siamo quindi fortemente a favore della creazione di un Servizio europeo di azione esterna efficace che consenta al ministro/Vicepresidente di svolgere le sue funzioni al meglio e nel pieno rispetto delle procedure comunitarie.
La Costituzione ribadisce le importanti responsabilità della Commissione in materia di politica estera, tra cui il suo ruolo di rappresentanza esterna dell’Unione e di esecuzione del bilancio. Ne rafforza altresì la funzione di coordinamento e di coerenza nei vari ambiti della politica esterna. Sarà questa la responsabilità specifica del ministro/Vicepresidente.
In conformità della Costituzione, così come del Trattato vigente, la Commissione eseguirà il bilancio sotto il controllo del Parlamento. I diritti del Parlamento dovranno essere rispettati, sia in quanto autorità di bilancio, per il bilancio operativo e amministrativo, sia per quanto attiene ai suoi compiti di programmazione pluriennale.
Il Presidente Barroso e l’Alto rappresentante Solana hanno deciso di lavorare in stretta cooperazione. Come sapete, la futura proposta di creazione dei servizi sarà presentata da quest’ultimo, in quanto ministro, e approvata dal Consiglio previa consultazione del Parlamento e consenso della Commissione.
La Commissione, compreso il ministro/Vicepresidente, cercherà di preservare e promuovere il metodo comunitario, che ha dato prova di funzionare e di conseguire buoni risultati nel contesto delle relazioni esterne. Più in generale, la Commissione sarà attiva e vigile al fine di tutelare l’equilibrio istituzionale.
Gli Stati membri hanno avviato discussioni sulle questioni relative all’istituzione del Servizio europeo di azione esterna e iniziano a comprenderne la complessità. Nelle capitali prosegue il processo di riflessione e comprensione, in particolare sullo status del Servizio futuro. Vi è un ampio consenso sul fatto che dovrebbe avere una natura sui generis, ma le idee divergono quanto all’applicazione pratica di questo principio.
Consentitemi di formulare qualche osservazione sullo status amministrativo del nuovo Servizio nei confronti della Commissione e del Consiglio, poiché questo aspetto rappresenta un punto essenziale del progetto di risoluzione della commissione per gli affari costituzionali. Le varie questioni connesse sono ancora in discussione, ed è quindi troppo presto per dare una risposta definitiva. Vanno rispettati i requisiti imposti dalla Costituzione, per esempio in merito all’integrazione di funzionari della Commissione, del Consiglio e dei servizi diplomatici nazionali. Andrebbe preservata la responsabilità della Commissione in materia di esecuzione del bilancio e delle politiche comunitarie, evitando nel contempo doppioni. I preparativi dovrebbero essere orientati alla ricerca di sinergie e di efficienza. Il principio guida dovrebbe essere un’azione esterna più incisiva e coerente.
Il passo successivo sarà la presentazione al Consiglio europeo di giugno di una relazione intermedia elaborata congiuntamente dall’Alto rappresentante e dalla Commissione. Le idee del Parlamento sono preziose in questo contesto, per cui mi rallegro di partecipare al dibattito odierno.
Per concludere, ribadisco che la Commissione condivide con i deputati la finalità di salvaguardare e rafforzare il metodo comunitario e il ruolo che la Commissione e il Parlamento svolgono in questo processo. Nel contempo, aderiamo altresì al vostro obiettivo di creare nuove strutture che possano realmente contribuire a migliorare l’efficacia, la coerenza e l’influenza delle politiche e delle azioni comunitarie nel mondo.
Naturalmente, sussistono tuttora incertezze su vari fronti. Tutti nutrono preoccupazioni: il Parlamento, la Commissione, il Segretariato del Consiglio e gli Stati membri. Noi crediamo, tuttavia, che le opportunità e le occasioni offerte all’Unione e alle sue Istituzioni prevarranno, alla fine, su questi timori. Dovremmo cogliere quest’opportunità per realizzare progressi verso una politica estera europea più incisiva ed efficace.
Presidente. – Signora Commissario, abbiamo iniziato il dibattito in sua assenza. Magari nella replica che formulerà alla fine degli interventi potrebbe riferirsi al fatto che è arrivata in ritardo e spiegarci il perché. Potrebbe essere utile, dato che lei è responsabile delle relazioni con il Parlamento europeo.
Íñigo Méndez de Vigo, a nome del gruppo PPE-DE. – (ES) Signor Presidente, abbiamo dovuto sopportare l’intervento dell’onorevole Belder, che ci ha illustrato quello che pensa – anzi, che non pensa – del Servizio di azione esterna. E’ questo il masochismo che dobbiamo subire qui in Parlamento, e lei, signor Presidente, ne è in ampia misura responsabile. Ciò detto, tuttavia, ritengo che questa sia una questione cruciale e sono quindi molto lieto che la commissione per gli affari costituzionali abbia preso questa iniziativa.
La discussione di questa tematica in seno alla Convenzione ha suscitato accese controversie. Il mio amico e collega, onorevole Brok, è stato tra quelli che si sono adoperati maggiormente affinché procedessimo in questa direzione. Se mi chiedeste qual è l’innovazione più significativa introdotta dalla Costituzione europea, non avrei esitazione a indicare il ministro degli Esteri.
Penso che la figura del ministro degli Esteri, a duplice funzione in quanto designato dal Consiglio europeo ma Vicepresidente della Commissione europea, sia infine prevalsa perché, per gli intergovernalisti, rappresenta un modo per mettere le mani sui fondi e sul personale della Commissione mentre, per i più comunitaristi, è un mezzo per farsi sentire nel contesto della politica estera dell’Unione.
La struttura che conferiremo allo strumento essenziale del ministro, il Servizio di azione esterna, assume quindi una considerevole importanza. Lei, signora Commissario, è stata estremamente riservata in merito. Che cosa intendo con questo? Che non ci ha detto nulla. Nel documento redatto dai suoi servizi si legge che state negoziando e che attendete gli sviluppi. Ebbene, desidero dirle che, per il mio gruppo, il gruppo del Partito popolare europeo (Democratici cristiani) e dei Democratici europei, la questione riveste grande rilevanza e che, visto che la le relazioni esterne sono nelle mani dei governi piuttosto che dei cittadini, dei principi piuttosto che del popolo, noi in questo Parlamento vogliamo avere facoltà di controllo sulla politica estera dell’Unione europea. La sede che avrà il Servizio di azione esterna è quindi un aspetto cruciale.
Esamineremo quindi con estrema attenzione la questione della sede di questo Servizio. Gli amici e colleghi del mio gruppo saranno sicuramente in grado di dirle con assoluta chiarezza, nei loro interventi, dove vogliamo che abbia sede.
Margrietus van den Berg, a nome del gruppo PSE. – (NL) Signor Presidente, desidero trattare la questione dalla prospettiva della cooperazione allo sviluppo. Attribuiamo grande rilevanza alla creazione del Servizio europeo di azione esterna, previsto dalla Costituzione europea. Riteniamo che l’istituzione di questo servizio rappresenti un passo importante verso un’Europa che si esprima con un’unica voce e che svolga un ruolo più efficace e coerente sul piano internazionale.
Vorrei concentrarmi sulla politica di cooperazione allo sviluppo, intesa come uno dei fondamenti essenziali su cui poggia la politica estera dell’Unione europea. In questo contesto vigono due principi basilari: l’indipendenza e il coordinamento.
Per quanto riguarda l’indipendenza, la cooperazione allo sviluppo è un settore indipendente nel vasto panorama delle relazioni esterne. Questa posizione sarà rafforzata nella nuova Costituzione europea, perché la cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario saranno obiettivi separati, con basi giuridiche proprie. Poiché questi ambiti della politica sono gestiti a livello comunitario, la Commissione e il Parlamento hanno un ruolo cruciale da svolgere in materia. E’ assolutamente fondamentale che tale competenza continui a ricadere su entrambe le Istituzioni.
Nel contempo, tuttavia, va migliorato il coordinamento tra le varie componenti della politica esterna. Siamo favorevoli all’integrazione di questo Servizio nel mandato della Commissione, a condizione che sia il Consiglio a determinare come strutturare le competenze intergovernative. Il coordinamento tra le varie componenti è necessario per assicurare una politica coerente, che rappresenta un requisito esplicitato dalla Costituzione, come, del resto, dal Trattato di Maastricht. Una politica coerente deve garantire che il raggiungimento dei principali obiettivi della politica di sviluppo (gli obiettivi di sviluppo del Millennio) non sia ostacolato da un altro ambito della politica esterna, come la politica commerciale o di difesa. Dovremmo altresì evitare i doppioni, che comportano perdite di tempo e denaro. Occorre quindi unire le nostre forze, anche sul campo.
Infine, desidero aggiungere che il finanziamento di questo Servizio non dovrebbe avvenire a spese del bilancio dell’attuale politica esterna o della dotazione prevista ai fini del conseguimento degli obiettivi del Millennio.
Il Servizio europeo di azione esterna è un concetto nuovo e importante nel contesto della politica esterna dell’Unione. Occorre formularlo con cautela, nel rispetto delle disposizioni della Costituzione e dei diritti del Parlamento. E’ assolutamente cruciale seguire il modello comunitario in quest’ambito, nonché garantire che la Commissione mantenga il suo ruolo di potere esecutivo della politica.
Andrew Duff, a nome del gruppo ALDE. – (EN) Signor Presidente, l’istituzione del Servizio di azione esterna è estremamente importante, ma rappresenta anche un’operazione molto ardua. Se riusciremo nell’impresa, avremo conseguito l’integrazione funzionale in loco nei paesi terzi. Grazie alla maggiore efficienza che ne conseguirà, tuteleremo meglio gli interessi dell’Unione in tutto il mondo e avremo effetti benefici anche a livello di analisi e di programmazione a Bruxelles.
Il ministro degli Esteri deve disporre di un Servizio di prima classe che gli fornisca le risorse e le informazioni di cui ha bisogno e che assicuri il reclutamento e la formazione di un corpo diplomatico che sia autenticamente europeo.
Mi rallegro della cautela usata dalla signora Commissario nel suo intervento, ma è evidente che il Consiglio è ben lungi dall’aver trovato un accordo che concili, in particolare, gli interessi dei piccoli e dei grandi Stati membri. Alcuni dei problemi più spinosi rimangono ancora in sospeso.
La Commissione deve indubbiamente cercare di conquistarsi la fiducia dei ministri degli Esteri degli Stati membri, ma deve altresì preservare le sue prerogative speciali e l’esperienza che ha acquisito nel corso dei decenni in tutti i settori della politica, dallo sviluppo all’ambiente, senza dimenticare, naturalmente, gli scambi commerciali.
Il Parlamento teme, naturalmente, che il Presidente della Commissione possa diventare il ministro degli Interni dell’Unione europea, lasciando così tutta la dimensione degli esteri al ministro degli Esteri/Vicepresidente. Una tale ipotesi indebolirebbe la Commissione e renderebbe un grave disservizio a tutti gli interessati.
Irena Belohorská (NI). – (SK) Signor Presidente, signora Commissario, onorevoli colleghi, l’interrogazione dell’onorevole Leinen è stata formulata proprio mentre gli Stati membri si accingevano a ratificare il Trattato costituzionale. Mi rallegro che il mio paese, la Slovacchia, lo abbia ratificato oggi, tanto più che ho partecipato alla redazione del testo.
In conformità del Trattato costituzionale, il Parlamento europeo dovrebbe prepararsi a svolgere un ruolo più incisivo. Finora la sua influenza sulla politica estera è stata minima e si è esercitata essenzialmente tramite i suoi poteri decisionali in materia di bilancio. Dobbiamo renderci conto che il Parlamento europeo è l’unica Istituzione europea direttamente eletta dai cittadini. Occorre quindi colmare il deficit democratico e assicurarsi che il Parlamento europeo non sia semplicemente consultato, bensì direttamente coinvolto nel processo decisionale nel settore della politica estera. La definizione della posizione dell’Unione europea nel contesto della politica estera non può essere di competenza esclusiva dei diplomatici. La Commissione e il Consiglio dovrebbero cooperare con la commissione per gli affari esteri e le altre commissioni interessate come previsto.
Elmar Brok (PPE-DE). – (DE) Signor Presidente, signora Commissario, onorevoli colleghi, il Servizio europeo di azione esterna rappresenta un’impresa di ampio respiro in termini amministrativi, e costituisce probabilmente l’elemento strutturale più significativo concepito dalla Costituzione, almeno per quanto attiene al formato delle future attività esecutive dell’Unione europea.
Ritengo che ci si debba adoperare affinché abbia successo, poiché sarà un elemento decisivo nel determinare quale ruolo potrà svolgere l’Europa nel mondo. Penso inoltre che sarebbe sbagliato assumere un atteggiamento difensivo nei confronti della questione, affermando che il ministro degli Esteri dovrà svolgere le funzioni che oggi sono di competenza del Consiglio per poi raffazzonare qualcosa che lasci lo sviluppo e il commercio alla Commissione come prima.
A prescindere da chi sarà competente dei vari aspetti, il compito del ministro degli Esteri è quello di definire la sostanza dell’azione esterna nel suo insieme, e ciò sfocerà nella naturale tendenza a far confluire tutto nel suo mandato. Ne consegue che un approccio difensivo da parte della Commissione non contribuirà a far procedere le cose. Occorre invece essere proattivi: invece di consentire che le decisioni siano prese in altra sede, bisogna esercitare pressioni affinché siano prese tutte in seno alla Commissione, salvo per alcuni settori che esulano dalla sua competenza. Questa sarà la questione fondamentale.
L’onorevole Dehaene, che interverrà fra breve, è stato responsabile del gruppo di lavoro della Convenzione che si è occupato di questo aspetto, e quindi ne conosce le intenzioni: la Convenzione voleva rafforzare il metodo comunitario.
Le sono molto riconoscente, signora Commissario, per aver affermato che condivide l’auspicio del Parlamento di rafforzare il metodo comunitario, ma ciò significa che avremo un Servizio europeo d’azione esterna unico che faccia capo alla Commissione quanto all’organizzazione, all’amministrazione e al bilancio? E’ una domanda molto chiara e semplice, alla quale non è stata data risposta. Le chiediamo quindi di risponderci, magari quando tornerà sulla questione.
