PROPOSTA DI RISOLUZIONE COMUNE sul Sudan – il caso di Meriam Yahia Ibrahim
16.7.2014 - (2014/2727(RSP)).
in sostituzione delle proposte di risoluzione presentate dai gruppi:
ECR (B8‑0010/2014)
PPE (B8‑0012/2014)
ALDE (B8‑0014/2014)
Verts/ALE (B8‑0017/2014)
S&D (B8‑0018/2014)
GUE/NGL (B8‑0022/2014)
Cristian Dan Preda, Tunne Kelam, Bogdan Brunon Wenta, Mariya Gabriel, Jarosław Leszek Wałęsa, Seán Kelly, Petri Sarvamaa, Monica Luisa Macovei, Michèle Alliot-Marie, Philippe Juvin, Pavel Svoboda, Jaromír Štětina, László Tőkés, Agnieszka Kozłowska-Rajewicz, Andrej Plenković, Davor Ivo Stier, Franck Proust, Andrzej Grzyb, Joachim Zeller, Lars Adaktusson a nome del gruppo PPE
Josef Weidenholzer, Victor Boştinaru, Linda McAvan, Ana Gomes, Richard Howitt, Marc Tarabella, Lidia Joanna Geringer de Oedenberg, Liisa Jaakonsaari, Corina Creţu, Luigi Morgano, Pier Antonio Panzeri, Silvia Costa a nome del gruppo S&D
Charles Tannock, Jana Žitňanská, Beatrix von Storch, Peter van Dalen a nome del gruppo ECR
Marietje Schaake, Ivo Vajgl, Alexander Graf Lambsdorff, Louis Michel, Petras Auštrevičius, Petr Ježek, Marielle de Sarnez, Izaskun Bilbao Barandica, Charles Goerens, Ramon Tremosa i Balcells, Johannes Cornelis van Baalen, Javier Nart a nome del gruppo ALDE
Marie-Christine Vergiat, Pablo Iglesias, Pablo Echenique Robba, Carlos Jiménez Villarejo, Lola Sánchez Caldentey, Tere Rodriguez-Rubio Vázquez, Dennis de Jong a nome del gruppo GUE/NGL
Judith Sargentini, Barbara Lochbihler, Heidi Hautala, Bart Staes, Ernest Urtasun, Ulrike Lunacek a nome del gruppo Verts/ALE
Risoluzione del Parlamento europeo sul Sudan – il caso di Meriam Yahia Ibrahim
Il Parlamento europeo,
– vista la dichiarazione congiunta del 10 giugno 2014 rilasciata dal Presidente della Commissione, dal Presidente del Consiglio europeo e dal Presidente del Parlamento assieme ai partecipanti alla riunione ad alto livello con i leader religiosi tenutasi in tale data,
– viste le dichiarazioni del 15 maggio 2014 del Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, sulla condanna a morte per apostasia promulgata in Sudan,
– vista la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e la dichiarazione delle Nazioni Unite sull'eliminazione di tutte le forme d'intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo,
– visto il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici,
– vista la Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli,
– vista la seconda revisione dell'accordo di Cotonou del 2012,
– visti gli orientamenti dell'Unione europea sulla libertà di religione o di credo del 2013,
– visto il primo protocollo alla Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli sui diritti della donna in Africa,
– vista la Carta araba dei diritti dell'uomo,
– visti i diritti dei minori,
– visti l'articolo 135, paragrafo 5, e l'articolo 123, paragrafo 4, del suo regolamento,
A. considerando che a fine 2013 Meriam Yahia Ibrahim (figlia di una madre cristiana etiope e di un padre musulmano sudanese), che era stata educata come cristiana, è stata accusata di adulterio da parte della famiglia paterna, che la ha denunciata alle autorità per aver sposato un cristiano; che l'accusa di apostasia è stata aggiunta nel dicembre 2013;
B. considerando che il verdetto del tribunale di primo grado è stato pronunciato il 12 maggio 2014 e ha condannato Meriam Ibrahim, allora all'ottavo mese di gravidanza, a cento frustate per l'accusa di adulterio e alla morte per impiccagione per l'accusa di apostasia, concedendole tre giorni di tempo per rinunciare al cristianesimo; che Meriam Ibrahim è stata condannata secondo la legge islamica (Sharia) in vigore nel Sudan dal 1983, che vieta la conversione e la punisce con la morte; che il 15 maggio 2014 il verdetto è stato confermato poiché Meriam Ibrahim ha deciso di non convertirsi all'Islam;
C. considerando che il 27 maggio 2014 Meriam Ibrahim ha dato alla luce una bambina, Maya, in carcere; che pare che, durante il travaglio, le gambe di Meriam Ibrahim siano state tenute incatenate, mettendo in serio pericolo la salute della madre e della bambina; che ciò costituisce una grave violazione dei diritti della donna e del bambino;
