Presidente. - Caro Presidente Napolitano, caro Giorgio, bentornato al Parlamento europeo. È veramente un piacere e un onore averla qui oggi al Parlamento europeo della democrazia europea, che Lei ha contribuito a rafforzare con la Sua visione, la Sua esperienza e le Sue idee. Il Suo contributo è, ed è stato nel corso degli anni, una fonte di stabilità e di energia non solo per l'Italia, ma anche per l'Europa. Nel Suo operato ha continuato la tradizione del nobile europeismo italiano che va da De Gasperi a Spinelli.
Questo europeismo è stato un motore del progetto europeo. Non solo come Presidente della Repubblica, ma anche durante tutta la Sua vita politica, ha lavorato per ricucire le divisioni che attraversano la società italiana ed europea, con pazienza, dedizione, creatività e stile. Tale è stato il Suo contributo nel rafforzare l'unità e il senso di direzione del paese, mettendolo al riparo dai venti del populismo che purtroppo continua a soffiare, per proteggere la Costituzione italiana e far avanzare l'integrazione europea.
L'anno scorso è stato votato ed ha accettato un nuovo mandato come Presidente della Repubblica. Questo è un altro esempio del Suo altruismo e della Sua dedizione per questa causa. Non ho alcuna simpatia per coloro che violentemente e volgarmente La criticano con l'unico obiettivo di aumentare la loro visibilità e gettare il paese nel caos.
Nel Suo discorso di fine anno ha citato tra gli altri un messaggio di Veronica, una ragazza di Empoli di ventotto anni. Veronica si è laureata a prezzo di grandi sacrifici. Da tre anni è alla ricerca di un lavoro. Veronica sente che la crisi attuale è in realtà una crisi della capacità di suscitare entusiasmo nei giovani.
E conclude: io credo ancora nell'Italia, ma l'Italia crede ancora in me? Anche a me è stata posta la stessa domanda durante la mia visita. Io credo ancora nell'Europa, ma l'Europa crede ancora in me? Penso che sia il nostro lavoro come politici dire con la forza dei fatti "sì" a Veronica e agli altri milioni di europei che si stanno ponendo la stessa domanda.
Ti ringrazio, Giorgio, per essere qui oggi, per essere parte di questa risposta. Benvenuto Presidente della Repubblica.
Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica italiana. - Signor Presidente, caro amico, La ringrazio vivamente per la calorosa accoglienza riservatami e per le amichevoli espressioni di apprezzamento del mio impegno istituzionale al servizio dell'Italia e dell'Europa.
Signori deputati, torno in quest'Aula a sette anni di distanza dall'omaggio che volli rendere al Parlamento europeo poco dopo la mia elezione a Presidente della Repubblica italiana e colgo oggi l'opportunità che mi è stata offerta dal vostro Presidente di rinnovare quell'omaggio, fondandolo su riflessioni scaturite dall'esperienza più recente vissuta da noi tutti.
Nei sette anni trascorsi, la costruzione europea ha dovuto fronteggiare le prove più dure della sua storia. Si è spesso osservato che fin dagli inizi l'Europa comunitaria si sviluppò attraverso crisi via via insorte e poi superate, ma si trattò essenzialmente di crisi politiche nei rapporti tra Stati membri della Comunità; mai – come a partire dal 2008 – di crisi strutturali, nella capacità di crescita economica e sociale, nel funzionamento delle istituzioni, nelle basi di consenso tra i cittadini. Mai era stata, di conseguenza, messa in questione, e radicalmente in questione, la prosecuzione del cammino intrapreso.
Questo è invece il contesto nel quale ci si avvia alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Ritengo perciò che si debba considerare la situazione che si è venuta a creare, anche se in misura e in forme diverse da paese a paese, come un momento della verità, da affrontare fino in fondo e in tutte le sue implicazioni.
È del tutto evidente che la principale fonte del disincanto, della sfiducia e del rifiuto verso il disegno europeo e innanzitutto verso l'operato delle istituzioni dell'Unione risiede nel peggioramento delle condizioni di vita e dello status sociale, che ha investito larghi strati della popolazione nella maggior parte dei paesi membri dell'Unione e dell'eurozona. Il dato emblematico, riassuntivo di tutti gli effetti negativi e traumatici della crisi, è l'aumento della disoccupazione, è l'impennata drammatica della disoccupazione giovanile.