Siamo disposti a sostenere la Commissione. Sono stati gli europarlamentari che hanno fatto accettare alla Convenzione e alla Conferenza intergovernativa la regola che prevede che si possa agire soltanto previo consenso della Commissione. Spero che la Commissione sia sufficientemente coraggiosa da cogliere quest’opportunità e prendere la decisione relativa al suo ruolo. Non si può deliberare alcunché dinanzi all’opposizione della Commissione. Spero quindi che vi spingiate oltre il metodo comunitario generale, assumendo la posizione indicata nella dichiarazione dell’onorevole Leinen, secondo cui il Servizio di azione esterna dovrà dipendere dalla Commissione sul piano amministrativo, organizzativo e di bilancio, pur attuando fedelmente, ben inteso, le decisioni del Consiglio relative alle materie di sua competenza.
Ritengo che, secondo la dinamica dello sviluppo amministrativo, questa sia l’unica strada percorribile per tutelare i vostri e i nostri interessi. Forse potrebbe chiarire le sue risposte, e allora potrei addirittura comprenderle.
Panagiotis Beglitis (PSE). – (EL) Signor Presidente, conveniamo tutti sul fatto che il Trattato costituzionale introduce importanti innovazioni istituzionali nel contesto delle relazioni esterne. Abbiamo parlato dell’istituzione della figura del ministro degli Esteri e della creazione del Servizio europeo di azione esterna. Non sarebbe esagerato affermare che, con queste nuove Istituzioni, si darebbe vita all’embrione istituzionale del futuro ministero degli Esteri comune dell’Unione europea.
Sono tra coloro che credono che il Trattato costituzionale potrebbe compiere passi più incisivi verso l’approfondimento di queste politiche, tramite l’estensione della votazione a maggioranza qualificata e l’ulteriore rafforzamento della giurisdizione del Parlamento europeo nel campo della politica estera comune. Tuttavia, nelle attuali circostanze e alla luce delle correlazioni, abbiamo un compromesso positivo e convincente. Per questo motivo sostengo il “sì” alla Costituzione.
Per quanto riguarda la creazione del nuovo Servizio europeo di azione esterna, dobbiamo iniziare a prepararci al suo funzionamento sin d’ora, in modo da essere pronti quando – come spero – il Trattato costituzionale entrerà in vigore a novembre. Il tempo è molto limitato, tenuto conto delle importanti questioni istituzionali e amministrative che devono ancora essere risolte. Per queste ragioni, l’iniziativa dell’onorevole Leinen è pertinente e tempestiva.
Devo tuttavia rilevare che occorre trovare le soluzioni migliori per rafforzare l’efficacia, la coerenza, la coesione e la visibilità dell’azione esterna.
Una delle questioni fondamentali è il rafforzamento del ruolo consultivo e di controllo, nonché un maggiore coinvolgimento del Parlamento europeo, sia adesso, nella fase preparatoria, che quando il Servizio europeo sarà operativo. E’ per questo che propongo di chiedere al Presidente della Commissione e all’Alto rappresentante Solana di presentare una relazione intermedia congiunta al Parlamento prima di sottoporla al Consiglio europeo di giugno, nonché di impegnarsi a consultare il Parlamento in tutte le fasi successive.
Mirosław Mariusz Piotrowski (IND/DEM). – (PL) Nutro profondi dubbi e riserve sull’istituzione di un Servizio europeo di azione esterna, e desidero richiamare l’attenzione dell’Assemblea su tre perplessità che considero cruciali.
Innanzi tutto, mi chiedo se la legislazione comunitaria fornisca una base legittima per la costituzione del Servizio europeo di azione esterna. Sono stati effettivamente citati i pertinenti articoli del Trattato sull’Unione europea, nonché altri atti legislativi, ma il punto di riferimento essenziale per la creazione di questo servizio rimane il progetto di Trattato costituzionale. Da questo progetto di Trattato si evince che l’istituzione di un Servizio diplomatico dell’Unione europea è la conseguenza diretta dell’esecuzione della politica estera e di sicurezza comune e della nomina di un ministro degli Esteri UE, come già affermato dai precedenti oratori. Va tuttavia sottolineato che il progetto di Trattato costituzionale non è ancora stato approvato e che, per di più, vi sono fondate ragioni per ritenere che sarà respinto dai cittadini degli Stati membri. Ci chiediamo quindi se non dovremmo riconoscere che qualsiasi discussione sul Servizio europeo di azione esterna sarebbe estremamente prematura in questo momento. Vorrei inoltre segnalare che siamo di fronte all’ennesimo esempio dell’atteggiamento arrogante dell’Unione europea nei confronti dei cittadini degli Stati sovrani dell’Europa. Poiché le Istituzioni dell’Unione pensano di avere il diritto di agire in anticipo sui tempi, vorrei chiedere se la Commissione ha un piano B, nel caso in cui il Trattato costituzionale fosse respinto.
In secondo luogo, con la firma del Trattato costituzionale apposta nel novembre 2004 i governi degli Stati membri hanno sottoscritto un impegno con conseguenze discutibili. Gli Stati membri si sono impegnati ad astenersi da, e qui cito: “ogni atto che potrebbe pregiudicare l’entrata in vigore della Costituzione”. Questo significa automaticamente che gli Stati membri devono sostenere l’insensata propaganda a favore dell’adozione di questo Trattato? Non si ostacola, in questo modo, la diffusione di un’informazione affidabile e obiettiva sul contenuto della Costituzione e sugli effetti che potrebbe avere sulla vita delle nazioni europee?
Infine, la mia terza preoccupazione riguarda la struttura prevista per il Servizio europeo di azione esterna, poiché potrebbe comportare la creazione di un nuovo esercito di funzionari con attribuzioni poco chiare, o addirittura soltanto parziali. Non possiamo neppure essere certi che questa struttura non tratterà le stesse questioni di cui si occupano le Direzioni generali, il Servizio di azione esterna e le altre agenzie della Commissione. Il risultato finale sarebbe una fioritura di apparati burocratici dell’Unione europea, benché questa già manchi di trasparenza e rappresenti soltanto un onere eccessivo per i contribuenti degli Stati membri.
Quale impatto finanziario si prevede avrà la creazione del Servizio europeo di azione esterna? Come saranno ripartiti i costi? Su chi ricadrà l’onere maggiore? Desidero infine chiedere quanti funzionari sono attualmente impiegati nei servizi della Commissione responsabili della politica esterna dell’UE e quanti si presume che lavoreranno nel futuro Servizio di azione esterna.
James Hugh Allister (NI). – (EN) Signor Presidente, nella sua replica alle questioni sollevate, desidero invitare la signora Commissario a concentrarsi su due punti, uno dei quali si riallaccia a quanto ha affermato l’ultimo oratore.
Poiché il Servizio di azione esterna può essere dotato di uno status giuridico e di legittimità soltanto se sarà approvata la Costituzione, la Commissione e il Consiglio, nell’approntare la struttura, il personale e il quadro del Servizio di azione esterna, presumono manifestamente l’esito del processo di ratifica. A tale proposito, la Commissione ci può dire qual è l’importo finanziario che prevede di spendere per queste iniziative preventive e presuntive? Quanto ci è costata finora quest’iniziativa basata su congetture e quanto ci costerà nei prossimi 18 mesi?
Secondo, la Commissione potrebbe illustrate ai cittadini la sua visione di come sarà condotta la politica estera degli Stati membri quando sarà operativo il Servizio di azione esterna? In particolare, è corretto concludere che la politica estera nazionale dovrà necessariamente essere coerente con la politica estera comune e potrà operare soltanto secondo modalità di subordinazione rispetto al Servizio di azione esterna?
Alexander Stubb (PPE-DE). – (EN) Signor Presidente, desidero congratularmi con lei per il suo atteggiamento alquanto entusiasta, benché abbia il sospetto che in questo momento preferirebbe trovarsi a cena con gli altri colleghi.
Avrei tre osservazioni generali. Innanzi tutto, credo che questa sia probabilmente la questione istituzionale più importante che dovremo affrontare nei prossimi quattro o cinque anni. Si tratta effettivamente di potere esecutivo, di chi gestisce la politica estera: la Commissione o il Consiglio. Mi rallegro vivamente che gli Stati membri abbiano affrontato la questione, che abbiano fornito cinque fiche al gruppo Antici, che il fascicolo sia stato esaminato al Coreper e che la Commissione abbia tenuto confessionali con gli Stati membri. In particolare, sono lieto che al Parlamento europeo se ne stia discutendo in modo franco e aperto.
In secondo luogo, penso che un Servizio di azione esterna rappresenterebbe un vantaggio per tutti noi. Per molti aspetti, si tratta di un’iniziativa di cui beneficerebbero tutti, in quanto assicurerebbe una migliore qualità dei servizi consolari, della rendicontazione e, in generale, della politica estera e di sicurezza comune, che, come sappiamo bene, non può funzionare senza un’amministrazione operativa a livello europeo.
In terzo luogo, per ribadire quanto hanno detto gli onorevoli Méndez de Vigo e Brok, dalla nostra prospettiva sono due le questioni chiave. La prima è che, benché il sistema possa essere sui generis, è molto importante che due competenze continuino a essere di responsabilità della Commissione: il bilancio e l’amministrazione generale.
Per concludere, vorrei dire alla Commissione che spero che tenga duro fino all’ultimo, perché dobbiamo evitare che questioni incontaminate come il commercio e lo sviluppo finiscano nel campo intergovernativo e del Consiglio. Non bisogna mai sottovalutare la capacità del Segretariato generale del Consiglio di rubare la coperta alla Commissione. Se potrà, non esiterà a farlo.
(Applausi)
Jean-Luc Dehaene (PPE-DE). – (NL) Signor Presidente, signora Commissario, innanzi tutto, come ha già anticipato l’onorevole Brok, vorrei portare la mia testimonianza in qualità di presidente del gruppo di lavoro per le relazioni esterne della Convenzione, la cui principale preoccupazione era quella di evitare l’adozione di una politica esterna duplice, condotta sia dal Consiglio che dalla Commissione. Come nota positiva, ricordo che il gruppo di lavoro mirava a rafforzare la coerenza e la continuità della politica, nonché a rendere possibile la mobilitazione di tutte le risorse dell’Unione europea per le iniziative della politica esterna comune.
Sebbene la maggioranza dei membri della Convenzione ritenesse che questo obiettivo potesse essere conseguito al meglio con il metodo comunitario, siamo stati sufficientemente realistici da comprendere che questa strada non è attualmente percorribile. E’ per questo motivo che si è trovato il presente compromesso tra coloro che propendevano per il miglioramento dello status quo e coloro che erano a favore della comunitarizzazione.
Il ministro degli Esteri europeo diventerebbe Presidente del Consiglio dei ministri, ne definirebbe l’agenda e, come suo portavoce, garantirebbe la coerenza e la continuità della politica. In qualità di Vicepresidente della Commissione, rappresenterebbe inoltre un ponte con la politica comunitaria. Inoltre, previa approvazione della Commissione, sarebbe in grado di utilizzare i fondi comunitari per sostenere la sua politica. Il gruppo di lavoro era del parere che, idealmente, il ministro avrebbe dovuto consultare la Commissione in merito alle sue iniziative e ottenerne il sostegno sin dall’inizio.
Avevamo perfino proposto che, in caso di iniziativa comune del ministro degli Esteri e della Commissione, il Consiglio avrebbe dovuto votare a maggioranza. Ai più questa proposta pareva eccessiva, ma io ritengo che il successo del ministro degli Esteri e l’influenza che sarà in grado di esercitare dipenderanno, in ampia misura, dal modo in cui si coordinerà e lavorerà con la Commissione.
Il gruppo di lavoro ha compreso sin dall’inizio l’importanza cruciale di fornire sostegno logistico al ministro degli Esteri. Ci siamo sempre pronunciati a favore della trasformazione delle delegazioni in ambasciate dell’Unione che esprimessero una rappresentanza esterna unificata. Anche a Bruxelles, il ministro dovrebbe disporre di un servizio strategico, costituito da funzionari sia della Commissione che del Consiglio, per il momento, nonché di diplomatici distaccati dagli Stati membri.
Benché questo Servizio dovrebbe lavorare sia per il Consiglio dei ministri che per la Commissione, il gruppo di lavoro ha ritenuto che, in termini organizzativi, sarebbe meglio integrarlo nella Commissione, anche se dovrebbe essere ligiamente al servizio del ministro degli Esteri e del Consiglio dei ministri.
Mi pare che istituire una nuova amministrazione autonoma sia ben lungi dalle nostre intenzioni originarie. Si volevano abolire i pilastri, e invece si crea un superpilastro, sotto forma di nuovo servizio. Analogamente, decomunitarizzare i servizi della Commissione equivarrebbe a compiere un passo nella direzione sbagliata. La Commissione deve assolutamente difendere la sua posizione e trovare un posto nei suoi servizi per questa amministrazione per gli affari esteri, senza dimenticare che deve essere d’accordo e ha, quindi, l’ultima parola. Nella relazione Brok, noi parlamentari ci esprimeremo chiaramente a favore di queste soluzioni e sosterremo fermamente la Commissione, ma spetta a quest’ultima orientare i negoziati.
Charles Tannock (PPE-DE). – (EN) Signor Presidente, sulla questione della diplomazia comunitaria comune io e il mio partito nazionale nutriamo forti perplessità. Non posso negare che l’enorme influenza esercitata attualmente dalla Commissione tramite le sue attività di aiuto e il monopolio del commercio esterno comporta una dimensione internazionale più vasta anche a livello politico ed economico. Inoltre, lo sviluppo concomitante della PESC e della PESD, benché chiaramente intergovernative, ha innalzato il profilo internazionale dell’Unione europea come attore nell’arena mondiale.