D. considerando che il 5 maggio 2014 il caso è stato trasferito con successo alla Corte d'appello;
E. considerando che Meriam Ibrahim è stata rilasciata dal carcere femminile di Omdurman il 23 giugno 2014, dopo che la Corte d'appello l'aveva dichiarata non colpevole per entrambe le accuse, ma che è stata nuovamente arrestata all'aeroporto di Khartoum, quando la famiglia era sul punto di partire per gli Stati Uniti, con l'accusa di aver tentato di lasciare il paese con documenti di viaggio falsi rilasciati dall'ambasciata del Sud Sudan a Khartoum;
F. considerando che Meriam Ibrahim è stata nuovamente liberata il 26 giugno 2014 e si è rifugiata nell'ambasciata degli Stati Uniti con la sua famiglia, e che sono in corso negoziati per permetterle di lasciare il Sudan, dove è oggetto di minacce di morte da parte di estremisti musulmani;
G. considerando che la libertà di pensiero, di credo e di religione è un diritto umano universale che deve essere protetto ovunque e per tutti; che il Sudan ha ratificato le pertinenti convenzioni dell'ONU e dell'Unione africana e ha quindi un obbligo internazionale di difendere e promuovere la libertà di religione o di credo, che include il diritto di adottare, cambiare o abbandonare la propria religione o il proprio credo seguendo la propria libera volontà;
H. considerando che la Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, ratificata dalla Repubblica del Sudan, include il diritto alla vita e il divieto della tortura e di trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti, ma che la pena di morte, la fustigazione, l'amputazione e altre forme di punizione corporale sono ancora applicate in Sudan per tutta una serie di reati;
I. considerando che le autorità sudanesi ricorrono in modo sproporzionato alla condanna di donne e ragazze in base ad accuse di reati mal definiti, per decisioni personali e private che non avrebbero mai dovuto entrare nell'ambito penale; che le donne sono vittime, in modo sproporzionato, di punizioni crudeli come la fustigazione, in violazione dei loro diritti umani e della loro dignità, privacy e uguaglianza;
J. considerando che il Sudan ha aderito alla Carta araba dei diritti dell'uomo, il cui articolo 27 prevede che le persone di tutte le religioni hanno il diritto di praticare la propria fede;
K. considerando che la Repubblica del Sudan è vincolata dalla clausola sui diritti umani dell'accordo di Cotonou[1] e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici[2];
L. considerando che, nonostante il presidente Omar al-Bashir abbia dichiarato l'avvio di un dialogo nazionale nel gennaio 2014, la detenzione di Meriam Ibrahim e il suo trattamento inumano sono emblematici di un giro di vite preoccupante da parte delle autorità sudanesi nei confronti di minoranze, attivisti dei diritti umani, studenti manifestanti, giornalisti, politici di opposizione e organizzazioni fondate sui diritti, in particolare quelle che promuovono i diritti delle donne e la responsabilizzazione dei giovani;
1. condanna la detenzione ingiustificata di Meriam Ibrahim; esorta il governo del Sudan ad abrogare tutta la legislazione che discrimina in base al genere o alla religione e a proteggere l'identità religiosa delle minoranze;
2. sottolinea che è degradante e inumano per una donna partorire incatenata e fisicamente trattenuta; invita le autorità sudanesi a garantire che tutte le donne incinte o puerpere che sono detenute ricevano un'adeguata e sicura assistenza sanitaria materna e neonatale;
3. ribadisce che la libertà di coscienza, di credo e di religione è un diritto umano universale che deve essere protetto ovunque e per tutti; condanna fermamente tutte le forme di violenza e intimidazione che compromettono il diritto di avere, di non avere o di adottare una religione di propria scelta, compreso l'uso di minacce, di forza fisica o di sanzioni penali per costringere i credenti o i non credenti a rinunciare alla propria religione o convertirsi; sottolinea che l'adulterio e l'apostasia sono atti che non dovrebbero neanche essere qualificati come reati;