Appare dunque naturale che nel dibattito pubblico e nel confronto politico abbia assunto una netta priorità il tema di una svolta capace di condurre a quell'effettivo rilancio della crescita e dell'occupazione da ogni parte considerato indispensabile e auspicato. Si ritiene cioè che non regga più una politica di austerità ad ogni costo. Quest'ultima ha costituito la risposta prevalente alla crisi del debito sovrano nell'area dell'euro e ha privilegiato drastiche misure per il contenimento del rapporto deficit-PIL, per il riequilibrio, a tappe forzate, della finanza pubblica in ciascun paese dell'area.
E in effetti, di fronte alla crisi che aveva messo pesantemente in questione la sostenibilità finanziaria dei paesi dell'eurozona, non si poteva sfuggire alla necessità di definire e rendere vincolante una disciplina di bilancio rimasta gravemente carente dopo l'introduzione della moneta unica. Signori deputati, voi avete perciò – come Parlamento dell'Unione – giustamente contribuito al varo di importanti pacchetti di misure per stabilire un quadro stringente di sorveglianza e di coordinamento rispetto alle decisioni di bilancio degli Stati membri dell'area euro.
L'Italia, in particolare, ha compiuto in questi anni rilevanti sforzi e sacrifici, essendo bersaglio di forti pressioni sui mercati finanziari per il livello degli interessi sull'ingente debito pubblico accumulato nei decenni precedenti. E nemmeno il netto miglioramento, sotto questo profilo, raggiunto nel corso del 2013, può spingerci a desistere dall'impegno di progressiva sostanziale riduzione del debito, un pesante fardello che non può essere caricato dalla classe dirigente nazionale sulle spalle delle giovani generazioni.
Ma le conseguenze dei severi interventi di stabilizzazione adottati dall'Unione e ancorati ai parametri di Maastricht hanno avuto ricadute di innegabile gravità in termini di recessione, di caduta del prodotto lordo e della domanda interna, specialmente nei paesi chiamati ai maggiori sacrifici, e ciò nonostante scelte coraggiose compiute dalla BCE per contrastare la speculazione sul mercato dei titoli del debito pubblico e per iniettare liquidità nelle molto provate economie dell'eurozona.
La svolta che oggi si auspica da parte di molti non può perciò certamente andare nel senso dell'irresponsabilità demagogica e del ripiegamento su situazioni di deficit e di debiti eccessivi. Essa deve però riflettere la consapevolezza di un circolo vizioso ormai insorto tra politiche restrittive nel campo della finanza pubblica e arretramento delle economie europee, giunte oggi al bivio tra primi segni di ripresa e rischi, se non di deflazione, di sostanziale stagnazione.
Rompere quello che per diversi aspetti è diventato, appunto, un circolo vizioso – suggerendo a un autorevole studioso come Claus Offe l'immagine di una "Europa intrappolata" – è ormai essenziale, se si guarda soprattutto alla condizione di un'intera generazione oggi alla deriva. Ad essa anche una ripresa della crescita – se debole e non finalizzata ad obbiettivi specifici per i giovani privi di lavoro – tende ad offrire scarsa e cattiva occupazione.
Occorre infatti, a questo proposito, tener conto delle radicali trasformazioni tecnologiche intervenute e ancora in corso e dell'arduo confronto competitivo con grandi aree economiche extraeuropee e si deve quindi procedere – dove non lo si è già fatto – a riforme dei sistemi formativi e del mercato del lavoro, investire in conoscenza, ricerca, preparazione della giovane forza lavoro a nuove opportunità e forme di occupazione.
Una crescita sostenuta e qualificata richiede certamente riforme strutturali, ma richiede in pari tempo un rilancio, oltre che di investimenti privati, di ben mirati investimenti pubblici, al servizio di progetti europei e nazionali. A tal fine è necessaria – al di là del riferimento a parametri rigidamente intesi – maggiore attenzione per le effettive condizioni di sostenibilità del debito in ciascun paese e, in relazione a ciò, sufficiente apertura sui modi e sui tempi dell'ulteriore riequilibrio finanziario. Il Parlamento europeo ha dato utili indicazioni con l'ampia risoluzione approvata il 12 dicembre scorso, ispirata a criteri di rinnovata solidarietà in seno all'Unione e in particolare all'eurozona.
