Presidente. – L’ordine del giorno reca ora, come ultimo punto odierno, l’interrogazione orale (O-0013/2006 – B6-0012/2006) degli onorevoli István Szent-Iványi, Graham Watson e Ignasi Guardans Cambó, a nome del gruppo ALDE, alla Commissione, sulla libera circolazione dei lavoratori e periodi di transizione.
István Szent-Iványi (ALDE), autore. – (HU) Signor Presidente, quest’anno è stato proclamato l’Anno europeo della mobilità dei lavoratori. Entro il 30 aprile, ogni Stato membro deve decidere se aprire il proprio mercato del lavoro oppure no. Da tale decisione sapremo se questo sarà effettivamente l’Anno della mobilità dei lavoratori o solamente una sua parodia. Non possiamo tollerare una situazione in cui i lavoratori dei nuovi Stati membri continuano ad essere, sul mercato del lavoro, soggetti di seconda o addirittura terza categoria.
La libera circolazione delle persone è una delle quattro libertà fondamentali, una delle idee fondamentali dell’Unione europea. In occasione del Vertice di marzo, i capi di Stato e di governo europei discuteranno del processo di Lisbona. Il processo di Lisbona è però condannato al fallimento se non riusciremo a creare un mercato del lavoro unitario e flessibile; e quest’obiettivo non si può raggiungere senza liberalizzazione e libertà del mercato del lavoro.
La Commissione ha recentemente pubblicato una valutazione che ha chiaramente dimostrato come i timori e le ansietà che ancora persistono nei vecchi Stati membri siano infondati. Per molto tempo si è temuto un massiccio afflusso di forza lavoro nel Regno Unito, nella Repubblica d’Irlanda e in Svezia, ossia nei tre paesi che avevano aperto il proprio mercato del lavoro. Questo non è affatto avvenuto; contro ogni aspettativa, in questi paesi il tasso di disoccupazione non è cresciuto.
All’opposto, il “lavoro nero” è diminuito, le entrate pubbliche sono aumentate e la competitività delle imprese è migliorata. Il lavoro illegale è invece ancora cospicuo nei paesi che continuano ad applicare restrizioni al mercato del lavoro. Ciò ha indotto la Commissione a concludere in maniera inequivocabile che da questo processo sono usciti vincitori i paesi che hanno liberalizzato la circolazione della forza lavoro proveniente dai nuovi Stati membri.
Finora mi sono soffermato sul fatto che sul mercato del lavoro i cittadini di seconda categoria sono quelli dei nuovi Stati membri. Dopo il 23 gennaio, però, da un certo punto di vista essi sono diventati addirittura cittadini di terza categoria; in quella data, infatti, è entrata in vigore la direttiva in base alla quale l’Unione europea concede diritto di lavoro e residenza ai cittadini di paesi terzi legalmente residenti nel territorio dell’Unione da almeno cinque anni. Questo non è certo un problema per noi, ma significa che persino i cittadini di questi paesi saranno avvantaggiati rispetto ai lavoratori provenienti dai nuovi Stati membri.
Chiedo quindi al Commissario: come pensa di risolvere questo problema? Come far sì che i lavoratori dei nuovi Stati membri non debbano sentirsi, sul mercato del lavoro, cittadini di terza categoria? A questo punto desidero congratularmi per la decisione presa da Finlandia, Spagna e Portogallo; si tratta di decisioni molto positive per la liberalizzazione della forza lavoro, ma attendiamo ancora che la Francia, i Paesi Bassi e il Belgio si uniscano a questo processo e liberalizzino il proprio mercato del lavoro, dal momento che ciò è nell’interesse di tutti.
Franco Frattini, Vicepresidente della Commissione. (EN) Signor Presidente, il trattato di adesione offre un approccio ricco di sfumature e soluzioni, che consente di applicare sia la direttiva sui residenti di lungo periodo che gli accordi transitori per la libera circolazione dei lavoratori garantendo la piena compatibilità giuridica. Consentitemi di illustrare questo punto nei dettagli.
In primo luogo, c’è la questione del primo accesso al mercato del lavoro. In questo caso, secondo quanto previsto dal trattato di adesione, in qualsiasi periodo in cui uno dei vecchi Stati membri applichi misure transitorie, per quanto riguarda il mercato del lavoro si deve dare la preferenza ai cittadini dei nuovi Stati membri rispetto ai cittadini dei paesi terzi.
In secondo luogo, vi è la questione dei cittadini dei nuovi Stati membri che sono già residenti in uno dei vecchi Stati membri. Anche in questo caso, secondo il trattato di adesione i cittadini dei nuovi Stati membri che già risiedono e lavorano in uno Stato membro che applichi misure transitorie non devono essere trattati in maniera più restrittiva dei cittadini di paesi terzi che risiedono e lavorano in quello Stato membro. Di conseguenza, se ai sensi della direttiva a un cittadino di un paese terzo è già stato riconosciuto lo status di residente di lungo periodo, il trattato di adesione opera in modo tale da garantire che il vecchio Stato membro tratti i cittadini dei nuovi Stati membri, che sono già legalmente residenti e lavorano nei territori in questione, almeno secondo gli standard garantiti dalla direttiva – comprendendo quindi il diritto di libero accesso al mercato del lavoro.