Tuttavia, poiché provengo da un paese di grandi dimensioni, il Regno Unito, con una politica estera gloriosa e indipendente, mi oppongo alle proposte del progetto di Costituzione, che prevedono per la prima volta la personalità giuridica dell’Unione europea e istituiscono la carica del ministro degli Esteri, assicurata dal nuovo Presidente del Consiglio con mandato quinquennale. Tutto ciò è volto a creare una politica estera e di sicurezza comune più coercitiva e vincolante, che minaccerebbe la piena indipendenza della politica del Regno Unito nel settore delle relazioni internazionali. Ovviamente, nell’attuale Unione europea a Venticinque c’è un numero maggiore di piccoli paesi come la Finlandia, la nazione dell’onorevole Stubb, che dovrebbero assumersi la Presidenza semestrale dell’Unione, se la Costituzione non fosse approvata. Per questi paesi un servizio diplomatico dell’Unione comporterebbe economie di scala interessanti, anche a livello di personale nazionale distaccato presso le delegazioni comunitarie. Si genererebbero risparmi in termini finanziari anche grazie all’apertura di vere e proprie ambasciate UE che, se necessario, sostituirebbero parzialmente le missioni bilaterali dei piccoli paesi, nell’ipotesi poco probabile che la Costituzione dovesse essere approvata.
Ciononostante, sono a favore del miglioramento della formazione diplomatica del personale Relex distaccato nelle delegazioni della Commissione all’estero e di un controllo più formale da parte del Parlamento europeo sotto forma di audizioni dei capi delegazione in seno alla commissione per gli affari esteri, su incarico del Parlamento. Inoltre, gli eurodeputati dovrebbero godere di un’assistenza più formalizzata quando si recano in missione, cosa che – va detto – facciamo regolarmente.
Nutro, tuttavia, forti preoccupazioni di fronte alla prospettiva di offrire all’Unione europea ulteriori occasioni di limitare gli Stati, come avverrebbe con l’istituzione del Servizio di azione esterna, poiché ciò ridurrebbe ancor più le possibilità, per il mio paese, di condurre una sua politica estera e di sicurezza indipendente quando gli interessi nazionali lo richiedano.
Maria da Assunção Esteves (PPE-DE). – (PT) L’azione esterna rappresenta probabilmente l’aspetto più complesso, controverso e affascinante della sfida del processo costituzionale europeo. Tramite l’azione esterna, l’Europa diffonde nel mondo un nuovo stile di governance, caratterizzato dalla condivisione attiva dei valori democratici e dal rispetto dei diritti umani.
Di conseguenza, il Servizio di azione esterna non comporta semplicemente uno snellimento amministrativo e finanziario, o finalità organizzative. Il Servizio dimostra che la politica estera dell’Unione europea oggi rappresenta un progetto di vita condiviso, un modello di consenso su prospettive di ampio respiro per la razza umana, che l’Europa ora fa proprio e integra nelle sue relazioni con il resto del mondo.
Tutto ciò richiede una collaborazione trasversale tra le Istituzioni, nonché decisioni di politica esterna basate sulla democrazia. La Costituzione che sta emergendo dimostra che le decisioni in materia di politica estera comune attualmente sono il frutto di criteri non esclusivamente intergovernativi, bensì trasversali alle Istituzioni europee prendono decisioni politiche. Di conseguenza, l’azione della Commissione innesca automaticamente un collegamento con il Parlamento.
Se vogliamo che l’Europa sia coerente e abbia una visione strategica ben definita, basata sul multilateralismo e su un nuovo sistema di diritto internazionale, dobbiamo assicurarci che le Istituzioni interagiscano in sinergia le une con le altre e che vi sia un consenso interno permanente. E’ questa la strada che dovrà seguire il nuovo Servizio di azione esterna. Sorgono quindi i seguenti quesiti. Qual sarà la sua configurazione organica? Come gestirà la sua vasta multidisciplinarità? Come definirà la sua gerarchia? Come eviterà le tensioni tra il Consiglio e la Commissione, per non parlare della tendenza delle relazioni tra queste due Istituzioni a degenerare nel feudalesimo. Infine, come configurerà la catena di responsabilità, inclusa la responsabilità democratica?
Margot Wallström,Vicepresidente della Commissione. – (EN) Signor Presidente, ringrazio chi, come me, è solito partecipare alla seduta notturna del Parlamento europeo. Talvolta può essere difficile seguire la programmazione delle riunioni del Parlamento europeo. Ero convinta che questa iniziasse alle 22. Ecco perché sono arrivata dieci minuti prima, in piacevole compagnia dell’onorevole Leinen, e vi ringrazio per avermi accolto a questo dibattito.
Ho seguito con grande interesse quello che hanno affermato gli onorevoli parlamentari questa sera nel corso della discussione, perché il Servizio europeo di azione esterna è un argomento che suscita forti reazioni. Si tratta di una questione che tocca tematiche istituzionali e costituzionali di importanza fondamentale. L’istituzione di un incarico di ministro degli Esteri dell’Unione europea, che sarebbe altresì Vicepresidente della Commissione, rappresenta un’innovazione essenziale nell’architettura istituzionale dell’UE. Tale innovazione ravvicina i due pilastri nell’ambito della politica estera: il metodo comunitario e quello intergovernativo. Questo ministro con duplice funzione avrebbe svariati compiti. E’ per questo che la creazione del Servizio di azione esterna costituisce una sfida tanto rilevante e ardua.
Desidero replicare brevemente ad alcune delle questioni che sono state sollevate. Vorrei dire all’onorevole van den Berg che la politica di sviluppo è e rimarrà un elemento chiave delle politiche dell’Unione europea, nonché un punto di forza per l’Europa nel mondo e nel contesto della Costituzione. La politica di sviluppo non è subordinata ad altre politiche. Essa mantiene il suo status speciale nel quadro del metodo comunitario, ma tutte le politiche devono essere integrate meglio in un concetto coerente di politica estera. Ciò rappresenterà un rafforzamento, e non un indebolimento, della politica di sviluppo dell’Unione.
Posso assicurare all’onorevole Duff che la Commissione non sarà indebolita dalla Costituzione, per quanto attiene alle competenze comunitarie. Il ministro e i suoi servizi saranno vincolati dalle procedure della Commissione e dai principi di collegialità, sotto la guida del Presidente della Commissione.
Sono perfettamente d’accordo con l’onorevole Brok sul fatto che non dovremmo metterci sulla difensiva: per la Commissione, le nuove disposizioni previste dalla Costituzione presentano più opportunità che rischi. E’ altresì importante sottolineare che, in questo campo, non si può deliberare nulla contro il volere della Commissione.
Verrei assicurare all’onorevole Allister e ad altri che non stiamo dando un giudizio prematuro sulla ratifica della Costituzione. Stiamo semplicemente preparando la decisione, che può essere presa soltanto dopo che la Costituzione sarà ratificata ed entrata in vigore, e previo parere del Parlamento.
Per quanto attiene alle implicazioni in materia di bilancio e di personale, non sono stati effettuati calcoli o stime perché non siamo ancora giunti alla fase di programmazione dettagliata. In qualità di autorità di bilancio, il Parlamento delibererà in merito a tali importi in futuro.
Penso che questi siano i principali quesiti posti, e posso garantirvi che le opinioni del Parlamento saranno prese in considerazione nei prossimi mesi, quando la questione sarà sviscerata. In particolare, la risoluzione approvata martedì dalla commissione per gli affari costituzionali, che penso sarà esaminata in plenaria tra due settimane, rappresenta un contributo di cui si deve tenere conto, non solo a livello di Commissione, ma anche di Stati membri e Consiglio.
Prevediamo che il lavoro tecnico continuerà nel secondo semestre di quest’anno, affinché le decisioni di principio possano essere prese nel corso dell’anno prossimo, quando sarà concluso il processo di ratifica della Costituzione. Il Parlamento sarà consultato formalmente sulla proposta relativa al ministro a tempo debito, per cui al dibattito di questa sera seguiranno altre discussioni che consentiranno al Parlamento di ribadire le proprie posizioni alla luce dei progressi compiuti, di cui l’Assemblea sarà regolarmente informata.
Desidero concludere ripetendo che noi della Commissione siamo consapevoli delle preoccupazioni degli onorevoli parlamentari, che desiderano salvaguardare e rafforzare il metodo comunitario e il ruolo della Commissione e del Parlamento in questo processo. So che questo aspetto preoccupa l’onorevole Brok. Condividiamo con voi l’obiettivo di creare nuove strutture che possano realmente contribuire all’efficacia, alla coerenza e all’impatto delle politiche e delle azioni dell’Unione nel mondo.
Presidente. – Verificheremo le informazioni che le sono state date, signora Commissario. Per quanto mi riguarda, il ritardo di una bella signora è sempre giustificato.
Ad eccezione di un deputato che è intervenuto prima del suo arrivo, signora Commissario, tutti i parlamentari che hanno partecipato al dibattito sono ancora qui. E’ un fatto insolito.
Elmar Brok (PPE-DE). – (DE) Signor Presidente, desidero ringraziare il Commissario Wallström per aver affermato che non si può decidere nulla contro il volere della Commissione. E’ quanto dispone il progetto di Costituzione, e le sono grato per averlo ribadito esplicitamente.
La questione non è se le opinioni del Parlamento potranno essere prese in considerazione, bensì quale sia la posizione negoziale della Commissione. In altre parole, vorremmo sapere se sostiene che questo Servizio debba essere integrato nella Commissione. Sarebbe molto interessante conoscere il suo parere in merito.
Il problema non riguarda nemmeno la partecipazione del Parlamento. Al contrario, siamo qui oggi per aiutare la Commissione ad evitare che si verifichi una situazione in cui avremmo un meccanismo di mercato interno e un ministro degli Esteri potente per i propri meriti. Vogliamo invece che sia la Commissione a svolgere, sul piano amministrativo, il ruolo dell’Unione europea nel mondo.
Signor Presidente, forse lei potrebbe fornirmi il documento che ci doterebbe della base giuridica di cui abbiamo bisogno per accertare che il Parlamento spinga la Commissione nella giusta direzione.
Margot Wallström,Vicepresidente della Commissione. – (EN) Signor Presidente, desidero semplicemente aggiungere che bisogna capire che non siamo ancora giunti alla fase negoziale. Siamo ancora alla fase preparatoria, in cui esaminiamo tutti i dettagli tecnici. Sarebbe intempestivo circoscrivere la nostra posizione negoziale in questa fase. Bisogna svolgere ancora molto lavoro tecnico di preparazione. Come ho già detto, informeremo il Parlamento dei progressi.
Presidente. – La discussione è chiusa.
La votazione si svolgerà a Bruxelles, giovedì 26 maggio.
21. Valutazione del ciclo di Doha dopo l’accordo dell’OMC del 1° agosto 2004
Presidente. – L’ordine del giorno reca la relazione (A6-0095/2005), presentata dall’onorevole Javier Moreno Sánchez a nome della commissione per il commercio internazionale, sulla valutazione del ciclo di Doha dopo l’accordo dell’OMC del 1° agosto 2004 [2004/2138(INI)].
Javier Moreno Sánchez (PSE), relatore. – (ES) Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Commissario, vorrei cominciare il mio intervento ringraziando tutti coloro che hanno contribuito ad arricchire la relazione su cui voteremo domani per la loro collaborazione. La relazione mira a garantire l’equilibrio tra, da un lato, il pieno sostegno del Parlamento alla difesa degli interessi dell’Unione nei negoziati in corso e, dall’altro lato, il desiderio di assicurare che questo ciclo di negoziati per lo sviluppo si concluda con successo, il che significa la piena integrazione e partecipazione dei paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale.
Con questa relazione, l’Assemblea intende trasmettere un messaggio politico risoluto di sostegno all’avanzamento dei negoziati, nell’ambito dei quali la Commissione svolge un ruolo essenziale, ribadendo il nostro impegno nei confronti dell’OMC e del suo sistema di scambi commerciali multilaterali, che senza dubbio costituisce il miglior meccanismo per promuovere un commercio equo e solidale a vantaggio di tutti. Il messaggio giunge in un momento molto opportuno, in quanto il programma di Doha si trova a un crocevia, in una fase chiave della sua attuazione, in cui non si devono compiere passi indietro.
In seguito al fallimento della Conferenza ministeriale di Cancún, l’accordo del 1° agosto 2004 riveste indubbia importanza politica, in quanto ha riportato i negoziati sui giusti binari e riconosce altresì la necessità di integrare pienamente i paesi in via di sviluppo nell’economia globale. Tuttavia, si tratta solo di una tabella di marcia. Il successo dei negoziati dipende dalla ferma volontà politica di tutte le parti di conseguire un accordo fondamentale a Hong Kong.
Si deve giungere a questo appuntamento con una proposta ambiziosa ed equilibrata nei vari settori coperti dall’accordo: sviluppo, agricoltura, prodotti industriali (NAMA), servizi e agevolazione del commercio, senza dimenticare la necessità di collocare lo sviluppo al primo posto nei negoziati, sebbene l’agricoltura ne sia la vera forza motrice. Ai fini di questo obiettivo, si devono ottenere impegni concreti e specifici con date e scadenze, tramite un processo di negoziazione trasparente, efficace e inclusivo, cui partecipino pienamente tutti i paesi membri dell’OMC.
Nel contesto dello sviluppo, dobbiamo assicurare che i negoziati affrontino i problemi legati alla povertà, alla malnutrizione e alla fame nel mondo, al fine di dimezzarle entro il 2015, come prevede la dichiarazione del Millennio, attraverso una più stretta relazione tra l’OMC e le altre organizzazioni internazionali.
Sarebbe inoltre utile che la Commissione formulasse proposte relative allo sviluppo di meccanismi di integrazione commerciale per i paesi in via di sviluppo, che consentano di compensare le perdite eventualmente causate dalla liberalizzazione degli scambi.
I progressi in materia di assistenza tecnica, creazione di capacità e promozione degli scambi sud-sud rivestono anch’essi particolare importanza per garantire l’integrazione dei paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale e dare impulso alle loro capacità di esportazione.
Nel settore dell’agricoltura, i membri dell’OMC devono proseguire i lavori in modo equilibrato nei tre pilastri – sovvenzioni all’esportazione, aiuti interni e accesso al mercato – per pervenire a modalità negoziali dettagliate in vista di Hong Kong e a un disarmo parallelo da parte di tutti i membri dell’OMC.
Per quanto riguarda l’accesso ai mercati per i prodotti non agricoli, i NAMA, si deve prevedere flessibilità e una reciprocità parziale dei paesi in via di sviluppo, applicando il principio del trattamento speciale e differenziato.