Dall'Unione bancaria, avviata già nel giugno 2012 dal Consiglio europeo, a un'adeguata capacità di bilancio dell'Unione fondata su specifiche risorse proprie, a regole forti di coordinamento delle politiche economiche e nazionali, tali da assicurare una crescente coesione tra le economie degli Stati membri: questi ed altri elementi sono collocati dalla vostra risoluzione nel quadro di un rilancio della strategia di "integrazione differenziata", con particolare riferimento alla cooperazione rafforzata nel campo delle politiche economiche e sociali. E non manca, nella risoluzione, il richiamo sia alle potenzialità ancora inesplorate dei trattati vigenti sia alle esigenze, in prospettiva, di modifica dei trattati stessi.
Si va insomma delineando, signori deputati, un cambiamento profondo del modo di essere e di operare dell'Unione europea. I cittadini-elettori non sono dinanzi a una scelta fuorviante tra stanca, retorica difesa, da una parte, di un'Europa che ha mostrato gravi carenze e storture nel cammino della sua integrazione e, dall'altra parte, agitazione distruttiva contro l'euro e contro l'Unione. Sì, puramente distruttiva, anche se in nome di un'immaginaria "altra Europa" da far nascere sulle rovine di quella che abbiamo conosciuto. No, i termini della scelta non sono questi.
(L'oratore è interrotto dalle proteste in Aula).
Der Präsident. - Wir haben ja manchmal so Zwischenspiele zur Erheiterung. Jetzt können Sie fortfahren, Herr Präsident!
(Beifall)
Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica italiana. - Infatti, poste di fronte a una drammatica crisi finanziaria, economica e sociale, le istituzioni europee si sono mosse a fatica, fra troppe esitazioni, divergenze e lentezze, ma si sono certamente mosse nel senso della correzione di comportamenti precedentemente tenuti.
Il presidente Draghi ha negato, in un convegno del novembre scorso a Berlino, che si possa parlare di "un decennio perduto". I paesi dell'area dell'euro sono stati indotti – egli ha detto – ad "usare il secondo decennio di vita dell'euro per disfare gli errori del primo". In queste parole non c'è ombra di retorica, ma chiara consapevolezza autocritica.
L'euro ha rappresentato un'innovazione di valore storico, ma è rimasta per troppi anni monca, priva di complementi essenziali, il che può essere spiegato solo con anacronistiche chiusure e arroccamenti nazionali in campi che dopo l'introduzione dell'euro non potevano rimanere presidiati dalla sovranità nazionale.
La gravità della crisi ha travolto molte resistenze e spinto fortemente nella direzione di una maggiore integrazione. Tuttavia, per quel che riguarda il metodo e il quadro giuridico che sono prevalsi, è indubbio che si sia operato in chiave di decisioni intergovernative e di accordi internazionali, fuori del tracciato comunitario e bisognerà dunque giungere, come chiede il Parlamento e come prevede lo stesso "fiscal compact" a "collocare la governance di un'autentica Unione economica e monetaria all'interno del quadro istituzionale dell'Unione". Perché passa di qui la questione di un deciso rafforzamento della legittimità democratica del processo decisionale in seno all'Unione: questione che si è aggravata nella percezione generale, politica se non tecnica, dell'opinione pubblica, concorrendo al diffondersi tra i cittadini di fenomeni di distacco e diffidenza verso le istituzioni europee.
Voglio dire che – nella crisi di consenso popolare di cui l'Unione europea e il processo di integrazione stanno soffrendo – c'è tutto il peso del malessere economico e sociale che l'Unione non è stata in grado di evitare, ma c'è anche il peso di una grave carenza politica, in varie forme, sul piano dell'informazione e del coinvolgimento dei cittadini nella formazione degli indirizzi e delle scelte dell'Unione. E il cambiamento da proporre all'elettorato deve dunque andare al di là delle politiche economiche e sociali. Così come al di là di esse deve andare la sfida con le forze che negano e avversano il disegno dell'integrazione europea, nella sua continuità e nel suo necessario e possibile rinnovamento.