Lo stesso principio vale per il terzo caso previsto dalla direttiva: la circolazione di residenti di lungo periodo tra Stati membri. Qui la norma è la seguente: i lavoratori di un paese terzo che sono residenti di lungo periodo in uno dei nuovi Stati membri non hanno diritto a un trattamento più favorevole dei cittadini di quello Stato. In altre parole, nel caso di mobilità verso un secondo Stato membro, uno dei vecchi Stati membri non può concedere libero accesso al proprio mercato del lavoro a un residente di lungo periodo che sia cittadino di un paese terzo qualora lo stesso libero accesso non sia consentito ai cittadini di un nuovo Stato membro. Lo stesso vale per situazioni equivalenti che vengano a crearsi tra due dei vecchi Stati membri. In entrambi i casi di mobilità fra Stati membri, se il cittadino di un nuovo Stato membro nonché il residente di lungo periodo sono soggetti a misure nazionali come un permesso di lavoro, la preferenza comunitaria opera a favore del cittadino del nuovo Stato membro, che è un cittadino europeo.
Ne consegue perciò che è possibile riconciliare i diritti garantiti dalla direttiva con le disposizioni del Trattato. Non è necessario presentare alcuna proposta per cambiare le norme, perché è impossibile avere un trattamento meno favorevole per i cittadini dei nuovi Stati membri dell’Unione europea.
La Commissione conviene tuttavia sulla necessità di offrire migliori informazioni agli Stati membri per chiarire la questione, ed è mia intenzione farlo inviando a tutti gli Stati membri una lettera che definisca chiaramente le norme esistenti.
Csaba Őry, a nome del gruppo PPE-DE. – (HU) Signor Presidente, alla Commissione è stata presentata un’interrogazione orale, che riguarda il problema della libertà di circolazione dei lavoratori provenienti dai nuovi Stati membri; in cui si chiede se, all’interno dei quadri normativi attuali, alcuni gruppi di cittadini di paesi terzi non si trovino in una posizione di notevole vantaggio rispetto ai cittadini dei nuovi Stati membri, per quanto riguarda la circolazione tra gli Stati membri a fini lavorativi. Se così fosse si tratterebbe di una situazione chiaramente iniqua che noi dovremmo correggere, per evitare qualsiasi violazione del principio di preferenza sancito dalla clausola sullo status quo contenuta nel trattato di adesione.
Tuttavia, l’articolo 21 della direttiva 2003/109/CE stabilisce che i cittadini di paesi terzi che abbiano ottenuto permessi di soggiorno di lungo periodo in un secondo Stato membro, debbano avere accesso al mercato del lavoro. L’espressione “debbano avere” va interpretata nel senso che la concessione di un permesso di lavoro non può essere negata se le persone interessate hanno già ottenuto un permesso di soggiorno di lungo periodo.
Di conseguenza, un permesso di soggiorno emesso in un secondo Stato membro include praticamente il permesso di lavoro. Ciò significa che se le aziende dello Stato di destinazione sono disposte ad accettarli, i cittadini di paesi non appartenenti all’UE provenienti da un altro Stato membro hanno accesso automatico e illimitato al mercato del lavoro, mentre per i cittadini dei nuovi Stati membri l’accesso è indubbiamente limitato e soggetto a restrizioni.
Ovviamente, dobbiamo accogliere con favore un provvedimento teso ad aumentare la mobilità e a rendere più flessibile e più unitario il mercato del lavoro. E’ questo l’evidente obiettivo della direttiva 2003/109/CE, ma dobbiamo considerare con attenzione anche la concatenazione logica. Personalmente, apprezzo l’argomentazione che ho udito dal Commissario, e vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che ci serve qualche cosa di più impegnativo di una lettera: ci serve un regolamento procedurale di qualche tipo, che chiarisca esattamente l’iter da seguire qualora un cittadino di un paese terzo e un cittadino dell’Unione europea si trovino in situazione competitiva. Intendo dire che ci occorre una guida più precisa e dettagliata, ed è proprio questo che mi attendo dalla Commissione europea.
Alejandro Cercas, a nome del gruppo PSE. – (ES) Signor Presidente, signor Commissario, senza nulla togliere alle risposte richieste dalle circostanze, o alle varie interpretazioni della direttiva, credo che questa sia anche una buona occasione per far sentire la propria voce; e io voglio unire la mia a quella di chi ritiene che il problema non si risolverà fino a quando non avremo posto fine, una volta per tutte, a questo periodo transitorio. Auspichiamo che tale periodo abbia a cessare al più presto; in tal modo noi europei saremo tutti uguali e disporremo, con la mobilità dei lavoratori, di un importante strumento per accrescere la competitività e l’occupazione e costruire l’Unione europea.
Mi unisco quindi a quanti invocano una politica delle porte aperte da attuare il più rapidamente possibile; in questo senso reputo molto importante – anzi, come spagnolo me ne rallegro – l’abolizione delle restrizioni vigenti nel periodo transitorio, annunciata dal governo del mio paese.
Abbiamo agito in questo senso, signor Commissario, perché siamo un paese con una certa esperienza – siamo un paese di immigrazione e un paese di emigrazione. Inoltre, in questi due anni è emersa una volta di più con evidenza la necessità di abolire queste restrizioni imposte dall’Europa dei Quindici ai paesi dell’Europa centrale e orientale: per motivi di giustizia e solidarietà ma anche per motivi di razionalità e senso comune, oggi più che mai, in quest’anno della mobilità.