Nel settore dei servizi, entro il mese dovrebbero essere presentate offerte di qualità rivedute e, per quanto riguarda i servizi relativi alle esigenze di base dei cittadini, ritengo non se ne debba esigere la liberalizzazione da parte dei paesi in via di sviluppo.
Onorevoli colleghi, signor Commissario, il successo del round, la legittimità e la credibilità dell’OMC dipendono anche, indiscutibilmente, dalla misura in cui la società civile si sente partecipe dei benefici derivanti dal commercio internazionale.
In un processo che, sin da Seattle, suscita grande interesse sociale, sembra essenziale evidenziare il ruolo che devono svolgere i parlamenti democratici nel dar voce al sentimento popolare in consessi internazionali quali l’OMC e, nel caso del Parlamento europeo, quale organo di controllo democratico della politica commerciale dell’Unione e futuro colegislatore in materia, una volta che entrerà in vigore la Costituzione europea. Un ulteriore argomento, se mi permettete un breve inciso su un tema di grande attualità, che si aggiunge al lungo elenco di progressi rappresentati dalla Costituzione e che giustifica un voto europeo favorevole, sia in Francia sia negli altri paesi.
Onorevoli colleghi, signor Commissario, come diceva il poeta spagnolo Antonio Machado, “viandante, non c’è cammino, se non andando”. Siamo a metà strada tra Ginevra e Hong Kong, tra la nostalgia per ciò che ci lasciamo alle spalle e l’impazienza di giungere a destinazione. Dobbiamo arrivare a Hong Kong con una proposta ambiziosa ed equilibrata, della quale la società civile e tutti i paesi membri dell’OMC si sentano partecipi e soddisfatti del risultato.
Peter Mandelson,Membro della Commissione. – (EN) Signor Presidente, vorrei innanzi tutto congratularmi con l’onorevole Moreno Sánchez per la sua ottima relazione, in cui trova espressione non solo il parere dell’autore, ma anche dell’Assemblea nel suo insieme. Accolgo con favore questa discussione, perché considero il Parlamento il partner essenziale della Commissione nella conduzione delle nostre politiche commerciali, in particolare per quanto riguarda l’avanzamento del ciclo di Doha, che rimane la nostra priorità numero uno.
L’onorevole Moreno Sánchez ha sottolineato la necessità di compiere progressi su tutte le questioni comprese in quest’agenda di ampio respiro, con un chiaro accento – che sostengo con convinzione – sugli obiettivi della riduzione della povertà e dello sviluppo sostenibile. Tali obiettivi erano al centro della carta inaugurale di questo ciclo di negoziati e rimangono tanto importanti oggi quanto lo erano al momento della loro formulazione.
Da quando ho assunto l’incarico, ho fatto tutto il possibile per far progredire l’agenda di sviluppo di Doha e mantenerla sui giusti binari. Voglio che Doha metta il commercio al servizio dello sviluppo. Questo è ciò in cui credo e promuovo ed è al centro delle politiche che perseguo.
L’Europa tuttavia non può procedere da sola. Come ho affermato a Ginevra il mio primo giorno in veste di Commissario responsabile per il commercio, l’Unione non può essere l’unico banchiere dell’OMC. L’estate scorsa, l’Europa ha avuto il coraggio di mettere le sovvenzioni alle esportazioni agricole sul tavolo dei negoziati. Spetta ora ad altri scoprire le proprie carte. In termini concreti, questo round deve portare a un migliore accesso ai mercati e a maggiori opportunità commerciali per tutti, non solo per i paesi in via di sviluppo – mi aspetto e voglio che siano i maggiori vincitori in questi negoziati – ma anche per la nostra industria e per i prestatori di servizi in Europa. Ciò ci permetterà di valorizzare i punti forti dell’Europa nell’economia della conoscenza, per la prosperità e a beneficio di tutti.
Anche l’accesso al mercato per i prodotti industriali – i NAMA – e i servizi è una questione fondamentale nell’ambito dei negoziati. Senza compiere progressi in materia, non si può concludere il ciclo. A tal fine, intendo assicurare che i paesi in via di sviluppo più avanzati dedichino maggiore attenzione alle questioni non agricole. Finora, hanno promosso con insistenza i loro interessi agricoli, come hanno pieno diritto di fare e come mi aspetto che facciano. Tuttavia, hanno mostrato scarsa disponibilità ad affrontare la necessità di un passo reale da parte loro sui NAMA e sui servizi, anche se un’analisi oggettiva rivela che ciò sarebbe nel loro stesso interesse economico. Questa situazione deve cambiare. Dobbiamo tutti dar prova di disponibilità ad adattare, modificare e conciliare gli interessi degli uni e degli altri. Questo è il motivo per cui abbiamo fatto la nostra mossa sull’agricoltura.
Gli altri principali paesi industrializzati devono ora seguire il nostro esempio ed essere più intraprendenti sui servizi e lavorare alle loro riforme agricole, al fine di portarsi alla pari con ciò che abbiamo proposto noi in Europa.
La scorsa settimana, si sono svolte diverse riunioni informali dei ministri del Commercio dell’OMC a Parigi. Ho espresso reale preoccupazione per la lentezza dei negoziati attuali. Ho invitato tutti i membri a smetterla di tenere le carte strette al petto e a cominciare a metterle sul tavolo. Ciò vale per tutti noi, non sto solo puntando il dito contro gli altri. Tutti dobbiamo farlo, non solo l’Europa.
Ho anche spiegato che cosa intendiamo per round ambizioso. E’ necessario compiere progressi paralleli in tutti e tre i pilastri dei negoziati sull’agricoltura – non solo le sovvenzioni alle esportazioni – comprese le tariffe e le quote che limitano l’accesso al mercato. Tutti i paesi industrializzati – non solo l’Unione europea – devono compiere sforzi visibili al fine di riformare le rispettive politiche agricole; una riduzione sostanziale e reale – non solo sulla carta – delle tariffe industriali deve essere prevista da tutti i paesi in condizione di farlo, compresi i paesi in via di sviluppo più avanzati, sempre nel rispetto delle circostanze specifiche dei più deboli. Si devono presentate proposte su servizi che offrano nuove ed effettive opportunità commerciali e si devono rafforzare sensibilmente le regole dell’OMC, che si tratti di agevolazione del commercio, di misure antidumping o di indicazioni geografiche.
Ho anche rinnovato la mia richiesta di sforzi supplementari volti a rispondere alle preoccupazioni specifiche dei paesi in via di sviluppo, in particolare – anche se non esclusivamente – quelli poveri e vulnerabili, tramite un trattamento speciale e differenziato nel round e una considerevole intensificazione degli aiuti al commercio da parte dalle regioni più ricche del mondo. Avete ragione ad identificare la creazione di capacità – il sostegno essenziale che dobbiamo fornire – per permettere al commercio di esplicarsi e agevolare tale adeguamento, affinché i paesi in via di sviluppo, in particolare quelli più deboli, possano effettivamente partecipare delle opportunità commerciali che stiamo proponendo in questo ciclo di negoziati.
Abbiamo compiuto progressi a Parigi. Abbiamo raggiunto l’accordo sulla questione vitale, ma prettamente tecnica, della conversione dei diritti doganali specifici – tot euro per bushel di questo, tot euro per chilo di quello – in equivalenti percentuali ad valorem. Sebbene l’aspetto fondamentale riguardante in quale misura e su quali basi saranno ridotti questi equivalenti tariffari rimanga da discutere – ci si arriverà più avanti – abbiamo ora una base su cui procedere per quanto riguarda l’agricoltura e, di conseguenza, tutti gli altri aspetti dell’agenda di sviluppo di Doha. Al riguardo vorrei riconoscere e rendere omaggio al lavoro svolto dal Commissario Fischer Boel. L’agricoltura è un tema ostico e rispetto il modo in cui gestisce la questione.
Possiamo anche attenderci progressi sulle tariffe industriali nei prossimi mesi. Molti membri riaffermano inoltre la loro intenzione di presentare proposte migliori sui servizi entro la fine del mese. Ci attendiamo un’intensificazione delle discussioni tra i principali soggetti interessati entro la miniriunione ministeriale in Cina, che si svolgerà il 12 e 13 luglio. Prima della pausa estiva, dovremmo vedere una prima bozza di quello che potrebbe essere il possibile pacchetto per Hong Kong. Affinché sia possibile conseguire un risultato ambizioso a Hong Kong alla fine dell’anno, e quindi un round ambizioso, questa prima bozza, che mi auguro sia pronta per luglio, dovrebbe come minimo identificare innanzi tutto i settori di crescente convergenza tra i membri dell’OMC, questione per questione. Dovrebbe inoltre precisare il livello di ambizione condiviso sugli aspetti fondamentali dell’accesso al mercato: agricoltura, NAMA e servizi. Infine, dovrebbe individuare i principali ambiti problematici su cui occorrerà trovare l’accordo per garantire il successo di Hong Kong e completare il ciclo di negoziati.
Sono lieto che queste idee siano contenute nella sintesi della presidenza della miniriunione ministeriale di Parigi. Potete essere certi che la Commissione proseguirà i lavori con grande energia e ambizione in vista di Hong Kong.
La Commissione concorda sinceramente con gran parte della relazione, ma vorrei solo esaminare due punti specifici. Per quanto riguarda la menzione specifica della flessibilità per i paesi in via di sviluppo al paragrafo 6 della relazione, la Commissione concorda con l’impostazione della questione. Siamo disposti a concedere flessibilità ai paesi in via di sviluppo tramite un trattamento speciale e differenziato, sia per i paesi meno avanzati sia per altri paesi deboli e vulnerabili. Tuttavia, possiamo farlo soltanto se teniamo conto del livello di sviluppo e ciò significa differenziare i paesi in via di sviluppo questione per questione. Non possiamo semplicemente accettare un unico criterio uguale per tutti.
Il secondo punto riguarda la proposta relativa a un “capitolo sullo sviluppo” nei negoziati sull’agricoltura, contenuta nel paragrafo 9. La Commissione può accettare che il quadro normativo possa e debba proteggere gli interessi dell’Unione europea. Tuttavia, è troppo ottimistico affermare che: “… l’UE riuscirà ad affrontare agevolmente tali riduzioni” degli aiuti interni che distorcono il commercio. Sull’accesso al mercato, la relazione presuppone che un trattamento molto positivo per i prodotti sensibili permetterà all’Unione di proteggere le proprie organizzazioni di mercato. E’ senza dubbio ciò che l’Unione si augura, ma si dovranno comunque fare difficili concessioni su alcuni prodotti, anche nelle migliori circostanze.
Concluderei qui. Ascolterò gli interventi degli onorevoli deputati e risponderò alla fine della discussione, se e quando avrò la possibilità di farlo. Ringrazio ancora una volta l’onorevole Moreno Sánchez per la sua relazione e l’Assemblea per la possibilità di discutere questo tema importantissimo.
Maria Martens (PPE-DE), relatore per parere della commissione per lo sviluppo. – (NL) Il ciclo di negoziati di Doha sullo sviluppo dovrebbe dare alle economie dei paesi in via di sviluppo una boccata d’ossigeno ed anche un posto effettivo nell’economia mondiale. E’ orientato verso una più equa distribuzione nel mondo.
Per lottare contro la povertà nel mondo, abbiamo definito i cosiddetti obiettivi di sviluppo del Millennio. Sane condizioni commerciali per i paesi in via di sviluppo possono apportare un contributo significativo ed è a questo che dobbiamo mirare a Hong Kong. Vorrei evidenziare diversi aspetti, alcuni dei quali sono già stati affrontati dal Commissario.
Nella nostra politica commerciale dovremmo saper operare una migliore distinzione tra i diversi paesi in via di sviluppo. Le discrepanze sono troppo ampie per un quadro uniforme. Vi sono economie forti e deboli, grandi e piccole. Vi sono paesi con margini di produzione e crescita ampi e limitati. Dovremmo saper personalizzare meglio la nostra politica. Per questo motivo, il trattamento speciale e differenziato dei paesi in via di sviluppo deve essere uno dei punti chiave dell’agenda per Hong Kong.
Si è parlato molto delle ripercussioni che gli accordi di Hong Kong avranno sulle concessioni commerciali fatte ai paesi in via di sviluppo, i quali temono un’erosione delle preferenze. Vorrei chiedere al Commissario di informare l’Assemblea, dopo i negoziati, se siano state effettivamente erose.
In terzo luogo, sembra che i paesi in via di sviluppo non siano ancora sufficientemente in grado di trarre vantaggi reali dalle opportunità offerte loro e vorrei quindi evidenziare l’importanza della creazione di capacità e dell’assistenza tecnica. Dobbiamo lavorare sodo su questi aspetti, al fine di rafforzare le capacità di esportazione e commerciali di tali paesi. E’ altresì importante, per i paesi che fanno assegnamento su uno o due prodotti di esportazione, cercare di incoraggiarli a diversificare la produzione.
Vorrei ora accennare alla questione delle sovvenzioni all’esportazione, già menzionata dal Commissario, i cui effetti negativi sui mercati locali sono già noti. Dobbiamo elaborare quanto prima possibile un calendario per la graduale eliminazione delle sovvenzioni all’esportazione. Purtroppo, nel testo non è fissato un termine ultimo.
Infine, l’Unione europea ha un compito importante da svolgere a Hong Kong. Sappiamo tutti come sono andati i negoziati a Cancún. Tale situazione non deve ripetersi. Vorrei infine ringraziare il relatore per il suo valido lavoro e per la buona cooperazione.
Joseph Daul (PPE-DE), relatore per parere della commissione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. – (FR) Signor Presidente, signor Commissario, onorevoli colleghi, la discussione di oggi riveste particolare importanza, in quanto siamo in una fase di accelerazione dei negoziati a Ginevra. Lei ha affermato che, la scorsa settimana, a Parigi, la riunione ministeriale ha compiuto progressi. Da parte mia, signor Commissario, vorrei fare quattro osservazioni.
In primo luogo, sono molto preoccupato per l’atteggiamento adottato da numerosi paesi, che non si impegnano realmente in questi negoziati. Ne considero prova l’assenza totale di progressi reali in ambiti diversi dall’agricoltura. Le discussioni sull’accesso al mercato per i prodotti industriali e i servizi sono a un punto morto, così come quelli riguardanti le norme. Non possiamo accettare negoziati così squilibrati, nei quali l’agricoltura paga per tutti gli altri settori, dal momento che l’Unione europea ha già compiuto sforzi enormi in questo ambito particolare.