Una nuova stagione di crescita economica, sostenibile da tutti i punti di vista, è indispensabile per ricreare fiducia, ma essa non basta per garantire la legittimità democratica del processo d'integrazione, se non è accompagnata da nuovi sviluppi in senso istituzionale e politico nella vita dell'Unione.
Penso che quanti di noi credono nella causa dell'Europa unita possano prepararsi al confronto elettorale con serenità e con fiducia, come portatori di cambiamento, tanto più se si restituirà al nostro disegno e alla nostra esperienza il loro volto complessivo, tutta intera la loro ricchezza, dopo averne visto in questi anni prevalere una versione riduttiva, economicistica, con pesanti connotati tecnici.
Si è attenuata – e va riproposta con forza – la visione di quel che si è costruito realmente in poco più di mezzo secolo: non solo un'area di mercato comune e di cooperazione economica, ma una comunità di valori e con essa una comunità di diritto complessa e articolata nel segno della libertà e della democrazia. C'è stato un continuo allargarsi di orizzonti del progetto europeo e si è delineata la prospettiva anche di una comune visione e capacità d'azione europea nel campo delle relazioni internazionali e della difesa e sicurezza. Il lievito di questa costruzione senza precedenti è stato il sentimento di una ricchissima cultura comune: sentimento che abbiamo avvertito giorni fa nell'addio dell'Europa a un grande campione dei valori europei, Claudio Abbado.
Da tutto ciò traggo la conclusione che la costruzione europea ha ormai delle fondamenta talmente profonde, che si è creata un'interconnessione e compenetrazione così radicata tra le nostre società, tra le nostre istituzioni, tra le forze sociali, i cittadini e i giovani dei nostri paesi, che nulla, nulla può farci tornare indietro.
C'è dunque vacua propaganda e scarsa credibilità nel discorso di quanti hanno assunto atteggiamenti liquidatori verso quel che abbiamo edificato nei decenni scorsi, dall'Europa dei 6 all'Europa dei 28. Come si può parlare di "fine del sogno europeo", sostenendo magari che quella fine si potrebbe scongiurarla abbandonando l'euro per salvare l'Unione? La fattibilità e le conseguenze traumatiche di quell'abbandono vengono considerate da qualcuno con disarmante semplicismo, né vedo quale dovrebbe essere il luogo e quali i garanti di un così improbabile scambio.
In effetti, nonostante il moltiplicarsi, in questi anni, delle previsioni catastrofiche sull'imminente crollo dell'euro, le istituzioni dell'Unione e le più avvedute leadership politiche nazionali hanno compreso che per salvaguardare l'intero progetto europeo era essenziale difendere l'euro. Ma è stato necessario fare i conti con gli errori compiuti, dovuti, a ben vedere, all'affievolirsi della volontà politica comune, che aveva reso possibile quel balzo in avanti e che avrebbe dovuto presiedere a tutti i successivi sviluppi dell'integrazione europea, in uno con i processi dell'unificazione tedesca e dell'allargamento dell'Unione.
Se quello che oggi stiamo vivendo e che si manifesterà nell'imminente confronto elettorale, è – come ho detto all'inizio – un momento della verità per la causa dell'unità e del futuro dell'Europa, condizione decisiva del successo è una nuova, più forte e decisa volontà politica comune, capace di trasmettere alle più vaste platee di cittadini le ragioni storiche e le nuove motivazioni del progetto europeo. Trasmetterle razionalmente ed emotivamente: deve trattarsi cioè di un messaggio appassionato, profondamente sentito, come quello consegnatoci da grandi immagini dei passati decenni. Quella, ad esempio, di François Mitterrand ed Helmut Kohl che rendono omaggio, mano nella mano, ai caduti nella terribile battaglia di Verdun durante la prima guerra mondiale.
Si è scritto che quei "due grandi europei erano impregnati di sentimento tragico della Storia": di lì il loro europeismo, fino all'accordo sull'unificazione tedesca e sulla moneta unica, ma di quel sentimento erano "impregnati" tutti i padri fondatori dell'Europa comunitaria, firmatari della dichiarazione Schuman del maggio 1950, fautori della prospettiva di una Federazione europea.