4. ricorda che il Sudan ha ratificato le pertinenti convenzioni dell'ONU e dell'Unione africana e ha quindi un obbligo internazionale di difendere e promuovere la libertà di religione o di credo, che include il diritto di adottare, cambiare o abbandonare la propria religione o il proprio credo seguendo la propria libera volontà;
5. esige che il governo sudanese - in linea con i diritti umani universali – abroghi tutte le disposizioni di legge che penalizzano o discriminano le persone per le loro convinzioni religiose, perché cambiano religione o credo o per aver indotto altri a cambiare religione o credo, soprattutto quando i casi di apostasia, eterodossia o conversione sono punibili con la morte;
6. sottolinea che tali leggi sono in contrasto con la Costituzione temporanea del Sudan del 2005, con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e con il Patto internazionale sui diritti civili e politici, ed esorta il Sudan a ratificare il secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici, mirante ad abolire la pena di morte[3];
7. esorta il Sudan a proclamare una moratoria immediata delle esecuzioni in vista dell'abolizione della pena di morte e di tutte le forme di punizione corporale;
8. rileva con preoccupazione la persistente e frequente violazione dei diritti delle donne in Sudan, in particolare dell'articolo 152 del codice penale del Sudan; esorta le autorità sudanesi a firmare rapidamente e ratificare la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne;
9. rileva con preoccupazione che l'impunità per gravi violazioni dei diritti umani rimane un problema diffuso e grave nel Sudan, come nel caso del conflitto nel Darfur, dove le autorità non hanno perseguito la stragrande maggioranza dei gravi reati commessi, compresi atti di violenza sessuale; esorta il governo sudanese a indagare sulle violazioni dei diritti umani, compresi uccisioni, torture e maltrattamenti di detenuti, stupri e altre forme di violenza sessuale, e a perseguirne i responsabili;
10. ribadisce la propria ferma adesione a una rigida separazione tra religione o credo da una parte e Stato dall'altra, il che implica il rifiuto di qualsivoglia ingerenza religiosa nel funzionamento del governo, nonché la non discriminazione in base alla religione o al credo;
11. esorta il governo del Sudan ad aderire al primo protocollo alla Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli sui diritti delle donne in Africa e al protocollo della Corte di giustizia dell'Unione africana, ambedue adottati a Maputo, in Mozambico, l'11 luglio 2003;
12. esorta il governo del Sudan ad intraprendere, con il sostegno della comunità internazionale, una urgente riforma giuridica al fine di tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali, garantire la tutela dei diritti umani di ciascun individuo e affrontare, in particolare, la discriminazione contro le donne, le minoranze e i gruppi svantaggiati;
13. esprime il proprio sostegno agli sforzi volti a raggiungere una soluzione negoziata inclusiva alla situazione in Sudan, e sostiene gli sforzi delle parti della società civile e dell'opposizione per promuovere il processo di pace;
14. invita l'Unione europea ad assumere un ruolo di guida premendo per una ferma risoluzione sul Sudan alla prossima sessione del Consiglio per i diritti umani del settembre 2014, nella quale si tratti delle gravi e diffuse violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale in tale paese;
15. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione, agli Stati membri, al governo del Sudan, all'Unione Africana, al Segretario generale delle Nazioni Unite, ai Copresidenti dell'Assemblea parlamentare paritetica ACP-UE e al Parlamento panafricano.
- [1] Accordo di partenariato tra i membri del gruppo degli Stati dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP), da un lato, e la Comunità europea e i suoi Stati membri, dall'altro, firmato a Cotonou il 23 giugno 2000 (accordo di Cotonou).
- [2] Risoluzione 2200A (XXI) dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, del 16 dicembre 1966.
- [3] Risoluzione 44/128 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, del 15 dicembre 1989.