In secondo luogo, la riuscita del ciclo di negoziati comporta una reale assunzione di responsabilità da parte dei paesi emergenti, quali il Brasile, l’India e la Cina, nell’ambito dei negoziati. Anche questi paesi devono aprire i loro mercati ad altri paesi in via di sviluppo, perché la vera forza motrice dello sviluppo, nel corso dei prossimi anni, sarà l’intensificazione degli scambi tra i paesi del sud.
In terzo luogo, la recente decisione dell’organo di appello relativa allo zucchero ci ricorda che non esiste buona fede nei negoziati. E’ quindi essenziale valutare ogni aspetto dei negoziati alla luce della normativa dell’OMC, onde evitare che, nel giro di qualche anno, il compromesso che avremo accettato sia annullato da una decisione dei giudici dell’OMC e con tutta probabilità penalizzi anche i paesi poveri. Dobbiamo riesaminare la questione.
Il quarto ed ultimo punto, ed è quello più importante, sul quale vorrei insistere presso di lei, signor Commissario, è che i negoziatori che prendono decisioni oggi hanno una grande responsabilità per il futuro di milioni di donne e uomini. E’ facile concludere un negoziato, ma credo che i problemi emergeranno forse solo in un futuro più lontano, quando lei non sarà più in carica. Ho fiducia in lei. Tuttavia, e soprattutto, non lasci ai suoi successori il compito di risolvere le difficoltà. Prima di firmare e dire sì, riflettiamo insieme due volte sulla questione, in modo da poter passare un dossier accettabile ai suoi successori.
Georgios Papastamkos, a nome del gruppo PPE-DE. – (EL) Signor Presidente, la sfida della Conferenza di Hong Kong fissa i limiti della credibilità, dell’approvazione operativa e del dinamismo dell’OMC.
A mio parere, cinque problemi strutturali ostacolano i negoziati del ciclo di Doha.
In primo luogo, l’incapacità dei principali partner commerciali di rassegnarsi a cedere l’indipendenza finanziaria e politica interna.
In secondo luogo, la difficoltà a prendere decisioni, dovuta all’enorme aumento dei membri dell’OMC, accompagnato dalla sua crescente eterogeneità.
In terzo luogo, la mancanza di equilibrio nella liberalizzazione del commercio tra sistemi di scambi avanzati. In termini comparativi, l’Unione ha fatto le maggiori concessioni, con il risultato che il mercato europeo è il più aperto del mondo.
In quarto luogo, la mancanza di volontà da parte di altri soggetti internazionali di assumere un ruolo guida nei negoziati.
Infine, la posizione difensiva dei paesi in via di sviluppo nei confronti di nuove materie oggetto di negoziato.
L’estensione e il rafforzamento del quadro normativo multilaterale dell’OMC, che costituisce la strategia dell’Unione, è limitato dal principio della specializzazione delle organizzazioni internazionali. Tale principio stabilisce anche i limiti dell’ulteriore sviluppo dell’OMC sia nell’organizzazione globale della politica sociale sia nell’organizzazione globale delle questioni ambientali.
Di conseguenza, a mio parere ciò che occorre definire è una nuova architettura globale per integrare i seguenti pilastri:
– l’OMC, che promuove in modo soddisfacente la distribuzione efficace delle risorse;
– un’organizzazione economica internazionale per la stabilità economica internazionale;
– un’organizzazione per lo sviluppo internazionale per la ridistribuzione internazionale delle risorse e il sostegno allo sviluppo dei paesi poveri;
– un’organizzazione ambientale internazionale per la tutela e il miglioramento dell’ambiente globale e delle risorse naturali.
Le condizioni dell’economia globalizzata impongono una nuova regolamentazione generale del sistema economico globale, sulla base dell’economia di mercato sociale ed ecologica, che promuova la distribuzione delle risorse, la stabilità, la solidarietà internazionale e la tutela dell’ambiente e dei consumatori.
Erika Mann, a nome del gruppo PSE. – (DE) Signor Presidente, signor Commissario, onorevoli colleghi, vorrei solo trattare un paio di aspetti di cui si deve tenere conto nell’esaminare la relazione, che in fondo è la prima relazione presentata quest’anno dalla commissione per il commercio internazionale. Nella seconda metà dell’anno, elaboreremo una seconda relazione per dar seguito, esaminare e commentare le decisioni e i negoziati della Commissione.
Per quanto riguarda sia la commissione competente sia il mio gruppo, il quesito da porsi è che cosa si possa fare, innanzi tutto per garantire che si stia effettivamente svolgendo un lavoro valido e utile per conseguire un risultato positivo a Hong Kong – anche se non si perverrà a una conclusione definitiva, un risultato positivo sarebbe comunque gradito – in modo che i negoziati possano poi proseguire su una base solida; in secondo luogo, per garantire che la nostra grande esigenza, espressa nel titolo “ciclo per lo sviluppo”, si traduca in realtà e, infine, per garantire la tutela degli interessi dell’Unione europea.
Naturalmente la situazione è molto complessa, se si tiene conto del fatto che a Cancún non è andata proprio bene, che l’inizio è stato molto difficile e che i negoziati al momento sembrano alquanto traballanti. Sussiste anche il problema dei paesi con economie emergenti, che lottano per poter assumere un ruolo guida globale nel mondo. Ciò è molto evidente nel caso della Cina – sulla quale si svolgerà una discussione domani – ma anche del Brasile, e naturalmente dell’India. Tutto ciò contribuisce a rendere la situazione molto difficile e complessa.
Vi è un altro aspetto su cui occorre riflettere. Vorrei chiederle, signor Commissario, di esaminare il modo in cui si realizzerà l’interazione tra l’Assemblea, la commissione per il commercio internazionale e lei stesso nel corso dell’anno. Se il nuovo Trattato fosse già in vigore, il Parlamento godrebbe di molti più poteri, con meccanismi di consultazione più diretti. I nostri meccanismi sono ottimi e consolidati, ma sono tutti di natura un po’ informale.
Al tempo stesso, tuttavia, è anche vero che i cittadini vorrebbero che fossimo coinvolti in modo più diretto, con più poteri e più diritti, in un processo che comprende negoziati in materia di agricoltura e servizi. Sono settori molto sensibili, la cui discussione può essere molto controversa e sui quali non esistono posizioni univoche, né nel nostro gruppo, né in seno all’Assemblea né tra la popolazione in generale.
Come possiamo dunque garantire che, nel corso dell’anno, sapremo organizzare questo processo cruciale, che coinvolge la Commissione, la commissione per il commercio internazionale e il Parlamento, in modo che sfoci in una cooperazione proficua, che vada oltre ciò che abbiamo già stabilito e comprenda i settori critici che ho menzionato?
Se di fatto deve prevedere cambiamenti nei negoziati, o modificare i suoi piani – e può essere certo, signor Commissario, che le toccherà farlo – come si può garantire che la cooperazione sia abbastanza stretta da permetterci di assolvere realmente la responsabilità che abbiamo nei confronti dei cittadini?
Johan Van Hecke, a nome del gruppo ALDE. – (NL) Signor Presidente, vorrei innanzi tutto congratularmi con il relatore per il suo lavoro, che a mio parere fornisce un ottima visione d’insieme dello stato attuale dei negoziati, in seguito all’accordo quadro dell’OMC a Ginevra e alla vigilia della conferenza di Hong Kong. E’ chiaro che il successo del ciclo di negoziati di Doha per lo sviluppo è cruciale per un’ulteriore liberalizzazione degli scambi mondiali. Infatti, dopo il fallimento di Cancún, la credibilità del sistema multilaterale di scambi è a rischio. Sebbene il successo di Hong Kong sia essenziale per dare impulso alla crescita economica, esso metterà anche seriamente alla prova la legittimità dell’OMC. Condivido il parere del Commissario Mandelson, secondo cui si deve considerare che l’oggetto del ciclo di Doha sia principalmente lo sviluppo. Commercio e sviluppo devono andare di pari passo e un maggiore coinvolgimento dei paesi in via di sviluppo nel quadro di un commercio mondiale equo costituisce un fattore essenziale nella lotta contro la fame e la povertà nel mondo.
E’ promettente che la scorsa settimana si sia raggiunto un compromesso sui diritti di importazione per i prodotti agricoli e che con esso si sia scongiurato un incombente fallimento del ciclo di Doha. La conversione dei diritti di importazione lineari in tariffe comuni su base percentuale, in funzione del valore dei prodotti, è un prudente ma importante passo nella direzione di un accordo generale sugli scambi di prodotti agricoli.
Il mio gruppo rimane nondimeno convinto che tutte le sovvenzioni all’esportazione nel settore agricolo debbano essere definitivamente abolite, perché è e rimane inaccettabile che l’attuale politica agricola dell’Unione costi a una famiglia europea media circa 100 euro supplementari e renda più difficile per i paesi in via di sviluppo sfuggire alla trappola della povertà. La Banca mondiale ha calcolato di recente che il successo in questo ciclo di negoziati commerciali può determinare un incremento del reddito mondiale di 385 miliardi di euro all’anno. Se l’Africa riesce ad accrescere la sua quota nel commercio mondiale dal 2 a non più del 3 per cento, il suo reddito annuo aumenterà di 70 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra di gran lunga superiore a quella che riceve attualmente in aiuti allo sviluppo. Anche solo per questo motivo, non possiamo permetterci un nuovo fallimento.
Caroline Lucas, a nome del gruppo Verts/ALE. – (EN) Signor Presidente, ringrazio l’onorevole Moreno Sánchez per il suo lavoro in materia, ma non credo sarà sorpreso dal fatto che purtroppo il nostro gruppo non può sostenere la relazione nella sua forma attuale. Sebbene vi siano alcuni elementi validi, che evidenziano gli obiettivi dello sviluppo sostenibile e dell’eliminazione della povertà, essi sono gravemente compromessi dall’impostazione generale della relazione, che rappresenta un’adesione acritica al libero scambio deregolamentato, quale strumento principale per conseguire tali obiettivi.
Il presupposto sembra ancora essere che più scambi equivalgano automaticamente a più crescita, che a sua volta equivale automaticamente a maggiore riduzione della povertà, ma la realtà sul terreno è alquanto diversa e, come risulta chiaramente dalla recente relazione dell’UNDP sui paesi meno avanzati, la maggiore integrazione di alcuni dei paesi più poveri nel sistema di scambi internazionali in genere non ha determinato una riduzione della povertà tra le persone più povere.
Un altro presupposto alla base della relazione è che, se solo chi è critico nei confronti dell’OMC comprendesse meglio l’istituzione, in qualche modo se ne innamorerebbe misteriosamente o, per usare le parole della relazione, “l’OMC deve fornire adeguate informazioni e spiegazioni alla società civile [...] in modo da evitare che il processo di globalizzazione e il ruolo svolto dall’OMC siano ampiamente fraintesi e travisati”. Francamente, si tratta di un’assurdità inutile e paternalistica. Ampi settori della società civile sanno sempre meglio che cosa sia l’OMC e sanno precisamente quanto dannoso possa essere il processo di globalizzazione economica. Non abbiamo bisogno di un’operazione di facciata nelle pubbliche relazioni, ma di una riforma fondamentale e profonda delle istituzioni e delle regole del commercio mondiale, che ponga la sostenibilità e l’uguaglianza realmente al centro di tale sistema.
Vorrei ora esaminare alcuni aspetti specifici: il nostro gruppo ha ripresentato il suo emendamento originale sui corsi dei prodotti di base. La diminuzione dei prezzi dei prodotti di base è uno dei maggiori motivi per cui i paesi più poveri non beneficiano di un trattamento più equo negli scambi mondiali. Ben 43 paesi in via di sviluppo dipendono da un unico prodotto di base per oltre il 20 per cento delle loro entrate totali derivanti dalle esportazioni. Se i prezzi dei 10 principali prodotti agricoli esportati dai paesi in via di sviluppo fossero aumentati in base all’inflazione dal 1980, nel 2002 gli esportatori avrebbero ottenuto circa 112 miliardi di dollari in più, rispetto a quanto hanno effettivamente ottenuto, una cifra che sarebbe stata pari al doppio del livello di assistenza ufficiale allo sviluppo. Francamente, mi sembra singolare che la commissione per il commercio internazionale, che si vanta di affermare che gli scambi devono sostenere l’eliminazione della povertà, abbia potuto respingere un emendamento che chiede un’azione a favore della stabilizzazione dei corsi dei prodotti di base. Mi auguro che domani l’Assemblea ci accordi il suo sostegno.
Abbiamo anche presentato un emendamento riguardante il mandato della Commissione. E’ difficile immaginare quale giustificazione possa avere la Commissione per operare in base a un mandato di sei anni fa, che di conseguenza non riflette i notevoli cambiamenti intervenuti dalla sua adozione. Forse il Commissario Mandelson può esporci tale giustificazione, perché, da un punto di vista istituzionale, dopo il fallimento di due delle ultime tre Conferenze ministeriali, non possiamo continuare come se nulla fosse accaduto. Non possiamo ignorare la resistenza opposta da molti paesi del sud ad affidare un numero sempre maggiore di nuove competenze all’OMC.
Ora che è in carica una nuova Commissione e nell’imminenza della nuova Conferenza ministeriale dell’OMC, dovremmo trasmettere un segnale alla comunità internazionale, per indicare che l’Europa tiene conto di questi cambiamenti ed è in grado di imparare dagli errori commessi a Seattle e a Cancún.
Vittorio Emanuele Agnoletto, a nome del gruppo GUE/NGL. – Signor Presidente, onorevoli colleghi, sono rimasto veramente strabiliato sentendo in quest’Aula che l’OMC è lo strumento per migliorare e per promuovere un commercio equo e solidale. Ma come si può affermare una cosa simile?
E’ sufficiente vedere quali sono stati i risultati concreti dei round di trattative che si sono realizzati e che si stanno realizzando. Ma come si fa a parlare di reciprocità tra un gigante e un nano, tra Davide e Golia? Come si può sperare che paesi in via di sviluppo siano i vincitori di questo round se noi non cambiamo le nostre politiche?