In primo luogo dobbiamo esaminare la situazione sotto il profilo della giustizia e della solidarietà. Anche noi spagnoli abbiamo dovuto sottoporci a un periodo transitorio di sette anni; ci siamo sentiti umiliati e discriminati da un ingiustificato pregiudizio, poiché è chiaramente emerso che buona parte di quei discorsi razzisti e xenofobi erano frutto di equivoci. Non c’è stata alcuna valanga di lavoratori. I lavoratori spagnoli non hanno mai creato problemi nei paesi di accoglienza; al contrario.
In questi ultimi due anni abbiamo visto che è accaduto altrettanto per i lavoratori dei nuovi Stati membri : non solo essi non creano problemi, ma anzi risolvono carenze di manodopera, migliorando le proprie qualifiche e rafforzando il concetto globale di Europa.
Chiedo quindi, signor Commissario, che lo studio redatto dalla Commissione europea induca altri paesi ad abolire le restrizioni e venga il giorno in cui l’Europa sia veramente l’Europa di tutti i cittadini europei e tutti i lavoratori europei abbiano i medesimi diritti: per una questione di coerenza, perché ciò favorisce la mobilità e perché l’Europa ha bisogno di mobilità per vincere la battaglia della produttività e della competitività nei confronti degli Stati Uniti.
E’ necessario quindi creare questo grande mercato di cittadini liberi, privo di problemi, che ci permetterà di migliorare la nostra competitività, le nostre capacità e la vita dei nostri cittadini; oltre a risolvere i problemi concreti, signor Commissario, per abolire queste barriere bisogna cercare di avere una visione del futuro.
Sophia in’ t Veld, a nome del gruppo ALDE. – (NL) Signor Presidente, aderisco senza riserve all’intervento del precedente oratore, e auguro oggi per la terza volta la buona sera al Commissario Frattini. E’ superfluo spiegare perché i cittadini dei nuovi paesi devono avere accesso al mercato del lavoro; bisogna piuttosto spiegare il contrario. Sono i paesi che continuano a proteggere i loro mercati che devono spiegare perché continuano a negare i diritti fondamentali a persone che sono cittadini a pieno titolo dell’Unione europea. Inoltre, com’è ovvio, togliere queste restrizioni sarebbe anche economicamente saggio.
L’economia europea e il mercato del lavoro hanno bisogno di persone. Se noi, nell’Unione europea e nel suo mercato interno, vogliamo competere con i grandi mercati al di fuori dell’Europa, avremo bisogno di lavoratori dinamici, giovani, dotati di un’adeguata formazione e anche disposti alla mobilità. Questo è sempre stato un obiettivo dell’Unione europea, e perciò non ha alcun senso sigillare i mercati del lavoro. E’ poi illusorio pensare che queste restrizioni impediscano ai lavoratori dell’Europa orientale di giungere nei nostri paesi, poiché essi sono tra noi già da molto tempo, anche se nei nostri paesi vengono sfruttati da datori di lavoro disonesti e vivono in condizioni degradanti – cosa che personalmente considero vergognosa.
Motivazioni economiche, di diritti civili e di solidarietà impongono quindi di eliminare tali restrizioni. Da olandese, sono quindi lieta che i Paesi Bassi intendano probabilmente agire in tal senso – sembra per lo meno che vi sia una maggioranza favorevole – e nell’Anno della mobilità invito tutti gli Stati membri a fare altrettanto.
Elisabeth Schroedter, a nome del gruppo Verts/ALE. – (DE) Signor Presidente, quello in corso nei paesi che vogliono prorogare le disposizioni transitorie non è altro che la parvenza di un dibattito e, tra questi paesi, figura ovviamente anche la Germania. E’ facile guadagnare popolarità dipingendo ai cittadini una realtà illusoria, e soprattutto facendo credere che le norme di transizione possano proteggere il mercato del lavoro. In realtà è vero il contrario: le disposizioni transitorie non fermano i lavoratori migranti. Essi non possono allacciare rapporti di lavoro regolari, e quindi non rimane loro altra via che l’illegalità.
Nelle regioni di confine della Germania orientale, da cui provengo, il mercato nero e il falso lavoro autonomo hanno conosciuto un massiccio incremento, incoraggiato proprio dalle disposizioni transitorie. La pressione per un aumento dei salari diviene in tal modo molto più forte. Contrariamente a quanto avviene per i rapporti di lavoro legali, per quelli illegali i controlli non sono possibili. Per i lavoratori ciò significa sfruttamento e discriminazione.
In Europa abbiamo bisogno di un mercato del lavoro ordinato, dotato di norme minime e fondato su un chiaro principio di base: stesso salario per lo stesso lavoro nello stesso luogo. Le disposizioni transitorie non fanno che rimandare le riforme e gli sforzi di cui vi è urgente necessità e, peggio ancora, preparano verbalmente il terreno al populismo di destra, pregiudicando soprattutto l’ideale europeo. Come tedesca invito quindi a non prorogare le disposizioni transitorie, ma ad aprire il mercato anche in Germania, in modo tale che l’esistenza di condizioni adeguate diventi la norma.
John Whittaker, a nome del gruppo IND/DEM. – (EN) Signor Presidente, il principale punto debole della costruzione europea sta nel fatto che quando gli Stati membri percepiscono che sono in gioco gli interessi nazionali, cominciano a muoversi e ad agire individualmente; così funziona la politica, indipendentemente da qualsiasi promessa di solidarietà e da qualunque obbligo previsto dai Trattati.