Non mi ha però mai contagiato il timore che, nel passaggio delle responsabilità politiche e di governo a generazioni successive, potessero dissolversi l'ispirazione, la consapevolezza, la volontà politica comune europea, culminata nell'unificazione dell'intero continente su basi di pace e di libertà. Tuttavia, che queste non si siano dissolte e possano ritrovare forza in un contesto diverso e nuovo, è ciò di cui si deve ora dare l'estrema prova.
Naturalmente, le motivazioni del progetto europeo sono divenute altre ed esse possono ben parlare agli europei di questo secolo, agli europei del mondo di oggi.
Ieri la molla del porre fine ai nazionalismi economici e politici, generatori di conflitti fatali, era una molla potente per conquistare consensi alla causa dell'unità europea. Ebbene, una molla non meno potente può essere oggi quella dello scongiurare il declino del nostro continente, di quel che esso ha rappresentato nella storia. L'Europa nel suo insieme è diventata più piccola rispetto ad altri continenti in termini di peso demografico, di potenza economica, di ruolo negli equilibri mondiali, ma se saprà unire sempre di più le sue forze, potrà continuare a dare il suo apporto peculiare allo sviluppo storico e all'avvenire della civiltà mondiale.
La missione nuova ed esaltante dell'Europa unita è quella di far vivere, nel flusso di una globalizzazione che potrebbe sommergerci come nazioni europee, la nostra identità storica, il nostro inconfondibile retaggio culturale, il nostro esempio e modello di integrazione sovranazionale, di comunità di diritto, di economia sociale e di mercato.
Perché questa missione sia condivisa dai popoli della nostra Unione e possa essere portata avanti con successo, occorre però una più forte coesione politica europea, una più convinta e determinata leadership politica europea. Trent'anni fa, esattamente trent'anni fa qui a Strasburgo – lasciate che lo ricordi – Altiero Spinelli riuscì a far esprimere al Parlamento europeo questa capacità di leadership con il progetto di trattato che porta il suo nome. L'occasione non fu allora raccolta, ma la sua ispirazione costituzionale ha continuato a vivere e a contare, anche perché la sua idea di Europa federale non aveva nulla a che fare con lo spauracchio agitato da varie parti di un super-Stato centralizzato.
Molta strada dal 1984 ad oggi è stata dunque fatta, ma restano da vincere ancora dure battaglie politiche, se non contro possibili ritorni di nazionalismi aggressivi, certamente contro persistenti egoismi e meschinità nazionali, contro ristrettezze di vedute, calcoli di convenienza e conservatorismi anacronistici, quotidianamente riscontrabili nelle classi dirigenti nazionali.
Manca oggi – ha di recente notato Helmut Schmidt – "la vista lunga" in troppi leader europei, per insufficiente consapevolezza del declino che minaccia l'Europa. I padri fondatori e costruttori dell'Europa comunitaria non erano solo "impregnati di sentimento tragico della storia", erano in pari tempo portatori di un'audace e realistica visione del futuro. E questa può darla oggi, ovvero nei prossimi anni, solo una politica che si faccia finalmente europea, mentre finora in un continente così interconnesso come il nostro, la politica è rimasta nazionale, con i suoi fatali limiti e con le sue diffuse degenerazioni.
Una politica europea, uno spazio pubblico europeo, dei partiti politici europei, che cos'è l'Unione politica di cui si parla, se non si fa vivere su scala europea il confronto politico democratico, la competizione tra le diverse correnti ideali e forze politiche organizzate? È questo un grande salto in avanti da compiere e rispetto al quale molto hanno da dire il Parlamento e i parlamentari europei, in stretto raccordo con i parlamenti e i parlamentari nazionali, per raggiungere le masse più larghe di cittadini, coinvolgendoli in una più informata e attiva partecipazione politica alla costruzione di un'Europa più unita, più democratica, più efficace.
In questo Parlamento, d'altronde, opera già il nucleo originario e vitale dei partiti politici europei. È qui che si raccolgono le maggiori sensibilità e competenze su cui poter fondare un messaggio politico per il governo dell'Europa da condividere con i cittadini, al di là del linguaggio in codice e dei complessi tecnicismi delle istituzioni di governo dell'Unione.
È nelle vostre mani, signor Presidente, signori deputati, per gran parte nelle vostre mani, il compito di far nascere e crescere la dimensione politica dell'integrazione europea, nella nuova fase di sviluppo che per essa si apre.