Perché non si entra nel merito dei risultati? Perché non si dice come le sovvenzioni a 25 000 coltivatori di cotone degli Stati Uniti hanno ridotto alla fame milioni di persone nell’Africa centrale? Perché non si dice come i TRIPS (trade-related aspects of intellectual property rights) hanno privato e continuano a privare di farmaci anti-AIDS 30 milioni di persone – la stragrande maggioranza in Africa – e come l’imposizione di TRIPS all’India abbia dimezzato le persone del terzo mondo in grado di accedere ai farmaci anti-AIDS?
Perché non si parla del disastro prodotto dalle sovvenzioni all’agricoltura intensiva versate dall’Europa e dagli Stati Uniti? Un disastro che in occasione del vertice di Cancun ha coalizzato il Brasile, l’India e i paesi del sud del mondo contro l’Europa e gli Stati Uniti.
E poi, come ci stiamo preparando al nuovo vertice dell’OMC che si terrà a Hong Kong? L’impressione è che si arriverà a liberalizzare i servizi sociali e sanitari, in nome di un liberismo che finirebbe semplicemente per rendere questi servizi a pagamento – controllati dalle grandi multinazionali – nei paesi del sud del mondo, impedendo a gran parte della popolazione di potervi accedere.
Perché non parliamo, allora, degli Accordi di Partenariato Economico? Ne abbiamo discusso ed abbiamo visto il loro drammatico risultato nell’Assemblea parlamentare paritetica ACP-UE riunita a Bamako. Attraverso la richiesta di liberalizzazione completa dei commerci con il sud del mondo – in Africa in particolare – e l’abbattimento dei dazi di quelle nazioni, tali accordi hanno contribuito a distruggerle sul piano economico, non permettendo loro di scegliere autonomamente le proprie strategie per uno sviluppo differente.
Ritengo, invece che noi dovremmo batterci per una riduzione del ruolo dell’Organizzazione mondiale del commercio. Dovremmo batterci per far sì che tutta una serie di prodotti possano passare sotto la gestione di altre agenzie, ad esempio delle agenzie delle Nazioni Unite, a cominciare dai prodotti agricoli e farmaceutici. Per questi motivi il nostro gruppo esprime un parere fortemente negativo sulla relazione presentata in quest’Aula.
Seán Ó Neachtain, a nome del gruppo UEN. – (EN) Signor Presidente, nonostante il fallimento della conferenza di Cancún nel settembre 2003, i negoziati sugli scambi multilaterali in seno all’OMC sono tuttora definiti dal programma di Doha. L’accordo raggiunto nell’agosto 2004 dal Consiglio generale dell’OMC è riuscito a rilanciare i negoziati, ed è un fatto di cui mi compiaccio.
Fin dall’inizio, permettetemi di dire che accolgo anch’io con favore la relazione e mi congratulo con il relatore per il suo lavoro. Sono particolarmente lieto che la proposta presentata a nome della commissione per il commercio internazionale rappresenti un notevole miglioramento rispetto al documento originale, in particolare per quanto riguarda il modo in cui integrare i paesi in via di sviluppo nel sistema mondiale di scambi e l’importanza da attribuire alla liberalizzazione di alcuni servizi non essenziali e, aspetto significativo, alle soluzioni proposte per ridurre il protezionismo in agricoltura.
Gli emendamenti di compromesso approvati dalla commissione a mio parere hanno migliorato il testo. La relazione presenta un’analisi imparziale, che tiene debitamente conto delle aspettative e degli interessi europei nell’ambito di un ciclo di negoziati destinato ad essere difficoltoso.
Nel contesto delle trattative in sede di OMC, sono preoccupato per l’agricoltura e, in particolare, per il futuro delle piccole aziende agricole a conduzione familiare nel mio paese, che, va detto, costituiscono la spina dorsale della società irlandese. Non si può assolutamente cambiare il modello agricolo europeo o l’accordo di Lussemburgo sulla riforma della PAC. Per quanto riguarda gli agricoltori europei, essi hanno accettato una riforma che personalmente considero scolpita nel ferro e che rimane valida fino al 2013. Hanno accettato una riforma che ha preso le mosse dalla necessità di allineare la PAC all’OMC. Hanno accettato un accordo che comporta cambiamenti radicali nel settore. I nostri agricoltori hanno bisogno di una politica stabile per pianificare il futuro delle loro aziende e per il sostentamento delle loro famiglie. Non si possono compiere passi indietro su questi impegni. Devo dire, signor Commissario, che sono incoraggiato da ciò che ha affermato poc’anzi al riguardo e sono certo che difenderà con vigore i nostri interessi in questo ambito.
Infine, credo si sia tutti d’accordo sul fatto che l’OMC sia la sede migliore in cui proteggere i diritti di tutti gli Stati, ricchi e poveri, industrializzati e in via di sviluppo. Ritengo altresì che il multilateralismo sia la via da seguire per compiere progressi e sono lieto che la Commissione abbia confermato questa posizione. Attendo con impazienza la Conferenza di Hong Kong nel dicembre di quest’anno.
Daniel Caspary (PPE-DE). – (DE) Signor Presidente, onorevoli colleghi, è assolutamente indispensabile compiere progressi in questo ciclo di negoziati riguardanti la riforma e la liberalizzazione. Secondo i calcoli della Banca mondiale, cui ha accennato poc’anzi l’onorevole Van Hecke, la conclusione positiva del ciclo di Doha potrebbe incrementare il reddito globale di 500 miliardi di euro all’anno e quindi il successo di Doha significa guerra alla povertà, significa aiuti allo sviluppo efficaci e su larga scala e quindi una possibilità di prosperità e giustizia sociale per tutti nel mondo. E’ un’opportunità che dobbiamo cogliere nell’interesse dei cittadini d’Europa e dei cittadini di tutto il mondo.
Vorrei esaminare la questione della partecipazione pubblica, già affrontata dalle onorevoli Mann e Lucas. Le immagini della “battaglia di Seattle” sono ancora vive nella nostra memoria. Sempre più persone considerano tutto ciò che è sintetizzato nel termine “globalizzazione” più come un pericolo che come un’opportunità; in Europa, intere generazioni completano gli studi senza che sia loro insegnato su che cosa si fondino l’economia di mercato sociale e il commercio mondiale, il che li lascia esposti alla disinformazione e in balia di campagne ingannevoli. I nostri media diffondono notizie quasi solo sul trasferimento della produzione, anziché sulla creazione di nuovi posti di lavoro o sulla maggiore prosperità, che dobbiamo entrambe al commercio globale. Ciò rende le persone sempre più incerte e gruppi radicali come Attac, tra gli altri, utilizzano i finanziamenti che ricevono dalla Comunità per operare contro gli interessi della Comunità, disinformando e terrorizzando le persone.
Vorrei quindi chiedere alla Commissione – tramite lei, Commissario Mandelson – di elaborare un programma in base al quale, parallelamente ai negoziati, si possa organizzare una campagna attiva per convincere l’opinione pubblica a sostenere il commercio mondiale libero ed equo, al fine di persuadere i cittadini d’Europa e del mondo dei vantaggi offerti dal commercio mondiale e di averli al nostro fianco lungo questo cammino giusto e necessario.
(Applausi)
Kader Arif (PSE). – (FR) Signor Presidente, signor Commissario, onorevoli colleghi, sin dalla sua istituzione, l’OMC è stata oggetto di aspre critiche. Oggi, in occasione del decimo anniversario dell’organizzazione, potremmo fare un bilancio e porci il seguente interrogativo: abbiamo bisogno dell’OMC?
Nel contesto dell’espansione inarrestabile della globalizzazione, siamo innegabilmente costretti a riconoscere la necessità di un’organizzazione multilaterale. Tuttavia, a un altro interrogativo, “abbiamo bisogno di questa organizzazione, con le sue attuali modalità di funzionamento?”, la mia risposta sarebbe molto più prudente. Infatti, oggigiorno il mondo non riesce ancora a distribuire le sue ricchezze in modo equilibrato. Il commercio ha un ruolo importante da svolgere nel creare questo equilibrio, ma le sue regole attuali sono finora rimaste ampiamente sorde alle richieste e alle esigenze di gran parte del pianeta. Alla luce di questa constatazione, a volte nutro l’ingenua speranza che la Conferenza di Hong Kong, che si svolgerà a fine anno, cambierà questa situazione innegabile e, soprattutto, risponderà infine alle aspettative suscitate dal lancio del programma di sviluppo di Doha.
Il mese scorso, il 10 e il 16 aprile, in tutto il mondo centinaia di ONG e associazioni hanno fatto sentire le loro voci a favore di un commercio più equo. Condivido il loro parere, secondo cui un commercio basato sul solo e semplicistico principio del permissivismo noncurante non determinerà una migliore distribuzione delle ricchezze, bensì il contrario.
Reindirizzare il commercio internazionale in modo da conferirgli una reale dimensione di giustizia sociale ed economica deve essere la nostra priorità. Se davvero desideriamo aiutare i paesi più poveri a trarre benefici dalla globalizzazione, dobbiamo rivedere tutte le regole del commercio mondiale in senso più equo, prendendo in considerazione il legame tra gli scambi e lo sviluppo sostenibile. A mio parere, i membri dell’OMC dovrebbero quindi includere questi principi tra i loro obiettivi, ma soprattutto trarre le conseguenze delle pratiche e delle regole adottate per poter poi adattare le politiche condotte e renderle più giuste e più eque.
Auspico anche un’OMC trasparente, un’organizzazione credibile e legittima, le cui decisioni possano essere sostenute dai suoi membri e dalla società civile. In veste di deputato europeo eletto da cittadini europei, posso solo constatare, e soprattutto deplorare, l’attuale mancanza di informazioni di cui sono vittima e che non mi permette di esercitare correttamente la mia funzione di controllo democratico. Ancor più deplorevole è il fatto che noi deputati europei non abbiamo voce in capitolo per quanto riguarda il mandato negoziale della Commissione. Lo stesso vale tuttavia per il nostro futuro.
Poiché mi preoccupano le conseguenze e le ripercussioni della direttiva sui servizi sui servizi pubblici europei, m’indigno facilmente di fronte agli effetti di una liberalizzazione dei servizi a livello mondiale che potrebbe minacciare servizi, spesso pubblici, legati alle necessità di base dei cittadini, nei paesi che ne hanno più spesso bisogno. Se siamo ampiamente d’accordo sulla necessità di escludere dai negoziati i servizi connessi alla sanità, all’istruzione, al settore culturale e audiovisivo, non dobbiamo però dimenticare i servizi che rispondono ad esigenze fondamentali quali l’acqua e l’energia, in quanto non possiamo esigere dai paesi in via di sviluppo una liberalizzazione di tali servizi tale da causarne lo smantellamento.
Vorrei ricordare che a New York, nel 2000, ci siamo impegnati a sostenere gli otto obiettivi di sviluppo del Millennio. Tali obiettivi di sviluppo non possono essere dissociati dal programma di sviluppo di Doha e dai negoziati in corso. Non possiamo fare promesse un giorno e dimenticarcele l’indomani. Il caso delle Filippine è un esempio tra tanti altri degli effetti nefasti della liberalizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua. Infatti, in seguito alla liberalizzazione di questo servizio nel 1997, non solo il prezzo dell’acqua è aumentato del 600 per cento, ma la qualità stessa dell’acqua è talmente peggiorata da essere oggi causa di malattie.
Temo fortemente che non riusciremo, entro il 2015, a dimezzare la percentuale della popolazione che non ha accesso permanente all’acqua. Senza accesso all’acqua, non si può vivere.
Friedrich-Wilhelm Graefe zu Baringdorf (Verts/ALE). – (DE) Signor Presidente, stasera abbiamo già sentito molte parole sul commercio equo e solidale. Il relatore vuole che sia a vantaggio di tutti e l’onorevole Caspary ha calcolato a nostro beneficio che 500 miliardi di euro renderanno tutti ricchi e felici. Persino il Commissario Mandelson mi dà l’impressione di credere che l’abbandono della produzione agricola nei nostri paesi determinerebbe un’esplosione di prosperità nei paesi del mondo in via di sviluppo.
Non condivido il loro idealismo. Il commercio non nutre gli affamati, né rende ricchi i poveri, e ad arricchirsi sono principalmente i gruppi d’interesse che chiedono il libero scambio nel desiderio di trarne profitto ad esclusione di altri. All’onorevole Caspary, che parla con tanta leggerezza di “commercio libero ed equo”, dico che il commercio libero e il commercio equo possono benissimo essere in contrasto ed escludersi a vicenda. Dobbiamo esaminare meglio se sia così, ed è ciò che vorrei fare.
Il Commissario Mandelson ha parlato della necessità di porre fine all’accesso ristretto al mercato, in particolare per i prodotti alimentari. Vorrei fargli notare che l’Unione europea è il maggiore importatore mondiale di prodotti alimentari, per cui qui non si tratta di accesso al mercato, ma di condizioni alle quali i prodotti arrivano sui nostri mercati. Se l’Unione europea concede ai paesi meno avanzati il libero accesso al nostro mercato, tale libero accesso al mercato non li rende automaticamente ricchi; al contrario, in questo caso si devono esaminare le condizioni applicabili al libero accesso al mercato. Se riescono a vendere i loro prodotti ai nostri livelli di prezzo, possono sviluppare le loro economie nazionali, ma se le multinazionali acquistano da questi paesi a livelli inferiori alla soglia di povertà, sarà la loro rovina. I loro prodotti giungono sui nostri mercati a prezzi che distruggono la nostra agricoltura.
Il Commissario ha parlato della necessità di affrontare attivamente la fornitura di servizi, ma non possiamo tutti tagliarci i capelli a vicenda; al contrario, dobbiamo anche produrre qualcosa. Nel settore agricolo, abbiamo bisogno di servizi attraverso la produzione. La salvaguardia dei paesaggi culturali rende un grande servizio alla società europea, un servizio per il quale gli agricoltori devono essere remunerati in base alle condizioni locali.
Sul mercato globale, professori, banchieri e persino Commissari hanno un prezzo inferiore ai prodotti agricoli, e questo è il motivo per cui dobbiamo parlare di condizioni, cioè di adeguarle e renderle eque. Non è semplice. E’ semplice definire il termine “libero” in termini quantitativi, ma farlo in termini qualitativi richiede qualche sforzo.