Nello specifico si lamenta l’assenza di parità di trattamento per i lavoratori di paesi terzi che varcano le frontiere dell’Unione; d’altro canto, si registra altresì l’assenza di un libero mercato nel settore dei servizi, e di un’applicazione uniforme per quanto riguarda il diritto dell’Unione europea. Forse l’esempio più lampante di norme violate sta proprio nel Patto di stabilità, e sappiamo che, in mancanza di una disciplina di bilancio, la valuta dell’euro non durerà a lungo.
Ogni volta che uno Stato infrange una norma chiediamo alla Commissione di fare qualcosa; ma la Commissione non può fare granché, e non credo che l’invito all’informazione lanciato dal Commissario Frattini sarà di grande aiuto. Se la Commissione richiede parità di trattamento per i lavoratori, alcune nazioni si limiteranno a opporsi, o comunque, se verranno convinte ad aderire a tale richiesta, troveranno facilmente il modo per sottrarsi all’impegno preso.
Adam Jerzy Bielan, a nome del gruppo UEN. – (PL) Signor Presidente, la situazione che ci troviamo ad affrontare dal 1° gennaio di quest’anno è paradossale. Da un lato i vecchi Stati membri, i cosiddetti Quindici, devono garantire ai residenti di lungo periodo un trattamento identico a quello riservato ai propri cittadini per quanto riguarda l’accesso al mercato del lavoro; dall’altro, parecchi di questi stessi paesi approfittano delle disposizioni del trattato di adesione e continuano a vietare la libera circolazione dei lavoratori provenienti dai dieci nuovi Stati membri. Questa situazione contrasta con le disposizioni sancite dal suddetto trattato di adesione, in base al quale i cittadini dell’Unione europea hanno la precedenza sui cittadini di paesi terzi nell’accesso al mercato del lavoro. Il problema si sarebbe potuto risolvere rinunciando al periodo transitorio previsto per l’impiego di cittadini dei nuovi Stati membri nel mercato del lavoro della vecchia Unione. Purtroppo, solo tre Stati membri – Irlanda, Svezia e Regno Unito – hanno aperto il proprio mercato del lavoro con il 1° maggio 2004; altri due – Spagna e Portogallo – hanno annunciato che faranno altrettanto dal 1° maggio di quest’anno. Purtroppo, in gran parte degli altri paesi è prevalso il timore del previsto afflusso di manodopera straniera a buon mercato, con la conseguente perdita di posti di lavoro; l’onorevole Schroedter ha menzionato a questo proposito il caso della Germania. Questi timori sono del tutto infondati. Le statistiche della Commissione europea dimostrano che in quasi tutti i paesi il numero di cittadini dei nuovi Stati membri che ha trovato lavoro è rimasto praticamente stabile prima e dopo l’allargamento. Con l’eccezione dell’Austria, il numero di lavoratori occupati provenienti dai 10 nuovi Stati membri non ha oltrepassato l’1 per cento della popolazione economicamente attiva. In nessuno Stato membro dell’Unione l’afflusso di lavoratori dai nuovi Stati membri ha fatto perdere il lavoro ai cittadini del luogo: i nuovi arrivati hanno occupato posti di lavoro nuovi, oppure posti in precedenza vacanti.
Signor Presidente, dobbiamo comprendere che l’economia degli Stati Uniti continuerà a superare la nostra in termini di competitività, se in Europa non aumenteremo la mobilità della forza lavoro. Nell’Unione europea la disoccupazione è attualmente superiore all’8 per cento, ma in alcuni settori si registra comunque carenza di manodopera; allo stesso tempo, non tutti gli europei possono muoversi liberamente alla ricerca di un lavoro. Purtroppo è molto probabile che gran parte del mercato del lavoro dell’Unione europea rimanga sbarrata ai cittadini dei nuovi Stati membri per altri cinque anni. In tale situazione è essenziale che la Commissione europea agisca per eliminare le contraddizioni della legislazione dell’Unione, estendendo la libertà di circolazione dei lavoratori.
Jacek Protasiewicz (PPE-DE). – (PL) Signor Presidente, ricordo che quasi due anni fa, dopo lo storico allargamento dell’Unione europea, presi la parola in quest’Aula per invitare i governi della cosiddetta vecchia Unione a mostrare audacia e a rinunciare ai periodi transitori; li esortai ad aprire il proprio mercato del lavoro ai cittadini dei nuovi Stati membri. Purtroppo, solo tre Stati membri ebbero allora il coraggio di aprire il proprio mercato del lavoro: Regno Unito, Irlanda e Svezia. Gli altri 12 Stati membri cedettero alle paure o forse anche alle pressioni della propria opinione pubblica, ed eressero barricate contro il possibile afflusso di lavoratori dai nuovi Stati membri, soprattutto dall’Europa centrale e orientale. Quali conclusioni si possono trarre dopo due anni? E’ chiaro che a ricavare il massimo beneficio sono stati proprio quei paesi che allora osarono aprire il proprio mercato del lavoro.
La comunicazione della Commissione europea pubblicata circa un mese fa – a febbraio, se non erro – afferma con estrema chiarezza che nei paesi che hanno deciso di aprire il proprio mercato del lavoro la disoccupazione non è aumentata; non si sono neppure aggravati i problemi sociali. E’ accaduto piuttosto il contrario: l’economia ha accelerato il passo, e sono cresciute le entrate fiscali. Sono questi i benefici derivanti dall’applicazione pratica di uno dei principi fondamentali del Trattato; è un principio che si potrebbe forse considerare il più fondamentale di tutti. E’ una delle basi su cui è costruita l’Unione, e dobbiamo fare ogni sforzo per applicarlo in tutti i 25 Stati membri.
Alla vigilia della scadenza del primo periodo transitorio, rilevo con soddisfazione che alcuni altri governi stanno vagliando l’ipotesi di aprire il proprio mercato del lavoro. Va però osservato che nella situazione attuale si tratta comunque di una minoranza dei vecchi Quindici. Siamo di fronte a un problema serio, e desidero quindi formulare il seguente appello: quando, in un prossimo futuro, prenderemo la parola per discutere sulla risoluzione del Parlamento, dovremo fermamente invitare i governi degli Stati membri a non limitarsi a prendere in considerazione l’apertura del proprio mercato del lavoro ed esortarli a procedere verso un’apertura completa, che consenta la libera circolazione dei lavoratori.
Csaba Sándor Tabajdi (PSE). – (HU) Signor Presidente, voglio ringraziare il collega István Szent-Iványi per aver iscritto ancora una volta quest’argomento all’ordine del giorno; è un tema importante non solo per gli Stati membri, ma per tutta l’Europa. Ringrazio inoltre il Commissario Vladimír Špidla, il quale ha presentato un’ottima relazione di sintesi, che presenta un quadro preciso e veritiero dei processi che hanno contraddistinto il mercato del lavoro nel periodo trascorso.
L’Ungheria e gli altri nuovi Stati membri si pongono l’obiettivo di eliminare tutti gli impedimenti giuridici e amministrativi che attualmente ostacolano la libertà di circolazione dei lavoratori nell’Unione europea. Vogliamo essere cittadini dell’Unione su un piede di parità. L’apertura del mercato del lavoro e la libertà di circolazione dei lavoratori non sono un regalo o un favore, bensì una decisione ragionevole da parte dei nove vecchi Stati membri, che avrebbe effetti positivi per tutti i cittadini dell’Unione europea.
E’ in gioco la competitività dell’Unione. Mi auguro che i nove vecchi Stati membri rimanenti se ne rendano conto, e che, nell’aprile del 2006, al termine del periodo transitorio di due anni, essi prendano una decisione favorevole, unendosi a Finlandia, Spagna e Portogallo, che stanno aprendo il proprio mercato ora.
Dobbiamo ringraziare il Regno Unito, la Repubblica d’Irlanda e la Svezia, che hanno aperto il proprio mercato per primi. Questa misura ha notevolmente avvantaggiato tali paesi. Nella Repubblica d’Irlanda il tasso di disoccupazione è sceso negli ultimi due anni, in parte anche per gli effetti positivi indotti dai lavoratori dei nuovi Stati membri; nel Regno Unito l’afflusso di lavoratori ha contribuito alla crescita economica e alla competitività. Di conseguenza, accuse e paure legate all’immigrazione di massa e al dumping sociale sono semplicemente infondate.
Ringraziamo di cuore Finlandia, Spagna e Portogallo, che hanno annunciato l’intenzione di aprire a loro volta il proprio mercato del lavoro.
E’ una vera e propria ipocrisia che i nove vecchi Stati membri, i quali non eliminano le restrizioni, consentano l’ingresso di manodopera da paesi non appartenenti all’Unione europea, rifiutando però l’accesso ai lavoratori dei nuovi Stati membri. Benché l’ora sia tarda, devo polemizzare con il Commissario Frattini; ciò che egli ha detto vale solo per i paesi che hanno aperto il proprio mercato del lavoro. In quei paesi è effettivamente possibile dare la precedenza ai lavoratori dei nuovi Stati membri rispetto ai lavoratori di paesi terzi. Viceversa, nei paesi che non hanno aperto il proprio mercato del lavoro, il problema non si pone neppure. Di conseguenza, l’apertura dei mercati del lavoro è una questione di principio, di competitività e di eliminazione delle discriminazioni, oltre che di uguaglianza tra i quindici vecchi Stati membri e i dieci nuovi arrivati.
Šarūnas Birutis (ALDE). – (LT) Che altro posso aggiungere agli interventi dei colleghi che mi hanno preceduto? La libertà di circolazione delle persone è una delle libertà fondamentali, garantita, anche se per ora solo verbalmente, dal diritto della Comunità europea. I nuovi Stati membri si attendono che i vecchi membri dell’Unione europea aprano al più presto i propri mercati del lavoro ai nuovi arrivati, nella convinzione che anche i vecchi membri non ne trarranno che benefici; resta però diritto sovrano di ognuno dei vecchi Stati membri compiere tale scelta prima che ciò diventi effettivamente obbligatorio. Secondo le statistiche della Commissione europea, l’afflusso di manodopera dai nuovi paesi non ha assunto le dimensioni che si paventavano; dall’ammissione di lavoratori dei nuovi Stati membri Regno Unito, Irlanda e Svezia hanno ricavato solo vantaggi. Dobbiamo congratularci con diversi Stati che hanno deciso di aprire il proprio mercato del lavoro ai nuovi membri dell’Unione europea a partire da maggio; la libertà di circolazione della manodopera, la liberalizzazione del mercato dei servizi e altre misure contribuiranno alla competitività dell’Unione europea ma, ancor più, accresceranno la fiducia dei cittadini nell’appartenenza all’Unione europea. La chiarezza o l’ambiguità di una situazione complessa determinano il grado di fiducia nell’Unione europea. A mio avviso, gli Stati membri dell’Unione devono prendere misure per abolire immediatamente le restrizioni discriminatorie al lavoro legale, subite dai cittadini della Lituania e degli altri nuovi Stati membri. In tal modo questi ultimi godrebbero veramente dei propri diritti e avrebbero l’opportunità di pagare legalmente le imposte. Occorre spezzare gli stereotipi di una mentalità antiquata e comprendere che la libertà e una sana concorrenza sono per l’Europa il motore del progresso.