L’abolizione delle sovvenzioni all’esportazione in uno dei nostri principali settori d’importazione è il passo giusto da compiere, ma sarebbe una follia abbandonare la nostra produzione e lasciare che il mondo ci invada. Dobbiamo dotarci di una forma speciale di protezione esterna, che riproduca in altri paesi le condizioni cui sono soggetti la nostra produzione e i nostri agricoltori qui in Europa, e dobbiamo stabilire le condizioni, i prezzi e i livelli in modo che tali paesi possano sviluppare le loro economie, anziché essere spinti al di sotto della soglia di povertà, senza mandare in rovina i nostri agricoltori.
Signor Commissario Mandelson, mi auguro che potremo presto discutere l’argomento con lei più a lungo e in modo molto più approfondito in seno alla commissione per l’agricoltura.
Helmuth Markov (GUE/NGL). – (DE) Signor Presidente, signor Commissario, la Commissione si è dimostrata incapace di adempiere il mandato affidatole nel 1999, non solo ai negoziati di Seattle, ma anche a quelli di Cancún. Ritengo sia giusto che sia accaduto. Di conseguenza, si sarebbe dovuto affidare alla Commissione un mandato modificato, non incentrato su una maggiore deregolamentazione e apertura dei mercati, bensì sull’organizzazione di un effettivo commercio equo tra i vari paesi del mondo, i cui gradi di sviluppo sono notevolmente diversi.
Il commercio equo comporta l’introduzione di un sistema in base al quale tutti gli interessati abbiano opportunità reali di sviluppo e possano cogliere tali opportunità. Per alcuni paesi, ciò può significare proteggere i propri mercati finché l’economia regionale non sarà sufficientemente forte da reggere il confronto con la concorrenza estera. In altre regioni, ciò può significare aprire un mercato per offrire ad altri fornitori opportunità di esportazione. Anziché esercitare sempre maggiori pressioni a favore dell’apertura dei mercati, ciò significherebbe ridurre tali pressioni, che sono diventate permanenti. Accordi quali il GATS o il NAMA possono privare i paesi in via di sviluppo della possibilità di rafforzare i propri settori industriali e dei servizi e di sviluppare al tempo stesso norme ambientali e sociali elevate.
E’ però l’attuale dibattito sulle importazioni tessili a rivelare l’altro lato della medaglia: che cosa significa l’apertura dei mercati per le nazioni industrializzate. Quando si parla di agenda di sviluppo di Doha, l’espressione stessa indica che deve riguardare lo sviluppo e che non può trattarsi solo di apertura dei mercati. La prevenzione delle malattie, l’istruzione, la protezione sociale e i metodi di produzione ecologici costituiscono parte integrante dell’agenda.
Questo per noi è più importante dei temi di Singapore, anche se sembrano essersi ridotti da quattro a due. Per noi l’importante è creare sistemi di scambi che permettano di mantenere stabili i prezzi del caffè, del cacao, dei prodotti tessili, delle banane, del cotone, dello zucchero e di molti altri prodotti. Sono convinto che la strategia corretta non sia una maggiore concorrenza, ma una maggiore cooperazione.
Le sovvenzioni all’esportazione per le grandi imprese agroalimentari devono essere abolite. Non si deve fare alcun tentativo di deregolamentare i servizi pubblici, in particolare la distribuzione di acqua. Parallelamente all’OMC, le istituzioni competenti delle Nazioni Unite – l’UNCTAD o l’OIL, per esempio – devono avere maggiore influenza in materia di sviluppo. L’Unione europea deve dare una risposta diversa da quella che ha finora fornito alle richieste dei paesi in via di sviluppo di applicare il cosiddetto Mode 4.
Chiedere ai paesi in via di sviluppo di aprire i loro mercati a prodotti, servizi e capitali, nel momento stesso in cui l’Unione europea nega ai lavoratori meno qualificati l’accesso ai suoi mercati del lavoro, nei quali dovrebbe esistere libertà di circolazione, non ha nulla a che vedere con la parità di diritti. Se si vuole il commercio mondiale, si deve prima garantire uno sviluppo equilibrato, altrimenti gli scambi non promuoveranno il progresso, ma crescenti disparità tra ricchi e poveri.
Ciò che davvero vorrei dire all’onorevole Caspary è che chi considera Attac un gruppo radicale non ha compreso che è dalla presenza di opinioni diverse che trae vita la democrazia!
Paul Rübig (PPE-DE). – (DE) Signor Presidente, onorevoli colleghi, dovremmo anche chiederci in che modo Hong Kong e il ciclo di Doha possano aiutarci a conseguire gli obiettivi di Lisbona. La nostra principale preoccupazione riguarda la crescita e l’occupazione e sappiamo che i sindacati, le associazioni dei pensionati e i bambini chiedono di avere più soldi in tasca. La crescita è essenziale per la nostra società e preferisco non pensare al tipo di discussione che svolgeremmo in Aula se dovessimo affermare che vogliamo ottenere l’opposto di Lisbona. E’ perché siamo d’accordo sull’importanza degli obiettivi di Lisbona che è indispensabile preparare bene il ciclo dell’OMC. E’ necessario migliorare l’organizzazione interna dell’OMC, ma dobbiamo anche garantire che si arrivi a Hong Kong con un compromesso minimo valido, cosa che non siamo riusciti a fare la volta scorsa a Cancún. Se i nostri esperti a Ginevra non riescono a trovare un compromesso minimo, rischieremo di nuovo di non ottenere risultati credibili.
Il tema centrale dell’agenda di sviluppo è che la prosperità bisogna guadagnarsela; la si può ripartire una sola volta. Se vogliamo che sia duratura, dobbiamo guadagnarcela. Questo è il motivo per cui le piccole e medie imprese devono poter accedere ai mercati. Sono necessari prestiti per l’avviamento di nuove imprese, per la formazione e per le infrastrutture. Dobbiamo riflettere sul modo in cui, in questo ciclo di negoziati, si possa ottenere una maggiore prosperità in questi paesi: non ridistribuendo la ricchezza, ma aiutando le persone ad aiutare se stesse attraverso le strutture tradizionali delle aziende a conduzione familiare, cui sono abituati questi paesi. Dobbiamo permettere loro, ai paesi più poveri del mondo, di ottenere accesso non solo ai mercati locali e regionali, ma anche ai mercati globali, e a tal fine è necessaria la dimensione parlamentare. Signor Commissario, non abbiamo bisogno di maggior potere, ma semplicemente di concorrenza tra le migliori idee. In questo contesto, noi deputati europei siamo disposti ad aiutarla e ad instaurare un dialogo con lei al fine di riuscire ad ottenere insieme il meglio per l’Europa.
Katerina Batzeli (PSE). – (EL) Signor Presidente, signor Commissario, accogliamo tutti con favore la positiva conclusione dell’accordo di agosto 2004, il quale è in larga misura il risultato di iniziative comunitarie. Ci auguriamo che l’esito definitivo renda duraturi questi sforzi e queste iniziative comunitarie.
L’agricoltura ha finito per essere il capitolo più importante dei negoziati, sebbene avessimo insistito sin dall’inizio sulla necessità di prestare un’attenzione equilibrata a tutti gli aspetti del round, con risultati equi per tutti i settori e per tutti i partner.
Tuttavia, l’accordo definitivo non dovrebbe mettere in discussione alcun aspetto della recente riforma della politica agricola comune e dovrebbe garantire impegni equivalenti per tutti i partner commerciali.
La questione dell’accesso al mercato dei prodotti agricoli e, più importante, gli aspetti tecnici del metodo di calcolo degli equivalenti ad valorem si sono rivelati gli aspetti chiave dei negoziati. Gli impegni tecnici dovrebbero essere tali da salvaguardare la sostenibilità dei prodotti comunitari.
La protezione delle indicazioni geografiche nel settore agricolo e l’introduzione di aspetti non commerciali non dovrebbero essere solo un obiettivo, ma anche una condizione inderogabile per l’accordo definitivo. Questi elementi determinano anche il ruolo multifunzionale dell’agricoltura europea.
Il cotone è stato presentato come tema importante per promuovere i negoziati con i paesi meno avanzati. Ci auguriamo che gli impegni supplementari relativi a questo prodotto interesseranno anche altri partner commerciali. La relazione dell’onorevole Javier Moreno Sánchez è riuscita a mantenere l’equilibrio nelle sue proposte per i negoziati dell’OMC.
Signor Commissario, la invito a seguire il “principio poetico” del relatore, secondo il quale l’accordo provvisorio costituisce un passo avanti lungo un cammino che ancora non esiste perché il cammino si fa camminando. Tuttavia, gli obiettivi ci sono e le possibilità di deroga non possono essere illimitate.
Antolín Sánchez Presedo (PSE). – (ES) Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Commissario, vorrei congratularmi con l’onorevole Moreno Sánchez per l’eccellente relazione, che dimostra visione e capacità di identificare obiettivi comuni, in un dossier vasto e complesso come i negoziati di Doha.
Lo scopo di questo ciclo, definito “di sviluppo” fin dal suo inizio, nel 2001, è rafforzare i principi fondamentali del quadro del commercio multilaterale, fornendo una risposta adeguata ai problemi dei paesi in via di sviluppo.
Il successo dei negoziati deve permettere a tali paesi di rendere il commercio parte integrante delle loro politiche nazionali di sviluppo e, a tal fine, dobbiamo prevedere sufficiente flessibilità per tenere conto della situazione precaria dei paesi meno avanzati, riconoscere il nuovo ruolo dei paesi emergenti e affrontare l’impatto specifico dei processi di liberalizzazione sui paesi vulnerabili.
Il relatore, consapevole di questi problemi, evidenzia giustamente la necessità di fornire assistenza tecnica specifica e di creare capacità nei paesi in via di sviluppo, la possibilità di introdurre un capitolo sullo sviluppo per i paesi meno avanzati nei negoziati concernenti l’agricoltura, l’impulso da dare al commercio sud-sud e la necessità che i paesi emergenti continuino ad aprire i loro mercati ai paesi meno avanzati e riconosce quale elemento fondamentale il principio del trattamento speciale e differenziato, che comporta la non reciprocità nei negoziati commerciali e deve essere adattabile al profilo di ciascun paese in via di sviluppo.
La sua applicazione deve permettere al Fondo monetario internazionale e ad altre organizzazioni di sviluppare un meccanismo di integrazione commerciale che consenta di compensare le perdite eventualmente derivanti dalla liberalizzazione degli scambi.
In veste di autore della relazione sul sistema di preferenze generalizzate, valuto molto positivamente il sostegno del relatore alla mia proposta di prestare attenzione alle erosioni dei margini preferenziali che il ciclo di negoziati potrebbe provocare, rinnovando la richiesta che la Commissione elabori una relazione speciale in cui se ne esamini l’impatto, nonché le misure da adottare.
La relazione dell’onorevole Moreno Sánchez è un magnifico contributo per sciogliere le riserve e compiere progressi in un round che risponda alle aspirazioni di progresso di tutti i membri.
Saïd El Khadraoui (PSE). – (NL) Signor Presidente, signor Commissario, onorevoli colleghi, innanzi tutto ringrazio il relatore per l’ottimo lavoro e l’eccellente relazione. Vorrei esaminare tre aspetti che considero importanti.
In primo luogo, la trasparenza, cui hanno già accennato altri oratori. E’ chiaro che le questioni oggetto dei negoziati e – supponendo che vadano a buon fine – le decisioni che saranno effettivamente adottate avranno notevoli ripercussioni su un gran numero di persone. Questo è il motivo per cui è essenziale che un Parlamento democraticamente eletto come il nostro sia tenuto costantemente informato dei negoziati e coinvolto nel processo. La Costituzione ci conferirà maggiori competenze in materia, ma la esorto, signor Commissario, nei prossimi due mesi ed anni, a fare più dello stretto necessario per coinvolgere l’Assemblea e, per estensione, la società civile in questo ambito.
In secondo luogo, il commercio mondiale deve anche essere equo. Deve recare benefici per tutti, ma soprattutto per i paesi in via di sviluppo. Uno degli obiettivi fondamentali deve essere l’eliminazione della povertà, tramite una politica commerciale nuova e personalizzata. A tal fine, dobbiamo innanzi tutto assicurare che tali paesi ricevano la necessaria assistenza tecnica durante i negoziati, al fine di sviluppare ulteriormente i loro margini negoziali, nonché sostenere la creazione di capacità. L’esito dei negoziati dovrebbe inoltre essere, secondo la mia definizione, “favorevole ai paesi in via di sviluppo”. Ciò richiederà coraggio politico ed anche concessioni da parte nostra. Permettetemi di citare come esempio la graduale abolizione delle sovvenzioni all’esportazione, per la quale ritengo si debba definire un calendario preciso.
La mia terza e ultima osservazione riguarda la liberalizzazione degli scambi di servizi, che è importante e crea grandi opportunità, ma dobbiamo definirne chiaramente l’ambito. In fondo, vi sono servizi che idealmente non dovrebbero essere gestiti dal libero mercato, cioè i servizi di interesse generale, che devono essere esclusi dai negoziati e, a mio parere, non riguardano solo l’istruzione e la sanità, ma anche, per esempio, l’acqua, che è fonte di vita, come qualcuno ha già affermato. Purtroppo, vi sono ora esempi di privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua in alcuni paesi in via di sviluppo che hanno prodotto effetti molto nefasti. Mi auguro quindi, signor Commissario, che lei condivida il mio parere.
Peter Mandelson,Membro della Commissione. – (EN) Signor Presidente, vorrei immediatamente associarmi ai sentimenti espressi dall’ultimo oratore. So esattamente che cosa intende affermare riguardo all’acqua e ad altri servizi pubblici essenziali. Nulla di ciò che decideremo in questo ciclo di negoziati, e di sicuro nulla nelle politiche perseguite dalla Commissione, contravverrà o comprometterà gli interessi e le esigenze fondamentali della vita. Posso assicurarvelo.
Se mi permettete di tornare su quanto affermava poc’anzi l’onorevole Rübig riguardo alla necessità che il ciclo di negoziati sfoci in un compromesso minimo valido, vorrei dire che ha ragione. Sembra attendersi un round che si concluderà senza alcuna ambizione. Non è questo ciò che intende. Raggiungere un compromesso minimo valido è la cosa più difficile. Stando qui in Aula stasera a rispondere alla discussione, tale conclusione sembra molto lontana. Tuttavia, si sta avvicinando. Dico questo per due motivi. In primo luogo, l’autorità negoziale e il mandato degli Stati Uniti non continueranno a sostenere all’infinito l’esistenza di questo round. E’ un aspetto di cui dobbiamo tenere conto. In secondo luogo, esiste un fenomeno quale la fatica negoziale. Sto cominciando a vedere segni di fatica, un’impazienza, un desiderio di giungere alla fine per poter andare oltre. Ritengo che l’impazienza sia salutare. Mi auguro che sia salutare e mi auguro che il tipo di fatica negoziale che comincia a manifestarsi incoraggi i paesi a mostrare un po’ di più le proprie carte, a indirizzarsi verso la conclusione di questo ciclo, per vedere come, quando tutte le parti s’incastreranno, questo ciclo si concluderà realmente a beneficio di tutti, non ultimo e in particolare dei membri dell’OMC che hanno maggiormente bisogno di una conclusione positiva e ambiziosa di questi negoziati.
Alla luce di alcuni interventi, per esempio quelli dell’onorevole Caroline Lucas e dell’onorevole Graefe zu Baringdorf, rispetto pienamente la posizione espressa nelle vostre osservazioni, ma sono profondamente in disaccordo con il vostro rifiuto delle premesse e dei principi fondamentali del sistema internazionale di scambi. Mi auguro mi perdoniate se vi rammento gli enormi vantaggi tratti dai paesi più ricchi e prosperi dal sistema internazionale di scambi. Ora che abbiamo ottenuto risultati tanto positivi, ora che i paesi industrializzati sono tanto prosperi, ora che l’Europa gode di una situazione così positiva dopo decenni di libero scambio, ho l’impressione che la vostra strategia sia semplicemente buttare giù la scala per impedire al resto del mondo di raggiungerci. Rifiuto questa strategia. Penso sia controproducente. E’ chiaro che il commercio non è una specie di bacchetta magica. E’ chiaro che il commercio non è la risposta alle esigenze di sviluppo di ogni paese povero e vulnerabile. Tuttavia, dobbiamo comunque riconoscere che nessun paese è diventato ricco o prospero isolandosi dal resto del mondo. Questa considerazione è al centro del nostro programma.
Concordo sul fatto che l’accesso ai mercati non sia di per sé sufficiente. Bisogna aiutare i paesi poveri a realizzare prodotti con un valore aggiunto sempre più elevato, per permettere loro di commerciare con profitto nell’economia globale. La semplice apertura dei mercati non è un fine di per sé. Permettere alle persone di produrre e distribuire prodotti su tali mercati è l’aspetto cruciale ed era al centro delle osservazioni fatte dall’onorevole Martens all’inizio della discussione. Sono pienamente d’accordo con lei, che considera l’erosione delle preferenze come un grave problema per molti paesi in via di sviluppo che dipendono da un unico prodotto di base. E’ una situazione molto difficile e fornire sostegno e assistenza efficaci ai paesi che dipendono fortemente da un unico prodotto rappresenta una sfida enorme per noi in Europa.
Quando parliamo di riforma dello zucchero, cui si è accennato nel corso della discussione, sappiamo di avere la responsabilità non solo di gestire e promuovere tale riforma nell’interesse delle persone che rappresentiamo, o delle persone rappresentate dal Parlamento e dei cui interessi tengo conto anch’io, ma anche di assicurare di fornire assistenza a fini di adeguamento e ristrutturazione ai paesi più poveri e vulnerabili, per i quali lo zucchero è assolutamente fondamentale, non solo per la loro economia, ma per il tessuto stesso della loro società. Tali prodotti di base rappresentano la linfa vitale per alcuni paesi e conosciamo gli obblighi e le responsabilità che abbiamo nei loro confronti.
L’agricoltura è senza dubbio l’argomento più complesso e impegnativo di questo ciclo di negoziati. Concordo con l’onorevole Daul che non possiamo permettere che tutto il peso di questi negoziati gravi sull’agricoltura. Ritengo di averlo chiarito nelle mie osservazioni iniziali e di sicuro condivido il suo parere secondo cui l’agricoltura non deve pagare il conto per tutti gli altri settori. Intendo assicurare che si esamini la situazione a lungo termine in questi negoziati e sì, anche dopo il termine del mio mandato di Commissario. Non la considero una prospettiva prossima, ma un giorno altri mi succederanno e su questo ha perfettamente ragione. Le azioni che adottiamo ora e i negoziati che condurremo devono garantire un futuro sostenibile per l’agricoltura europea. Non dobbiamo correre rischi, non dobbiamo metterla a repentaglio e nulla di ciò che faremo io o la Commissione nel corso di questi negoziati darà luogo a tale rischio. Ciò significa anche che occorre gestire gli adeguamenti e affrontare la riforma e il cambiamento; è ovvio che occorre farlo. Di una cosa sono certo: non possiamo semplicemente lasciare l’agricoltura al libero mercato. Non possiamo farlo in termini di sicurezza alimentare dell’approvvigionamento, ma anche per l’importanza e il peso che attribuite al sostegno delle comunità rurali, che sono una caratteristica e una componente essenziale del nostro modo di vita, della civiltà europea.
Quando parliamo di agricoltura e di interessi delle persone che vivono nelle comunità rurali, dei loro interessi in questi negoziati, a mio parere si evidenzia l’importanza di spiegare, giustificare continuamente – penso abbiate usato il termine “pubblicizzare” – ciò che facciamo in questi negoziati. Pubblicizzare è letteralmente ciò che occorre fare. Dobbiamo pubblicizzare gli enormi vantaggi e le ricompense potenziali che possiamo ottenere dal completamento positivo e ambizioso di questo ciclo di negoziati. Dobbiamo pubblicizzare la logica alla base dei nostri negoziati; sono complessi, sono difficili da comprendere per il comune cittadino, lo sa il cielo che a volte sono difficili da comprendere anche per me, e io sono il Commissario responsabile per il commercio. Non si deve dare per scontato che ci limiteremo a stabilire e decidere a porte chiuse ciò che faremo in questo ciclo di negoziati e lo comunicheremo a un pubblico riconoscente a fine giornata, come se questo fosse l’inizio e la fine del coinvolgimento della società civile.
Dico questo non solo perché sono molto consapevole delle sensibilità, dei timori e delle preoccupazioni suscitate da questi negoziati – il commercio è davvero una materia molto politica – ma perché evidenzia anche l’importante ruolo dei parlamentari: dei deputati al Parlamento europeo, ma non solo, anche tutti i parlamentari nazionali sono coinvolti nel processo. Ciò è dovuto a due motivi: innanzi tutto, i parlamenti, nei loro lavori e nel controllo espletato dai parlamentari, esercitano pressioni su persone come me per indurci a spiegare e giustificare ciò che facciamo. Lo considero molto importante. In secondo luogo, il vostro compito è rappresentare la società civile in modo democratico e reale, un compito che non sempre le organizzazioni non governative svolgono fedelmente. Quando esercitate tale controllo e garantite tale rappresentatività, ciò che fate è conferire legittimità a questo processo, legittimità che altrimenti non avrebbe se fosse condotto in segreto, senza procedure di lavoro trasparenti, senza alcuna responsabilità per ciò che facciamo e diciamo nel corso dei negoziati. Concordo quindi con i deputati che hanno sottolineato la necessità di coinvolgere il Parlamento e i parlamentari. E’ vero che se avessimo una costituzione, il ruolo e l’accesso dei parlamentari europei a questo processo sarebbe formalizzato. Nondimeno, anche senza la Costituzione, abbiamo comunque instaurato ottime relazioni, siamo riusciti a conseguire risultati in tutti i campi trattati in modo informale e mi auguro e prevedo che col tempo riusciremo a consolidarli anche formalmente.
Riguardo a questioni quali i servizi – acqua ed altri servizi pubblici – che suscitano particolare inquietudine tra l’opinione pubblica, è giusto che i cittadini possano vedere che nel loro forum democratico, il Parlamento europeo, i loro timori e le loro preoccupazioni trovano espressione adeguata e sono adeguatamente rappresentati. Questo è il motivo per cui sono grato a coloro che stasera hanno sollevato la questione dei servizi in modo molto costruttivo. Mi auguro che ciò risponda alle osservazioni di coloro che hanno giustamente dato risalto al ruolo della società civile in questo processo. Riguarda anche, e lo riconosco pienamente, il futuro ruolo e funzionamento dell’OMC stessa, come ha rilevato l’onorevole Papastamkos nel suo intervento.
A coloro che formulano critiche più aspre nei riguardi dell’OMC, vorrei dire questo: non sono a conoscenza dell’esistenza di un’organizzazione internazionale, di una forma migliore di governo globale al mondo d’oggi che sia in grado di eguagliare l’OMC nella sua democrazia: sì, ogni membro dell’OMC, grande o piccolo, potente o debole, ha lo stesso diritto di voto, cioè un voto. Prende decisioni e si pronuncia contro le nazioni più potenti del mondo. E’ l’unica istituzione internazionale, è l’unico organismo di governo globale che io conosca, in grado di contestare e mettere in discussione la sovranità degli Stati Uniti e farla franca. E’ l’unica organizzazione che io conosca, in grado di far valere le sue decisioni, di arbitrare controversie tra paesi, per quanto forti e potenti possano essere nella comunità internazionale. Ritengo sia un elemento cui dare risalto e plaudire, che a mio parere dovremmo valorizzare anziché criticare.
Mi spiace non aver risposto a tutte le questioni sollevate, ma in conclusione vorrei sottolineare questo punto: sussiste la reale necessità di porre lo sviluppo al centro di questi negoziati; è assolutamente essenziale per Doha e per i suoi valori fondanti. A chi sostiene, come hanno fatto alcuni deputati nei loro interventi stasera, che la capacità commerciale sia cruciale, dico sinceramente: sono d’accordo con voi. Significa superare gli ostacoli nei porti, permettere l’agevolazione del commercio. Questo è il motivo per cui attribuisco grande importanza a questa parte dei negoziati. Si tratta della capacità di immettere prodotti sui mercati e di soddisfare norme, motivo per cui gli aiuti al commercio sono oltremodo importanti. Sì, le nostre norme sanitarie e fitosanitarie, le norme che proteggono la salute e la sicurezza dei cittadini e dei consumatori europei, sono molto importanti e dobbiamo difenderle; questo è ciò che si aspettano i nostri cittadini, le persone che rappresentate. Tuttavia, dobbiamo anche comprendere che per molti nei paesi in via di sviluppo queste norme rappresentano ostacoli. Questi elevati livelli di tutela della salute e dei consumatori sono percepiti come una forma di protezionismo dal mondo esterno. Non lo sono, ma ci affidano una grande responsabilità: non solo difendere l’integrità delle nostre norme, ma anche fornire attivamente sostegno e assistenza ai paesi più poveri per permettere loro di soddisfare tali norme e tali requisiti, anziché tirarci semplicemente indietro e al tempo stesso prendere i loro prodotti e ciò che hanno da offrire sui nostri mercati.
Permettetemi di concludere su questo punto. Concordo sul fatto che la politica agricola comune per certi versi sia problematica; è una grande necessità, una fonte di vita e sostentamento ed è determinante nel sostenere le nostre comunità rurali in moltissimi modi. Ma quali sono i problemi che individuiamo nella politica agricola comune? La PAC non è responsabile dei problemi della povertà mondiale di oggi. L’Europa ha i mercati più aperti del mondo. La tendenza a trasformare la politica agricola comune in una specie di diavolo incarnato, per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo, è mal ponderata e fuori luogo. E’ chiaro che è necessario riformarla e se mi permettete di fare un’osservazione sulle aziende agricole a conduzione familiare rivolta all’onorevole Ó Neachtain, anch’io voglio proteggere i piccoli agricoltori, ma nel contesto delle nostre discussioni sul futuro della politica agricola comune dobbiamo ricordare – e penso di non sbagliarmi – che il 75 per cento dei pagamenti nel quadro della PAC va ad agricoltori con redditi superiori alla media. Pertanto, quando parliamo di tutela dei piccoli agricoltori e quando parliamo di protezione dei redditi e dei mezzi di sostentamento di alcune persone meno abbienti che rappresentate in seno al Parlamento, dobbiamo ricordare che anche loro hanno bisogno della riforma della politica agricola comune. Sì, preserviamo il modello di agricoltura europeo, ma non preserviamo la PAC in gelatina all’infinito. Può e deve funzionare ancora meglio di quanto non faccia per le persone più bisognose.
Per concludere, se riusciremo a raggiungere un ampio accordo a Doha, a Hong Kong e in seguito, sarà una conquista enorme per il mondo. Ci permetterà di completare un ciclo di negoziati che si è trascinato durante il mandato non di una o due, ma di ben tre Commissioni. E’ una conquista enorme, una grande conquista alla nostra portata. Questo è il motivo per cui, a mio parere, per quanto gravoso e fastidioso possa essere questo ciclo di negoziati, di sicuro non dobbiamo arrenderci, né ci arrenderemo. Si può ottenere moltissimo per coloro che più ne hanno bisogno e più lo meritano nel nostro mondo ed anche per gli innumerevoli milioni di nostri concittadini. La posta in gioco è alta e procederemo su queste basi verso il successo finale.
(Applausi)
Friedrich-Wilhelm Graefe zu Baringdorf (Verts/ALE). – (DE) Signor Presidente, vorrei fare una breve osservazione. Il Commissario Mandelson travisa le mie osservazioni, allorché ritiene che io non voglia affrontare la povertà presente nel mondo. La verità è che il mio gruppo ed io stiamo riflettendo sul modo in cui si possa permettere alle persone che vivono in povertà di partecipare della nostra prosperità. Abbiamo anche alcune idee chiare sul modo in cui procedere. Mi auguro che il Commissario Mandelson si unirà a noi per approfondire la discussione e poter interpretare meglio il nostro pensiero.
Presidente. – La discussione è chiusa.
La votazione si svolgerà domani.
22. Ordine del giorno della prossima seduta: vedasi processo verbale