Konrad Szimański (UEN). – (PL) Signor Presidente, la semplice e amara verità è che i vecchi Stati membri erano più che felici di aprire i mercati nei casi in cui detenevano un vantaggio competitivo, per esempio per quel che riguarda la libera circolazione dei capitali. Rilevo invece che quando erano i nuovi Stati membri a trovarsi in vantaggio competitivo, i mercati sono rimasti chiusi: la direttiva sui servizi ne costituisce un esempio, e il mercato del lavoro potrebbe esserne un altro.
Dal 23 gennaio, con l’applicazione definitiva della direttiva sui residenti, la situazione dell’accesso al mercato del lavoro da parte dei cittadini di paesi terzi può essere addirittura migliore di quella dei cittadini dei paesi che hanno recentemente aderito all’Unione. Le sue spiegazioni mi sono sembrate interessanti, signor Commissario, ma non mi hanno convinto; penso che il Parlamento dovrebbe ricevere maggiori informazioni sull’argomento. Tutto ciò contrasta palesemente con le disposizioni contenute nei trattati di adesione. Vale la pena di far notare ancora una volta all’Assemblea che nessuno dei paesi che hanno aperto il proprio mercato del lavoro ha registrato un aumento della disoccupazione o un inasprimento di altri problemi sociali, come per esempio le frodi in materia di sovvenzioni; al contrario, la forza lavoro meno costosa proveniente dai nuovi Stati membri ha dato nuova linfa all’economia. A due anni di distanza possiamo affermare inequivocabilmente che queste restrizioni non hanno giustificazioni economiche.
Secondo i progetti della Commissione, questo è l’Anno europeo della mobilità dei lavoratori. Va sottolineato che la scarsa mobilità dei lavoratori è connessa anche alla mancata apertura del mercato del lavoro in gran parte degli Stati membri; se gli Stati membri si ostineranno a tenere ingiustificatamente chiusi i propri mercati del lavoro, il 2006 rischierà di passare alla storia come l’Anno dell’ipocrisia europea, e non come l’Anno europeo della mobilità dei lavoratori.
Othmar Karas (PPE-DE). – (DE) Signor Presidente, signor Commissario, onorevoli colleghi, sono lieto che si tenga questo dibattito perché non sono tra coloro che vogliono risolvere la questione distinguendo tra vincitori e vinti e contrapponendo i vecchi Stati membri ai nuovi; noi viviamo in una Comunità.
E’ estremamente importante affermare a chiare lettere che le quattro libertà figurano tra i diritti fondamentali dell’Unione europea, che annovera tra i suoi principi il divieto di discriminazione. Le quattro libertà sono il fulcro del mercato interno, che realizzandole si trasforma in un mercato dalla dimensione comune. Questi principi costituiscono gli obiettivi politici dell’Unione europea; sono chiarissimi e sono l’elemento che ci unisce. Dobbiamo attuarli al più presto; se non lo abbiamo ancora fatto è perché nei nostri paesi le condizioni politiche generali non coincidono: sono diversi i salari, la legislazione sociale e fiscale, il diritto del lavoro. Abbiamo 19 milioni di disoccupati, abbiamo tassi di crescita differenti, più alti – grazie a Dio – nei nuovi che nei vecchi Stati membri. Questo suscita nei cittadini timori e inquietudine. Anche nel mio paese, che ha il confine esterno più lungo con i nuovi Stati membri, cresce il numero degli occupati provenienti da questi nuovi Stati membri.
Tuttavia, dobbiamo esaminare i Trattati e il diritto comunitario per venire incontro alle inquietudini e ai timori dei cittadini. Non vogliamo costruire una barriera, ma predisporre una transizione accettabile. Non è questo però il nostro obiettivo; il nostro obiettivo è quello di realizzare le quattro libertà, mettere a tacere i timori e cercare insieme soluzioni comuni. Dobbiamo trovare un’intesa comune e non palleggiarci colpe e responsabilità.
Harald Ettl (PSE). – (DE) Signor Presidente, anche se trovare un’intesa qualche volta è difficile a causa delle nostre differenze linguistiche, in seno al Parlamento europeo ha comunque un senso discutere, modificare e valutare le relazioni della Commissione europea nelle competenti commissioni parlamentari; per questo problema è competente la commissione per l’occupazione e gli affari sociali, ma il presente dibattito e la relativa interrogazione ne stanno anticipando le decisioni. Mi sembra una cosa davvero ingiustificata; avrà forse qualche motivazione, ma io la ritengo ingiustificata.
Una premessa: la comunicazione della Commissione, che deve contribuire a eliminare il periodo transitorio relativo alla libertà di circolazione dei lavoratori, mi sembra carente dal punto di vista del contenuto nonché – nella forma in cui ci viene presentata – non ancora convincente da quello economico. Gli autori dell’odierna interrogazione, che parlano di una situazione di svantaggio dei cittadini dei dieci nuovi Stati membri nei confronti dei cittadini di paesi terzi, non valutano correttamente la situazione reale. Sta di fatto che in Germania, tra le persone provenienti dai dieci nuovi Stati membri, si registra una quota di occupati superiore del 3 per cento rispetto ai cittadini dei paesi terzi; in Austria questa differenza si colloca al 6 per cento; nel Regno Unito e in Irlanda lo squilibrio a favore dei dieci nuovi Stati membri è ancora più vistoso. Inoltre, avendo a disposizione i dati di un solo anno dopo l’adesione, non è possibile fare previsioni fondate sullo sviluppo a medio e lungo termine del mercato del lavoro, come invece cerca di fare la Commissione.
La conclusione finale della comunicazione, secondo cui l’apertura del mercato del lavoro avrebbe effetti positivi sulla crescita economica e l’occupazione, in rapporto al periodo esaminato è semplicemente falsa. Nel 2005 la crescita economica nell’Unione europea a 25 è stata nettamente più bassa che nel 2004; ciò vale particolarmente per il Regno Unito, dove la diminuzione ha toccato l’1,4 per cento e si è registrata un’immigrazione dieci volte maggiore di quella prevista dal governo britannico. Contrariamente agli anni precedenti, la disoccupazione non è diminuita o quasi. Chiedo quindi alla Commissione di predisporre al più presto l’elaborazione di uno studio che analizzi in maniera oggettiva i flussi migratori dei lavoratori e tutti i fenomeni connessi.
Questo non sarebbe positivo solamente per la Commissione, ma favorirebbe anche la prosecuzione di un dialogo proficuo. Vorrei aggiungere che una rapida riduzione dei periodi transitori – che io stesso mi auguro – deve però poggiare su una lucida visione d’insieme e su valide misure accompagnatorie, come per esempio la revisione della direttiva sul distacco dei lavoratori. Questo sarebbe utile a tutti, consentirebbe a una delle parti di fugare paure e inquietudini, e consentirebbe a entrambe le parti in grado di dialogare in maniera più proficua. Una discussione come quella odierna mi sembra invece semplicemente sbagliata.
Danutė Budreikaitė (ALDE). – (LT) Sono passati due anni dall’inizio dell’ultima fase dell’allargamento, e la prima parte del periodo transitorio di sette anni sta per concludersi; i vecchi Stati membri devono decidere se prorogare oppure abolire il periodo transitorio. Il Regno Unito, l’Irlanda e la Svezia hanno aperto immediatamente il proprio mercato e ne hanno tratto vantaggio, incoraggiando contemporaneamente i nuovi Stati membri a considerare la propria forza lavoro in una prospettiva diversa e a valutarla meglio. Il mercato del lavoro dell’Unione europea a 15 non è stato sommerso dalla manodopera dei nuovi Stati membri, e l’espansione ha incoraggiato l’emersione del lavoro illegale. Nessun periodo transitorio fermerà una persona che vuol partire, e la libertà di circolazione è un valore fondamentale della Comunità europea. Il 26 gennaio è entrata in vigore una direttiva del Consiglio che consente ai cittadini di paesi terzi residenti da cinque anni nell’Unione europea di circolare liberamente per venire a studiare, lavorare o semplicemente a vivere in qualsiasi paese dell’Unione. Perché il Consiglio ha adottato una direttiva che è discriminatoria nei confronti dei nuovi Stati membri? Perché un’opposizione così estesa al ripristino della giustizia? Apprendiamo con soddisfazione che Finlandia, Spagna e Portogallo intendono rinunciare al periodo transitorio. Austria e Germania hanno dato inizio all’introduzione dei periodi transitori. I risultati di questi due anni stanno a dimostrare che i nuovi Stati membri non rappresentano alcuna minaccia. Esorto l’Austria e gli Stati membri rimanenti a rinunciare al discriminatorio periodo di transizione e ad abbandonare questa discriminatoria immagine dei nuovi Stati membri.
Toomas Hendrik Ilves (PSE). – (ET) Vorrei porre una domanda più vasta: perché i nuovi Stati membri hanno la sensazione che una frattura sempre più profonda li separi dai vecchi Stati membri?
Inizierò ricordando la direttiva sui servizi. Si temeva che i nuovi Stati membri avrebbero iniziato a offrire servizi di qualità migliore di quelli disponibili nei vecchi Stati membri, e questo ha bloccato l’applicazione di uno dei diritti europei fondamentali, che per cinquant’anni è esistito solo sulla carta. Si è insinuato in maniera offensiva che la circolazione dei servizi costituirebbe un dumping sociale, ed è stata evocata la leggendaria figura del plombier polonais, l’idraulico polacco, per terrorizzare i cittadini dei vecchi Stati membri. Questa retorica, umiliante per i nuovi Stati membri, ha lasciato nei loro cittadini l’impressione di non potersi considerare esseri umani. Non si è trattato però di un conflitto tra destra e sinistra, e tra i vecchi Stati membri si è fatto presto a trovare un compromesso: alcuni di essi hanno difeso le proprie grandi imprese, mentre altri hanno protetto i propri sindacati. Ma l’Europa orientale aveva aperto i propri mercati ben prima di aderire all’Unione europea, e di conseguenza le grandi imprese dei vecchi Stati membri hanno semplicemente acquistato aziende nell’Europa orientale per anni, senza le limitazioni imposte da una direttiva sui servizi. Costoro sono venuti a fare acquisti sul nostro mercato, ma quando è giunto il nostro turno abbiamo trovato la porta chiusa. A pagare il prezzo di questa situazione sono le piccole imprese e i cittadini dei nuovi Stati membri, ma anche i consumatori dei vecchi Stati membri.
In secondo luogo, a causa delle limitazioni alla libera circolazione dei lavoratori i nuovi europei diventano cittadini di seconda categoria; alcuni cittadini dell’Unione europea hanno il diritto di spostarsi liberamente, mentre ad altri tale diritto è negato, a motivo della loro cittadinanza. Nell’Unione il neoprotezionismo limita i diritti civili dei cittadini dei nuovi Stati membri, spesso servendosi di una retorica xenofoba, come abbiamo notato nel dibattito sulla direttiva sui servizi. Nonostante la chiusura del mercato del lavoro, da anni i vecchi Stati membri scelgono disinvoltamente i lavoratori di cui hanno bisogno: per esempio medici, infermieri e specialisti di tecnologia dell’informazione. Contro questi lavoratori non si usa l’offensiva etichetta del dumping, poiché la loro assunzione spesso è addirittura finanziata da sovvenzioni statali.
In terzo luogo, abbiamo assistito ora all’applicazione di una direttiva in base alla quale chi non possiede la cittadinanza, ma è residente in uno Stato membro dell’Unione europea da almeno cinque anni, ha diritto alla libertà di circolazione, mentre i cittadini dei nuovi Stati membri dell’Unione non godono di tale diritto. Quale conclusione possiamo trarne? I cittadini dei nuovi Stati membri non sono cittadini di seconda, ma di terza categoria.
La mia domanda è questa: come intende agire l’Europa per evitare che questo protezionismo inaccettabile e questa palese discriminazione spezzino l’unità che l’Europa ha appena riconquistato?
Vladimír Maňka (PSE). – (SK) Signor Presidente, signor Commissario, onorevoli colleghi, ho letto con interesse la relazione della Commissione datata 8 febbraio, che indica chiaramente gli effetti positivi che la mobilità dei lavoratori ha prodotto nell’Unione europea. I lavoratori immigrati hanno contribuito a rimediare alle carenze del mercato del lavoro, hanno incrementato la forza lavoro qualificata nell’UE, hanno ridotto il potenziale di lavoro illegale e nel complesso hanno contribuito a migliorare l’efficienza in Europa.
Un mese fa abbiamo discusso e approvato in prima lettura una relazione sull’apertura del mercato dei servizi nell’Unione europea. Menziono la direttiva sui servizi perché è possibile che arrivi a riguardare da vicino la libera circolazione dei lavoratori; si arriverebbe a un momento critico se, da un lato, entrasse in vigore la direttiva sui servizi, e, dall’altro, un paese si ostinasse contemporaneamente a impedire la libera circolazione dei lavoratori. Ciò ostacolerebbe i lavoratori intenzionati a cambiare datore di lavoro, anche se da tale cambiamento potrebbero trarre vantaggio non solo i lavoratori, ma anche il paese di destinazione. Un paese può evitare questo rischio cancellando il periodo di transizione.
Onorevoli colleghi, di per sé la libera circolazione dei lavoratori non è naturalmente una soluzione per mantenere in vita il modello sociale di uno Stato; un modello inefficiente non può sopravvivere di fronte al peggioramento del deficit delle finanze pubbliche causato dalla globalizzazione, dai mutamenti tecnologici e dall’invecchiamento della popolazione. Tuttavia, la libera circolazione dei lavoratori non è neppure – e del resto non può essere – la causa di questi problemi. La legislazione europea non può imporre agli Stati membri di mantenere o abolire il periodo di transizione; questi stessi Stati, tuttavia, devono prendere ogni misura necessaria per combattere le cause dei propri problemi economici. In tal modo, considereranno la libera circolazione dei lavoratori come un vantaggio e non come una minaccia.
Presidente. – La discussione è chiusa.
Dichiarazione scritta (articolo 142 del Regolamento)
Jules Maaten (ALDE). – (NL) Il gruppo VVD al Parlamento europeo ritiene che i “vecchi” Stati membri dovrebbero abolire le restrizioni attualmente imposte ai lavoratori dei nuovi Stati membri. Tutti i paesi europei ricavano benefici economici dall’apertura delle frontiere. Nei Paesi Bassi, ad esempio, abbiamo carenza di manodopera nei settori metallurgico, ortofrutticolo, agricolo e sanitario; nel Regno Unito, in Irlanda e in Svezia la politica delle porte aperte è stata coronata da successo. Se apriamo la porta d’ingresso, potremo almeno controllare chi entra, invece di essere costretti ad agitarci freneticamente per allontanare dalla porta di servizio gli immigranti illegali; tentativo che tra l’altro si è rivelato impossibile, poiché ogni anno notiamo che in particolare i lavori stagionali vengono svolti da manodopera illegale.